Introduzione di Dario Cattaneo
Report a cura di Dario Cattaneo e Lorenzo Ottolenghi
Fotografie di Francesco Castaldo
Serata dedicata al power, quella di questo mercoledì di aprile nel noto locale meneghino, una serata interessante non solo per il ritorno degli headliner Stratovarius, forti peraltro di un album gradito da critica e pubblico, ma anche per la presenza di uno dei fenomeni più chiacchierati del momento, ovvero gli Amaranthe, la band voluta da Olof Moork che si presenta con ben tre cantanti solisti e sonorità decisamente occhieggianti verso lidi danzerecci ed elettronici. Peccato che, almeno all’inizio del concerto, l’atmosfera dell’Alcatraz non sia certo quella delle grandi occasioni: pochi, anzi, pochissimi presenti girano un po’ distratti per il locale semivuoto e qua e là, tra magliette nere, pelle e capelli lunghi d’ordinanza, si intravedono alcune camicie e tenute ‘aziendali’. Complice un orario fin troppo anticipato, in molti sembrano essere accorsi al concerto per vedere i loro beniamini avendo appena lasciato i rispettivi posti lavorativi. Nel frattempo, fuori il Sole non è ancora calato sulla serata, ma sul palco già si stanno facendo i check delle luci, segno che la prima band, gli statunitensi Seven Kingdoms, tra breve inizierà a suonare…
SEVEN KINGDOMS
In pochi hanno dato segno di conoscere la musica di questa power band proveniente dalla Florida, ma se dobbiamo dirvi una nostra sensazione, siamo abbastanza sicuri che saranno invece di più quelli che si ricorderanno di loro dopo questo concerto. A parte l’energica performance, caratterizzata sicuramente da un’ottima preparazione tecnica e da una pulizia invidiabile, a colpirci sono stati soprattutto l’incredibile simpatia ed il coinvolgimento mostrato dai ragazzi sul palco. Considerata l’ora ed il conseguente scarso affollamento sotto il palco, sarebbe stato facile per i cinque prodursi in uno show soltanto ‘buono’, limitandosi per così dire al compitino ed andandosene via dopo le loro cinque-sei canzoni; invece i Seven Kingdoms dimostrano di saper tenere il palco non solo dal punto di vista tecnico-esecutivo, ma anche da quello, ben più importante, del carisma e del puro intrattenimento. Mentre la band macina alla perfezione il proprio power massiccio nella più pura tradizione teutonica, la minutissima ma simpatica frontgirl Sabrina Valentine si dispensa in simpatici siparietti con il pubblico, durante i quali interagisce con spontaneità e spigliatezza con gli accorsi alle prime file, regalando delle magliette del gruppo e posando in maniera simpatica per le varie fotografie. Parlando delle prestazioni singole, anche qui abbiamo solo buone parole: sicuramente in palla la piccola cantante, precisissimi i due energumeni alle asce, molto attivo il giovane e lungocrinito bassista Aaron Sluss e veramente devastante il tellurico batterista Keith Byrd, una vera macchina da guerra. “After The Fall”, “Fragile Mind Collapse” e “King In The North” colpiscono dunque nel segno, presentandoci in maniera ancora migliore un album già di suo carino, e facendoci capire che è ancora possibile divertirsi su di un palco anche se si hanno solo mezz’ora a disposizione e poche persone davanti.
(Dario Cattaneo)
AMARANTHE
Il momento più controverso di questa bella serata metal è stato indubbiamente lo show degli Amaranthe. New sensation mediatica della scena metal generica, questa band dalle origini svedesi ha sempre fatto parlare di sé: tra chi lo definisce ‘supergruppo’ di musicisti della scena power, chi ne parla come di un progetto solista di Olof Mork (Nightrage, Dragonland) e chi sostiene che si tratti di una band a tutti gli effetti, l’indefinibilità è sempre stata una prerogativa del gruppo, qualità che rimane poi riflessa anche sul genere suonato, un indefinibile (appunto) mix di heavy, metalcore, power, voci death, cantato femminile e ritmiche dance. A conti fatti, però, possiamo dire che proprio questo un po’ improbabile mix di generi lontani fra loro è quello che ha permesso alla band – come vedremo ‘zoppa’ di due dei suoi pilastri portanti – di portare a casa uno show dall’esito tutto sommato positivo. Lo spettacolo parte infatti male a causa delle notizie che ci erano giunte su un malessere generale che aveva colpito nel pomeriggio la bella vocalist Ryd. Questo fatto, aggiunto alla già annunciata defezione di Solvestrom, sostituito dal frontman degli Scarpoint Heinrik Englund, lasciava infatti la band, da sempre nota per la particolare alchimia tra i suoi tre cantanti solisti, virtualmente orfana di ben due terzi del suo punto forte. La prestazione della Ryd infatti, fino alle ultime, poche, canzoni è stata decisamente un po’ sottotono, mentre tutto l’impegno messo dal volenteroso Englund non è bastato a convincerci del fatto che non stesse solamente interpretando il ruolo di qualcun altro. Ma, come dicevamo, le canzoni stesse sono intervenute a sorreggere il traballante castello di carte, evitando il crollo: conosciute da buona parte dei presenti, fortemente orecchiabili, ‘paracule’ quanto basta per piacere a quasi tutti. La potenza e l’immediatezza di brani come “Hunger”, “The Nexus”, “Amarathine”, “Invincible”, solo per citare i più noti, riescono comunque a calamitare l’attenzione del pubblico, salvando la band da fischi e versi; invece, a sorpresa, un bellissimo striscione dedicato ai Nostri spunta dalle prime file, e viene a più riprese mostrato al pubblico dall’incontenibile Jack E (ha dovuto sobbarcarsi l’80% dell’attenzione della folla, per coprire i problemi di cui abbiamo parlato) e da una commossa (alle lacrime) Ryd. Insomma, la serata gli Amaranthe l’hanno portata a casa e, nonostante i problemi riscontrati abbiano fortemente minato i loro equilibri interni, non possiamo che riconoscere alle canzoni del gruppo, spesso criticate, un potere d’attrazione che su disco non avevamo percepito. Sorpresa.
(Dario Cattaneo)
STRATOVARIUS
Gli Stratovarius mancavano dall’Italia da più di due anni e, essendo una band particolarmente amata e seguita nel nostro paese, c’era grande attesa per questa data da headliner. Inoltre, dall’ultima calata italica, la sofferta line-up dei power metaller finlandesi aveva subito un ulteriore cambiamento, visto l’addio di Jörg Michael. Grande sorpresa, quindi, quando nel breve meet-and-greet precedente il concerto troviamo l’ex batterista della band a gironzolare per i corridoi dell’Alcatraz, in qualità di tour manager. E’ nella stessa occasione che incontriamo una formazione ‘carica’ (con tanto di Johansson che canticchia i pezzi), anche se una sciarpa al collo di Kotipelto getta oscuri presagi. Nulla di più sbagliato. Si parte con “Abandon”, presa dal nuovo lavoro “Nemesis”, seguita da “Speed Of Light” e “Halcyon Days”. Gli Stratovarius sono decisamente in forma, sono affiatati, precisi nel suonare e la voce di Timo (che non si può pretendere sia la stessa di quindici anni fa) è comunque potente e sorretta da qualche ri-arrangiamento e cambio di tonalità, che gli permette di cantare un po’ più basso dei tempi che furono. I Nostri pescano ancora da “Episode” con un’impeccabile “Eternity”, per poi tornare a “Nemesis” con “Dragons”, inframezzate da un breve solo di batteria che mostra l’abilità del giovane Rolf Pilve, soprattutto in considerazione del fatto che viene suonato in un momento differente rispetto alla normale scaletta del tour, per riempire il tempo necessario a Jens Johansson per sistemare alcuni problemi con il laptop collegato alle tastiere. Kotipelto, non certo il frontman più espansivo del mondo, tiene comunque molto bene il palco e l’abilità della band è tale da mantenere vigile e partecipe il pubblico, nonostante l’ampia presenza di materiale dell’ultimo disco (scelta, solitamente, non molto gradita dai fan). E’ il momento di “Eagleheart”, con una partecipazione massiccia del pubblico ed un sing-along che non ha quasi bisogno di essere richiesto dalla band. “Stand My Ground” e “Fantasy” continuano l’alternanza tra vecchio e nuovo. La band è sul palco da un po’ ma, rispetto alle ultime esibizioni (almeno quelle a cui ha assistito il sottoscritto, come al Wacken Open Air nel 2011), stupiscono la tenuta della voce di Kotipelto e un Matias Kupiainen finalmente a suo agio, preciso e senza più timori reverenziali verso il passato. In quest’ ottica parte la lunga “Destiny”, pezzo difficile in cui gli Stratovarius danno il meglio di loro stessi, con un’esecuzione quasi ineccepibile. Tanto basterebbe, ma le tastiere iniziano l’intro di “Black Diamond” (innegabilmente uno dei momenti che ogni fan della band aspetta), che chiude il concerto. Ma, naturalmente, c’è ancora tempo per gli encore: si parte con la tirata “Unbreakable” che svolge egregiamente il ruolo di anthem song, seguita da un’intima “If The Story Is Over” in versione acustica (di cui Kotipelto è anche autore, con Jani Liimatainen, insieme al quale ha un certo trascorso di arrangiamenti acustici ). E’ ormai davvero tempo di chiudere ed arriva puntuale “Hunting High And Low”. Forse qualche incursione in più nel repertorio della band non avrebbe guastato, ma – evidentemente – gli Stratovarius sanno di aver composto un disco ben al di sopra delle loro ultime release e ci tengono a ribadire che questo è il tour di “Nemesis”. Un atteggiamento coraggioso che i fan, comunque, hanno premiato, in risposta alla prova notevole della band.
(Lorenzo Ottolenghi)