Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Luca Pessina, Maurizio ‘MO’ Borghi e Marco Gallarati
Mercoledì 13 agosto 2008, ore 19.52: la truppa di Metalitalia.com giunge nei pressi dell’agognata Dinkelsbühl, la graziosa cittadina medievale ormai da tre anni sede del Summer Breeze Open Air. Solo poco meno di dieci chilometri separano l’intrepido terzetto dalla monumentale camping area: un rapido attraversamento del paese, una rotonda, un altro pezzo di strada fra le campagne e poi ecco la roulotte adibita a box accrediti, anteprima dell’arrivo alla tendopoli. Ebbene…a conti fatti, le tende dei vostri sconvolti inviati risulteranno essere pronte e montate all’1.30 di notte, con buona pace di Hail Of Bullets e Born From Pain, due band che meritavano almeno una guardatina: ben cinque ore di coda a passo d’uomo per fare pochi chilometri!! Ed è pure giunta voce di gente che di ore di attesa in macchina ne ha fatte quattordici! Pazzesco. Benvenuti, dunque, al Summer Breeze 2008, happening sempre più vicino a raggiungere dimensioni Wackeniane. D’accordo, il sold-out era stato raggiunto con un mese d’anticipo, ma nessuno si aspettava un così grande allargamento del festival in toto: più gruppi a dividersi fra Main Stage, Pain Stage e Party Tent (quest’anno sfruttata anche in pieno giorno), più ampia l’area campeggio, più stand dedicati al merchandise e al catering, più perquisizioni all’entrata (con tanto di postazioni fisse e adesivo sulla macchina a mo’ di avviso di ‘controllo avvenuto’), più navette di servizio tra il festival e Dinkelsbühl ed in generale più gente ovunque e distanze aumentate. Tutto questo – è bene ricordarlo, prima di gettare ombre su questa espansione – messo a disposizione ad un prezzo veramente contenuto e più che abbordabile. Per fortuna, una volta acclimatatisi e bevute le prime birre, ci si è riusciti ad accorgere come l’atmosfera di enorme scampagnata all’aperto che permea sempre i festival europei non sia affatto andata perduta e davvero possiamo trovarci ancora a dire, nonostante i presagi nefasti della sera del prologo, di esserci divertiti un mondo: anche il tempo è stato sufficientemente clemente, con solo un lungo acquazzone mattiniero e sporadici scrosci di pioggia, mentre, al contrario, il freddo si è rivelato, soprattutto di sera, l’acerrimo nemico. Passando ad un sommario giudizio sul bill, bisogna dire che quest’anno gli organizzatori hanno lasciato un po’ a desiderare, non tanto per i nomi chiamati a presenziare – folk, gothic ed estremo restano i punti fermi del Summer Breeze – bensì per le ardite sovrapposizioni programmate e, più di tutto, per la scelta di far suonare nella Party Tent almeno una decina di gruppi che avrebbero stra-meritato l’onore del Pain Stage. Facciamo solo un paio di esempi: gente apprezzata come Misery Speaks e Tyr hanno dovuto limitarsi al tendone, mentre gruppacci senza un briciolo di senso (Midnattsol, Megaherz, gli orrendi Emil Bulls, Mad Sin, Schelmish) hanno potuto usufruire di un’audience più corposa. Non stiamo a discutere poi la scelta degli headliner giornalieri (nell’ordine: Helloween, Subway To Sally e Cradle Of Filth), in quanto alla Brezza D’Estate non è argomento di primaria importanza. Per concludere, nel decidere a quali band dedicare il report, una volta tanto – essendo ovviamente impossibile occuparsi di tutte le 80 formazioni in programma, peraltro visionate quasi al completo – abbiamo dato la precedenza a gruppi trattati con meno frequenza dal nostro portale, lasciando a chi c’era il ricordo dei concerti di Soilwork, Arch Enemy, Korpiklaani, Dismember, Neaera, Ensiferum, Paradise Lost, Destruction e Kataklysm fra gli altri. Senza dimenticare – per carità divina – i temibili blackster Endstille, piccola istituzione in Germania e vincitori assoluti del concorso ‘Le magliette di quale gruppo si vedono più in giro?’. Terminata questa lunga introduzione, vi lasciamo finalmente ai trafiletti sulle singole performance. Buona e paziente lettura!
GRAVEWORM
Dopo esserci ripresi dallo sconforto della sera prima grazie ad un’abbondante colazione in quel di Dinkelsbühl e dopo aver ammirato gli Aborted frantumare letteralmente le velleità delle prime, imbarazzanti band dell’ora di pranzo, il Summer Breeze inizia a fare sul serio con l’esibizione dei Graveworm, il combo di Bolzano che da anni è realtà in terra tedesca e poco più che band di secondo piano in suolo italico. Ciò viene dimostrato dalla massiccia presenza di metalhead sotto al Party Stage, preso d’assalto nell’attesa di vedere la nostra compagine nel suo massimo splendore. I ragazzi ci danno dentro e, grazie a suoni granitici e ben equilibrati e volumi adeguati, il loro black-death sinfonico con rimandi groovy si impossessa facilmente dell’audience, peraltro già caricata da fiumi di birra. Inoltre, esprimendosi in tedesco, per Stefan Fiori è davvero facile coinvolgere il pubblico, addirittura talmente temerario da effettuare un wall of death, per la verità un po’ fuori luogo per una band come i Graveworm. Comunque sia, ottima prova per i nostri alfieri, confermatisi formazione di valore europeo.
THE WILDHEARTS
Per moltissimi appassionati di rock n’ roll Ginger è una leggenda e i suoi The Wildhearts sono un gruppo imperdibile, ma l’esibizione odierna ha confermato sia la continua lotta che il fulvo inglese prosegue imperterrito a sostenere da anni, sia l’indistruttibile cuore che gli permette di calcare ancora le scene come fosse un ragazzino: c’è pochissima gente davanti al palco, ma nonostante questo i britannici propongono il meglio del loro repertorio. Lo show è coinvolgente e vario grazie alle cover scanzonate di Fu Manchu ed Helmet e all’alternarsi dei membri della band dietro il microfono, che, aggiungendosi ai propri classici, regalano una scaletta impeccabile. Non fermarti, Ginger!
BEHEMOTH
I Behemoth sono in continua ascesa e lo dimostra “The Apostasy”, uno degli album cardine del 2007 per ogni appassionato di metal estremo che si rispetti. Il brand di black e death metal di Nergal e soci è elevato alla massima espressione nei live show della band, sempre ineccepibili fino a sfiorare la coreografia. Anche se il Sole non è ancora calato del tutto e i suoni non sono da subito perfetti, il coinvolgimento del Pain Stage è invidiabile sotto i colpi inferti con precisione maniacale dai polacchi: “Slave Shall Serve”, “At The Left Hand Ov God”, “Prometherion” rendono quanto i classici come “Chant Per Eschaton”, in un set perfetto pure esteticamente, con le maschere impressionanti, i fuochi, le pagine della Bibbia gettate alle prime file e quant’altro. Nessun colpo di scena, è vero, ma una costanza qualitativa e una continuità impressionante fanno dei Behemoth dei leader della scena, meritevoli dell’adorazione del pubblico. Una sicurezza.
AHAB
Mentre sul Pain Stage si stanno esibendo i polacchi Behemoth, nella Party Tent scendono in campo i tedeschi Ahab, rivelazione funeral doom del 2006. La band della Napalm Records ha raccolto un buon numero di pubblico per la sua performance, davvero molto professionale, sentita e perfetta al millesimo. Le atmosfere del magnifico “The Call Of The Wretched Sea”, album incentrato sul classico ‘Moby Dick’ di Melville, sono state facilmente richiamate dal gruppo, grazie a suoni corposi e densi, ma anche tramite il soffuso dipanarsi degli arpeggi nelle sezioni acustiche dei lunghi brani. Tre soli i pezzi proposti nella mezzora di tempo a disposizione, ma tanto è bastato agli Ahab per convincere chiunque si sia trovato sotto il palco durante il loro show. Particolarmente apprezzate le vocals, sia clean che growl, di Daniel Droste, una vera sorpresa. Non a caso, il CD dei giovani tedeschi è risultato poi esaurito alle bancarelle. Ottimi.
HELLOWEEN
Gli headliner del giovedì prendono possesso del palco poco prima delle 23, guidati dall’inossidabile Michael Weikath e dal funambolico Andi Deris. Oltre alla scenografia, dedicata all’ultimo “Gambling With The Devil”, salta subito all’occhio la serie di fusti che il batterista Daniel Loeble percuoterà come parte integrante dell’assolo di metà show. Esibizione da manuale ed estremamente piacevole quella dei powergods tedeschi, che partono con “Halloween”, citano successivamente “Gambling With The Devil” e, per la gioia di tutti, si dedicano al repertorio storico con “Eagle Fly Free”, “If I Could Fly”, “Dr. Stein”, “Power” e “Perfect Gentlemen”. Deris, totalmente confidante nelle sue possibilità, non esita a giocare sempre col pubblico, lasciando spazio agli altri membri della band sotto i riflettori e continuando costantemente a regalare spettacolo, spogliandosi della giacca di pelle a metà esibizione e indossando giacca e cilindro, mentre zucche giganti si gonfiano a lato palco. I bis di “Future World” e “I Want Out” chiudono un’esibizione prevedibile ma impeccabile.
TYR
La Party Tent, in questa prima nottata di Summer Breeze, riserva davvero gruppi uno più interessante dell’altro: i Cephalic Carnage hanno da poco finito di devastare lo stage, quando i faroesi Tyr danno inizio ad uno degli show più seguiti in assoluto sotto il Tendone della Festa. Come ogni formazione che mischi metal a folk, in Germania la band ha un seguito notevole e dunque le acclamazioni di giubilo si sprecano ad ogni brano eseguito da Heri Joensen e compagni. “Eric The Red” sembra essere l’album che ancora più appassiona i fan, sebbene i seguenti “Ragnarok” e “Land” siano sicuramente stati più utili a far accrescere la nomea della formazione vichinga: solo “Wings Of Time” tratta da “Ragnarok” ed un paio di perle da “Land”, infatti, hanno interrotto lo strapotere di “Eric The Red”. Buona la prestazione dei ragazzi, aiutati anche dai suoni sempre buoni dell’impianto della Party Tent. La conclusiva “Hail To The Hammer” è stata la piccola apoteosi di un concerto che avrebbe meritato senza dubbio una visibilità maggiore ed un orario migliore. Attendiamo di rivederli presto in Italia.
CULT OF LUNA
Una proposta come quella dei Cult Of Luna non rende granchè negli spazi aperti, quindi, una volta tanto, è apparsa giusta la decisione dell’organizzazione di far suonare il gruppo svedese nella tenda e a tardissima ora. Davanti a un pubblico inaspettatamente nutrito e caloroso, i Cult Of Luna si sono resi protagonisti di una performance per forza di cose ridotta, ma che ha comunque saputo emozionare e regalare agli astanti suggestioni – almeno per quanto riguarda il target medio del festival – diverse dal solito. Come accennato, non c’è ovviamente stato il tempo per suonare tutti i classici del repertorio, tuttavia i nostri, durante pezzi come “Ghost Trail” e “Dim”, grazie anche a ottime luci, hanno fatto la loro grande figura e lasciato a bocca aperta per precisione e trasporto. Dopo una giornata all’insegna soprattutto di death e thrash metal, ci voleva davvero una parentesi del genere.
DESPISED ICON
Da Montréal, Canada, con furore: i Despised Icon, protagonisti dichiarati della Party Tent, si sono trovati a suonare alle due di notte a seguito della defezione dei Trigger The Bloodshed, ma lo show del sestetto non ha lasciato spazio a colpi di sonno. Forte di suoni allo stato dell’arte, il gruppo si é espresso in tutta la sua rabbia devastante, raggruppando nel tendone hardcore fans con cappellino e felpone, mosher, curiosi e scoppiati oramai zeppi di alcool. La proposta violenta e vigorosa della formazione non può che generare una risposta sentita nel pit, che vince il freddo esaltandosi tra breakdown, pig squeals e passaggi brutali, osservando l’estetica quasi grottesca di Alexandre Erian e Steve Marois, coppia di frontman che prende in prestito dall’hip hop movenze e guardaroba. Sul trono del death-core ci sono loro al momento.
3 INCHES OF BLOOD
L’orologio non ha ancora passato le 12, il freddo è ancora pungente e i volti sono ancora segnati dal cuscino (ma quale cuscino, Mo?!, ndMarco), mentre i maschietti pensano ancora alle bionde dei Midnattsol, quando i 3 Inches Of Blood calcano le assi del Main Stage. Posizionamento indegno per i canadesi, che col loro mix di thrash, Maiden e Judas, hanno dimostrato di saperci fare nei due capitoli sotto Roadrunner Records. Sfortunatamente Jamie Hooper, la voce death del gruppo, è ancora in panchina per problemi alle corde vocali, tocca quindi al barbuto Cam Pipes e alla sua camicia da boscaiolo prendersi tutte le attenzioni dei mattinieri. Se l’Halford canadese è perfetto, il chitarrista Justin è un growler palesemente improvvisato, di conseguenza vien meno il caratteristico dualismo della band e lo show perde di interesse brevemente. Auguri di pronta guarigione a Jamie, senza il quale la band è in seria difficoltà.
ENEMY OF THE SUN
In un Ferragosto particolarmente freddo di temperatura e scarno di contenuti musicali, spiccano nel vuoto del pomeriggio gli apripista della Party Tent, ovvero gli Enemy Of The Sun, la nuova band formata dal famoso chitarrista/producer tedesco Waldemar Sorychta. Il debutto “Shadows”, edito a fine 2007 per la Massacre Records, ha fatto registrare un discreto interesse, soprattutto per il notevole ‘back to the roots’ realizzato da Sorychta, tornato a comporre pezzi thrasheggianti come ai tempi dei grandissimi Grip Inc.. I volumi esagerati del tendone hanno permesso ai ragazzi di partire a tuono con la performance, che ha messo in mostra le buone doti vocali del finlandese Jules Näveri, in grado di alternare timbri aggressivi ad un pulito chiaro e potente, mentre dal punto di vista dinamico il giovanottone scandinavo si è dimostrato un capace intrattenitore. La mezzora di spettacolo è stata inoltre letteralmente incendiata dall’illustre ospitata di Gus Chambers, vocalist dei Grip Inc., salito sul palco fra le ovazioni per interpretare due fucilate allucinanti quali “Ostracized” e “Hostage To Heaven”, entrambe tratte dal mitico “Power Of Inner Strength”. Sebbene il cantato di Chambers sia inferiore a quello di Näveri, è inutile sottolineare quanto il carisma del ‘vecchio’ punkster inglese e l’appeal delle due canzoni succitate abbiano creato massima esaltazione fra gli astanti. Uno dei momenti da incorniciare dell’intero festival!
EXODUS
Per fortuna che c’erano gli Exodus. In un venerdì decisamente avaro di concerti davvero interessanti ci hanno pensato i maestri della Bay Area a dare la sveglia a tutti a colpi di rabbioso thrash metal. Gary Holt ha per tutto il tempo girato da una parte all’altra del Main Stage con la tipica consapevolezza di uno che sa quanto i suoi riff siano ispirati e coinvolgenti e Rob Dukes, sempre più grosso e incazzato, non ha avuto altro da fare che piazzarsi in mezzo al palco e vomitare sugli astanti tutta la sua rabbia, senza risparmiarsi veri e propri insulti quando la folla non rispondeva esattamente alle sue direttive, ovvero “più pogo”, “più crowd surfing”, etc. Se si considera il cantato, il corpulento frontman non avrà magari la varietà dei suoi predecessori, ma a livello di presenza scenica e ferocia il Nostro non ha assolutamente rivali… è stato divertentissimo assistere alla sua performance. Assai indovinata, inoltre, la scaletta scelta per l’esibizione, con i classici dei primi anni sempre alternati alle bordate dei lavori recenti, con un occhio di riguardo per l’eccellente “Shovel Headed Kill Machine”.
AS I LAY DYING
Bravi e belli, gruppo di punta della scuderia Metal Blade, nominati addirittura ad un Grammy Award: gli As I Lay Dying si presentano con tutti i numeri in regola per radunare una folla oceanica davanti al palco principale, e di fatto così avviene alle 18.45 del venerdì. Se la formazione ha guadagnato negli anni una indiscutibile sicurezza e può contare, dopo quattro album, su una scaletta senza punti deboli, è innegabile come tutt’oggi i metalcorer di San Diego non siano propriamente a loro agio su un palco così grande. Il pubblico, animato da naturale entusiasmo, pare non accorgersene e sostiene i Cristiani dichiarati per tutta la durata del set, che non può dimenticare le obbligatorie “Forever”, “Confined”, “Through Struggle” e “Nothing Left”. In chiusura la devozione è dimostrata con un gigantesco wall of death, che congeda la band tra gli applausi.
SIX FEET UNDER
Come da tradizione, il concerto dei Six Feet Under ha portato il livello di ignoranza del festival su picchi altissimi. Chris Barnes e soci, come al solito, hanno dato l’impressione di essere capitati sul palco quasi per caso: nessuna scenografia – nemmeno il telone con il logo – luci semplicissime, pose statiche e movimenti ridotti al minimo. Ma poco importa, perchè in uno show dei Six Feet Under è il groove che deve fare da indiscusso protagonista. Quindi quando sono partite le varie “Human Target”, “Feasting on the Blood of the Insane”, “Victim of the Paranoid”, “War Is Coming” e la cover di “TNT” degli AC/DC non c’è stato spazio per troppe riflessioni… si era lì per fare headbanging, punto e basta! Apprezzabile, tra l’altro, il fatto che i nostri si siano apparentemente resi conto della pochezza del loro materiale più recente: in scaletta hanno trovato spazio soltanto un paio di episodi dalle ultime release e la parte del leone è stata fatta dai brani dei primi album, senza dubbio quelli più coinvolgenti nella discografia del quartetto floridiano. Insomma, se in studio i Six Feet Under danno l’impressione di essere una band ormai allo sbando, almeno dal vivo riescono ancora a intrattenere con una certa efficacia.
TEXTURES
Ottima, la prova dei Textures! Il gruppo progressive metal olandese è riuscito a confermare anche sul palco quanto di buono espresso nei tre dischi sino a oggi pubblicati, mettendo inoltre in mostra una buona presenza scenica e un’attitudine tutt’altro che distaccata. Se infatti gli album dei nostri spesso si affidano a suoni freddi e cristallini, lo stesso non si può dire dei loro show, che, giudicando almeno da quello messo in mostra in questa serata nella Partytent, offrono un impatto e un’aggressività non da poco. Il frontman Eric Kalsbeek ha inoltre dato prova di ottime doti canore, riuscendo a gestire screaming e pulito con la stessa efficacia e dando vita anche a dei riusciti intrecci con gli altri membri della band, tutti dotati di microfono ad eccezione del batterista. Un concerto bello da vedere anche per i notevoli giochi di luce, che hanno aiutato a ricreare atmosfere davvero suggestive soprattutto durante le aperture melodiche di tracce come “Storm Warning” e “Regenesis”.
THE OLD DEAD TREE
Non ci si aspettava granchè dal concerto dei The Old Dead Tree… esclusivamente per il fatto che il gruppo francese doveva esibirsi sul Pain Stage a mezzogiorno: un orario non certo adatto alla sua proposta malinconica. Ma il quartetto parigino ha per fortuna avuto buon gusto nella selezione dei brani da suonare, optando del tutto per il materiale più heavy e compatto, sul quale il growling del bravo Manuel Munoz ha avuto campo libero. Insomma, nel giro di pochi minuti ci siamo ritrovati a seguire con molta attenzione la prova della gothic metal band, che pur senza impressionare in termini di presenza scenica è riuscita a radunare una folla piuttosto corposa davanti al palco e a offrire un ottimo spaccato del suo repertorio. Decisamente riuscite soprattutto le riproposizioni di “It Can’t Be!” e “We Cry As One”, entrambe tratte dal notevole debut album “The Nameless Disease”.
HACKNEYED
Diciamoci la verità: almeno metà della gente accorsa davanti al Pain Stage per assistere allo show degli Hackneyed non era lì per la musica, bensì per la curiosità di vedere all’opera una death metal band composta da ragazzini in età compresa tra i 13 e i 16 anni. Buon per gli Hackneyed, comunque, visto che di sicuro saranno riusciti a guadagnare qualche nuovo fan con questa loro esibizione. Del resto, non si può certo dire che i nostri abbiano suonato male: la loro presenza scenica può solo migliorare, idem il songwriting, che non sempre appare brillantissimo, ma, a livello di esecuzione, i cinque ragazzini tedeschi sono già sullo stesso piano di parecchi colleghi ben più maturi. Inoltre, vedere sul palco un bambino come il chitarrista Devin fare headbanging sulle note delle varie “Neon Sun” e “Gut Candy” fa solo simpatia. Peccato che un mezzo acquazzone capitato verso metà concerto abbia portato molti dei presenti ad allontanarsi in cerca di riparo, ma quella degli Hackneyed è stata tutto sommato una prova positiva.
HACRIDE
I soliti volumi ultra-sparati della Party Tent hanno in parte rovinato la prestazione dei francesi Hacride, peraltro positiva sotto ogni altro punto di vista. Una nutrita compagine di metallari francesi, rumorosissima e munita di bandiere, ha supportato costantemente i bravi autori di “Deviant Current Signal” e “Amoeba”, due fra gli album colpevoli dell’esplosione della scena futuristica francese, avvenuta in questi ultimi tre-quattro anni. Una manciata di pezzi suonati ad un altissimo livello tecnico e con un trasporto notevole hanno spazzato via i dubbi rimasti sulla validità del gruppo anche dal vivo: buona la presenza scenica, devastante la musica, praticamente perfetti i musicisti e assordante – ahinoi! – l’impatto sonoro. Poco altro da dire su uno show che ha quasi stordito per intensità, violenza e volume.
MISERY SPEAKS
Nonostante una serie di problemi tecnici che hanno in parte rovinato l’esecuzione di un paio di brani, è stato divertente assistere alla performance dei Misery Speaks. Il gruppo ultimamente è stato spesso accumunato ai connazionali e amici Heaven Shall Burn e Caliban, ma in verità i nostri possono vantare influenze death metal molto più marcate e, almeno dal vivo, un’attitudine quasi rock’n’roll che funziona alla grande! Poco male quindi se qualcosina non è stata esattamente riproposta alla perfezione: ci hanno pensato il groove e la notevole presenza scenica del bassista Martin e del nuovo frontman Przemek a far passare in secondo piano le suddette piccole pecche. Dal canto suo, il pubblico si è lasciato davvero trascinare durante lo show, dando vita a numerosi pit soprattutto durante la riproposizione della hit “First Bullet Hits”.
H-BLOCKX
Ci ricordavamo quanto fossero simpatici gli H-Blockx, combo tedesco dedito a un rock/crossover poco impegnato che ebbe fortuna anche da noi negli anni ’90, ma non avremmo mai immaginato di divertirci tanto durante il loro set! Complice un pubblico in vena di scherzi, la zona astante al palco é diventata protagonista in tempo zero di una gigantesca battaglia a palle di fieno (usato per tamponare il fango, ma sparso in sovrabbondanza), che continuerà per tutto il set dei teutonici. Le irresistibili “Risin’ High”, “The Power”, “Move” hanno scatenato l’inferno, tra stage diving, circle pit e fieno a pioggia. Per il gran finale tutti giù per terra per saltare all’unisono, salutando la band sulla azzeccata cover di “Ring Of Fire”. Altro che Party Tent!
MISANTHROPE
Assistere ad un concerto dei Misanthrope fuori dalla loro terra natale, la Francia, è già un piccolo grande evento, considerata l’allergia esterofila che, soprattutto da qualche anno a questa parte, contraddistingue la formazione in questione; figuratevi poi per chi scrive, che della band transalpina è sfegatato ammiratore da tempo, cosa può aver voluto dire vedere per la prima volta dal vivo gli istrionici S.A.S. De L’Argiliére e Jean-Jacques Moréac! Emozioni da bimbo a parte, gli esperti francesi si sono dimostrati gruppo valido sotto tutti gli aspetti, in primis quello tecnico, con il giovane chitarrista Anthony Scemama e con Moréac al basso impegnati a dare spettacolo tra assoli e slapping funambolici. Solo trenta minuti anche per i Misanthrope, partiti intelligentemente con due composizioni piuttosto datate e cantate in inglese, ovvero “Misanthrope Necromancer” ed “Eden Massacre”. Lo stesso plotone di cugini d’Oltralpe presente per gli Hacride ha provveduto ad esaltare i propri connazionali, soprattutto durante le esecuzioni delle nuove “Névrose” e “Les Retourneurs De Pierres”. S.A.S. De L’Argiliére, nonostante una silhuoette non proprio da damerino illuminato, non è stato fermo un secondo e ha fornito una prova vocale notevole e vigorosa. Finale con il botto, prima grazie all’apertura di una bottiglia di champagne – il tappo è schizzato a due centimetri dall’occhio del sottoscritto! – e poi con l’esecuzione della stupenda “Bâtisseur De Cathédrales”, degna conclusione di uno show breve ma intensissimo. Ora la domanda è: riusciremo mai a rivederli?
HEAVEN SHALL BURN
Con ancora nelle orecchie gli echi del suono dei Misanthrope, ci restano pochi minuti per prepararci a quello che sarà il concerto più coinvolgente dell’intera manifestazione: già nel primo pomeriggio, l’esibizione dei cuginetti Neaera aveva fatto intuire la voglia di scatenarsi del pubblico del Summer Breeze, pronto ad immolarsi nella sterpaglia pur di ricordare a lungo questa tre-giorni metallica; e quale occasione migliore, quindi, se non sacrificarsi ancor di più per gli zii Heaven Shall Burn, formazione capace, con una naturalezza ed una semplicità impressionanti, di esaltare migliaia di fan grazie al suo death-core brutale ed epico al tempo stesso? Una coreografia di enormi neon luminosi e le camicie tutte uguali indossate dal gruppo hanno fatto per un attimo venire il sospetto che Marcus Bischoff e compagni si fossero un po’ ‘infighettati’, ma non appena “Endzeit” si è scatenata in tutta la sua potenza, ogni dubbio si è dissolto nella voglia di andare a pogare e di vivere il più intensamente possibile la performance dei cinque tedeschi. Ancora una volta, proprio come due anni fa, non siamo in grado di dirvi se gli HSB abbiano suonato bene o quant’altro: la principale preoccupazione di tutta l’audience, infatti, dal secondo brano in poi (per la cronaca, “Counterweight”), è stata quella di decifrare le mosse del moshpit, per una volta equivalente ad almeno tutto lo spazio tra il palco del Main Stage e la torre del mixer. Tra wall of death titanici, surf-crowding incessanti, circle-pit di dimensioni abnormi, spesso roteanti attorno al mixer per parecchi minuti, e gruppi di violent dancers in azione, non si è capito praticamente nulla di quello che succedeva on stage! “The Weapon They Fear”, “The Only Truth”, “Forlorn Skies”, l’incredibile “Voice Of The Voiceless”, la cover di “Black Tears” degli Edge Of Sanity e il bis rappresentato da “Behind A Wall Of Silence” sono stati fra i pezzi eseguiti dagli Heaven Shall Burn, in un crescendo roboante di intensità, divertimento e partecipazione da parte di un’audience veramente scatenata. Fieri di esserci stati e di essere sopravvissuti, in pochi verranno a contestarci l’affermazione che uno spettacolo degli Heaven Shall Burn ad un festival è un’esperienza da tramandare ai posteri. Almeno per poter dire ai nipotini che da giovane il loro nonno ‘aveva le palle’ e rischiava la vita!
NOVEMBRE
Dopo i Cult Of Luna, un’altra band che ha goduto notevolmente del fatto di doversi esibire nella Party Tent è stata quella dei nostrani Novembre. Calcando il palco alle 20 di sabato, con la luce già quasi completamente scomparsa e in un ambiente un po’ più intimo come appunto quello della tenda, i Novembre sono riusciti a palesare tutta la loro ormai collaudata esperienza on stage, ricreando senza alcun problema le particolarissime atmosfere dei loro album. È stato piacevole constatare come ci fosse parecchia gente ad aspettare il combo nostrano davanti al palco, segno che la fama dei ragazzi di Roma ha ormai radici solide anche all’estero. Dal canto suo, il gruppo non si è ovviamente risparmiato e, guidato da un Carmelo Orlando in gran forma, ha dato in pasto agli astanti una setlist breve ma incisiva, ben bilanciata tra brani nuovi e più datati e con “Cold Blue Steel”, “Love Story” e “Bluecracy” a riscuotere le ovazioni maggiori. In definitiva, l’ennesima, splendida conferma del valore di una band ovunque sempre più apprezzata.
CRADLE OF FILTH
Difficile battere la prestazione in casa degli straripanti Heaven Shall Burn. In più, i Cradle Of Filth non sono mai stati famosi per eccellere nelle prestazioni ai festival e, ulteriore aggravante, il pubblico è oramai stremato da giorni di festival e da un pomeriggio alquanto scanzonato (vedi H-Blockx). Con queste premesse negative, il Summer Breeze si raduna lo stesso in maniera massiccia davanti al Main Stage per gli headliner del sabato, con in prima fila numerose e giovani femminucce pronte ad ammirare Dani Filth e i suoi vampirelli, sotto un’irreale quanto azzeccata eclissi lunare. Mai inizio fu tanto disastroso: per l’intera prima canzone il frontman, con un nuovo carré sbarazzino, è totalmente afono a causa di problemi tecnici che mai smetteranno di cessare realmente. Lo spettacolo non riesce a risollevarsi completamente e a poco valgono gli incitamenti del grintoso cantante: la stanchezza e i suoni pessimi hanno la meglio. La sfilata di successi come “Dirge Inferno”, “The Principle Of Evil Made Flesh”, “Cruelty Brought Thee Orchids” o “From The Cradle To Enslave” viene tagliata bruscamente come un arrendersi fatale con un anticipo netto rispetto alla fine prevista. Decisamente una serata negativa.
ANATHEMA
Ultimi ad esibirsi, assieme ai Dark Fortress nella Party Tent, in un gelo quasi novembrino e al cospetto di una suggestiva eclisse lunare, sono stati gli Anathema, fuori in questi giorni con l’album “Hindsight”, contenente diverse rivisitazioni acustiche di loro classici. Ideale per chiudere il festival, la band dei fratelli Cavanagh ha dato ennesima prova del suo eclettismo musicale, fornendo una prova convincente, sempre ammantata di tristezza e poesia, ma anche volta a terminare la manifestazione in un clima goliardico, vedasi soprattutto l’ingresso in scena del folle e bruttissimo Mad Butcher – ‘ammirato’ in precedenza sul palco dei Destruction – ed in grado di simulare pose sanguinolente assieme a Vinnie Cavanagh, armato solo di chitarra. Una setlist variopinta ha ipnotizzato i superstiti infreddoliti del Summer Breeze Open Air, immersi nella magia che brani quali “Fragile Dreams”, “Empty”, “Closer”, “Sleepless” e “A Natural Disaster” sanno infondere. E’ mancato lo spettacolo di fuochi d’artificio dell’anno scorso, ma il brillante show degli Anathema ha fatto sì che il sipario sull’evento calasse comunque in modo colorato e piacevole. Oltre che umido da far paura… All’anno prossimo, se tutto va bene, cara Dinkelsbühl!