Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Emilio Cortese, Luca Pessina e Marco Gallarati
Per il quarto anno consecutivo di una manifestazione ormai giunta alla sua dodicesima edizione, la placida Dinkelsbühl, cittadina medievale tedesca e piccolo borgo incantato, diventa epicentro dell’universo metallico nella settimana di Ferragosto, durante la quale il Summer Breeze Open Air è solito prendere vita. Praticamente nessun intoppo – ricordate la coda monumentale narratavi nell’introduzione al report del 2008? – ha condotto i vostri soliti Intrepidi Inviati lungo la strada per il festival, inviati letteralmente sollevati dal poter montare le tende alla luce del Sole e dal potersi trastullare con apatia e chiacchiericcio con le gambe sotto il tavolo e di fronte ad una fresca birra, proprio nel mentre in cui le prime band – quelle del concorso per chi aprirà ufficialmente la manifestazione il primo giorno – si stanno dando battaglia. Un’edizione del Summer Breeze, quella 2009, che ha visto ingrandirsi ancora – sebbene non di molto – l’area campeggio e che ha anche visto nettamente migliorate le procedure d’ingresso e perquisizione, procedure che 365 giorni fa causarono quello spaventoso ingorgo durato ore. Squadra che vince non si cambia, recita il proverbio, e quindi anche quest’anno abbiamo visto gruppi di estrazione metallica e non alternarsi sui due palchi principali e nella PartyTent, un grosso tendone appena accanto alla zona stand&merchandise, quest’ultima sempre copiosa e iper-fornita. Novità principale di questa tornata – oltre al rinnovamento dell’area VIP, al raddoppio delle docce a disposizione (a pagamento) e alla presenza di un paio di info-point supponiamo decisamente utili – si è rivelato essere il maxischermo montato fra il Main ed il Pain Stage, che in effetti ha parecchio agevolato la visione dei concerti più carichi di folla. Lasciandoci alle spalle la classica imprevedibilità del tempo germanico, chiudiamo in fretta questo aperitivo di festival ricordandovi che, data la contemporaneità di qualche concerto interessante, non tutte le band da noi seguite sono entrate in questo report; per altri gruppi, invece, il fatto di non essere elencati qui sotto deve essere per loro motivo di gioia, in quanto difficilmente avremmo avuto buone parole da dedicargli. Già, perché anche quest’anno, se una lacuna nel Summer Breeze va trovata, è proprio la scelta di parte del bill, a tratti davvero incomprensibile e senza ragion d’essere. Ma bando alle ciance e buona lettura!
GOD DETHRONED
Dopo i Vomitory, ci pensano gli olandesi God Dethroned a tenere alto il morale del pubblico smanioso di festival, infiammando la PartyTent. Forte della nuova entrata della brava chitarrista Susan Gerl, il quartetto in questo breve show ripercorre un po’ i brani più classici del suo repertorio: segnaliamo in particolar modo la piena riuscita, ad esempio, della canzone “Nihilism”, veloce, trascinante, melodica e al contempo rabbiosa. C’è spazio anche per qualche traccia estratta da “Passiondale”, l’ultima fatica in studio dei nostri, e un applauso va a Henri Sattler anche per il cantato pulito, non sempre facile da riproporre in maniera così fedele dal vivo. “Poison Fog”, infatti, riesce perfettamente in tutte le sue parti centrando in pieno l’obiettivo di trascinare i presenti. I God Dethroned si rivelano quindi, ancora una volta, una band professionale anche on stage, e gli ultimi cambi di line-up non sembrano aver sconvolto più di tanto la loro stabilità… Tanto meglio!
DEADLOCK
Dopo la dose mortale di Vomitory e God Dethroned della prima sera sotto la PartyTent, è tempo per il Summer Breeze 2009 di esordire sui palchi principali, Main e Pain Stage: il diluvio notturno ed un tempo a dir poco incerto non scoraggiano gli stakanovisti da festival e, dopo il classico giretto+colazione in quel di Dinkelsbühl, ci apprestiamo a seguire il primo concerto di un certo rilievo della giornata, quello dei tedeschi Deadlock. Due anni fa li avevamo battezzati sotto il tendone, oggi i ragazzi e Sabine Weniger si danno da fare sul Pain Stage: esibizione vigorosa e appassionata per il combo che con l’ultimo “Manifesto” ha dimostrato di avere le polveri un po’ bagnate, almeno in studio. Dal vivo, però, la band conferma quanto di buono messo in mostra a febbraio nella data milanese di supporto a All That Remains e The Haunted, peraltro offrendo praticamente la stessa scaletta, alternante brani tratti sia da “Manifesto” che dai più riusciti “Earth.Revolt” e (soprattutto) “Wolves”. Sempre toccante l’outro vocale di “Awakened By Sirens”, epico e trascinante l’hit “Code Of Honour”, mentre si può solo definire divertente la sezione techno della conclusiva “End Begins”. Un po’ limitati dalla posizione nel bill, i Deadlock hanno comunque raccolto applausi e buoni consensi. Sotto con i Vader, ora!
VADER
Ai Vader basta il solito intro epico-pacchiano per attirare davanti al Main Stage una folla di tutto rispetto. Il gruppo solitamente dal vivo è una garanzia e la gente pare già pregustare il consueto massacro sotto il palco. Quando però Peter e compagni calcano il palco e iniziano a suonare, ci si accorge subito che i suoni non sono esattamente dei migliori, anzi! Nonostante il gruppo si dia come sempre molto da fare (anche se il nuovo bassista Reyash è davvero troppo statico), pezzi come “Epitaph” o “This Is The War” perdono buona parte del loro grande impatto e, in generale, la performance finisce presto per risultare fiacca e ripetitiva. Anche la scelta di eseguire quasi esclusivamente i brani più tirati del repertorio non giova ai Vader: la scarsa nitidezza dei suoni rende tutto molto confuso e in certe parti si fa piuttosto fatica a distinguere i riff. Uno show quindi nel complesso poco riuscito… cosa strana per la band polacca, ma è anche vero che quest’ultima non può essere ritenuta del tutto responsabile di ciò che avviene dietro al mixer.
SYLOSIS
Chiamati a esibirsi nella tenda, per la loro prima apparizione di sempre al Summer Breeze, i Sylosis ce la mettono tutta per ben figurare e alla fine si può dire che i loro sforzi vengano ben ripagati. Il gruppo inglese viene infatti seguito da una folla piuttosto nutrita, il cui supporto cresce man mano che lo show entra nel vivo. Il frontman Jamie Graham conduce le danze e incita i fan a partecipare con più headbanging e circle-pit possibile. Dal canto suo, il resto della band suona con grande precisione e con una discreta presenza scenica, mettendo in mostra un’esperienza già su livelli più che decorosi, considerata la sua giovane età. I ragazzi scelgono di puntare sui loro brani maggiormente aggressivi e thrash-death durante la mezzora a loro disposizione, scelta che risulta senza dubbio vincente, vista la maniera in cui il pubblico reagisce. Quando però Graham viene chiamato a utilizzare il pulito, quest’ultimo si fa trovare comunque preparato, tanto da cancellare i dubbi sul fatto che potesse o meno replicare dal vivo le linee vocali presenti sul debut “Conclusion Of An Age”. In definitiva, un buon concerto per una band che appare ancora in crescita.
WALLS OF JERICHO
Mentre nella tenda i Beneath The Massacre terminano il loro – e cos’altro? – massacro e dopo aver intravisto dal maxischermo gli assurdi beniamini locali in rosa shocking J.B.O. (per favore, non venite in Italia per nessun motivo al mondo!), si torna sul Pain Stage per un drastico cambio di genere: da uno stile indefinito e parodistico si passa alla concretezza e alla crudezza hardcore dei Walls Of Jericho. Era ora, aggiungeremmo! Candace Kucsulain è ormai sempre più palestrata, sfoggia bicipiti da scaricatrice e si invasa all’estremo nel proclamare fede nell’attitudine e nel chiamare ogni tre secondi un circle-pit; nonostante cotanta stucchevolezza di intenti, non si riesce a non restare colpiti dalla foga e dalla passione con la quale la band si esibisce, letteralmente trascinata da una vocalist che dà la paga al 90% dei suoi colleghi di genere. I primi stravolgimenti del moshpit avvengono ovviamente grazie ai WOJ e si sprecano wall-of-death e i già citati circle-pit. Ecco dunque un’altra band – dopo i Deadlock – per la quale il live è assoluta fonte vitale, considerati i mediocri e statici risultati dell’ultimo paio di release. Visti in locali piccoli i Walls Of Jericho sono ancora più distruttivi, ma il coinvolgimento del pubblico di un Open Air non è stato certo da meno. Animali da palco.
ANAAL NATHRAKH
Il giovedì del Summer Breeze è stato passato da chi scrive quasi interamente nella PartyTent, dove si sono alternati gruppi di ottimo livello fino a notte fonda. Sicuramente da citare tra le esibizioni riuscite meglio quella degli Anaal Nathrakh. Il duo inglese trova una sua forma anche in sede live, contornandosi di ottimi musicisti che gli permettono di viaggiare su tempi a tratti inumani. A questo proposito ci sentiamo di sottolineare la prova maiuscola di Steve Powell dietro le pelli. Un applauso convinto deve poi necessariamente essere indirizzato a Dave Hunt (aka V.I.T.R.I.O.L., anche in forza ai Benediction), che vomita dentro al microfono una rabbia ulcerante e fuori controllo, mantenendo tuttavia la capacità di inserire parti in pulito con una naturalezza impressionante. Molto bene i brani estratti dall’ultima fatica “In The Constellation Of Black Widow”, in particolare la title-track e “The Lucifer Effect”. Applausi scroscianti anche per “Do Not Speak”, estratta da “Domine Non Es Dignus”. Una band che in sede live sorprende anche per modestia e umiltà, ringraziando sempre il pubblico e facendo uscire un ‘lato umano’ che non ci si aspettava da queste macchine da guerra.
MISERY INDEX
Finalmente arriva il momento di assistere allo show degli statunitensi Misery Index: la band capitanata dal bassista-cantante Jason Netherton regala al numeroso pubblico giunto ad assistere alla loro esibizione un concerto debordante ed energico quanto la loro musica. L’inizio è affidato ovviamente alla doppietta che apre anche “Traitors”, stiamo parlando di “We Never Come In Peace” e “Theocracy”, che hanno fatto accapponare la pelle di chi scrive sin dalle prime note. Assistere ad uno show dei Misery Index è uno spettacolo a cui qualsiasi amante di musica estrema non dovrebbe mancare: le loro continue ripartenze, gli alti e bassi delle loro tracce, l’alternanza di ritmiche grasse a sfuriate al fulmicotone diventano in questa sede ancora più efficaci. Insomma, le loro canzoni, e in particolar modo una macchina umana come Adam Jarvis dietro le pelli, sarebbero in grado di far smuovere un blocco di cemento. Al termine di un concerto dei Misery Index, per forza di cose ci si ritroverà a canticchiare “Traitors” o una ritmica qualsiasi delle loro composizioni, che veramente dal vivo sembrano prive di qualsiasi difetto.
KATATONIA
Finalmente, in concomitanza con lo show degli Hate Eternal nella PartyTent, riusciamo a riemergere dal tendone dominato dall’estremo per riportarci nello spazio dedicato ai palchi principali, dove, dopo aver lasciato sollazzare la massa teutonica al suono atavico dei Corvus Corax nella versione Cantus Buranus (addirittura headliner quest’anno!), i Katatonia stanno per salire sul palco per la chiusura della prima giornata di festival. Il nuovo “Night Is The New Day” è alle porte ormai e i nostri stanno registrando le ultime parti: come lo stesso Jonas Renkse ci fa sapere, ‘ci voleva proprio questa boccata d’aria da concerto, una pausa dal duro lavoro’; ebbene, forse a loro sarà servito questo break, ma a noi poveri tapini una prestazione così giù di tono i ragazzi non ce la dovevano proprio fornire! Tralasciando i suoni peggiori di tutto l’evento, è stato evidente come i Katatonia non si esibivano live da parecchio tempo: mosci, spenti, imprecisi, arrugginiti, fin troppo dediti a residui di jam da studio ed un Renkse che ci ha messo molto del suo nel cercare di reinterpretare a piacimento linee vocali assolutamente perfette se riprodotte fedeli all’originale. A dirla tutta, la band ha meritato la sufficienza solo durante i brani tratti da “The Great Cold Distance”, “July” su tutti. Sgraziatissimo (o perso del tutto) il growl di Jonas su “Murder”, letteralmente violentata. Insomma, performance da dimenticare al più presto per gli svedesi e rapido dietro-front verso il tendone per noi, dove ci attendono i Suffocation per le ultimissime mazzate della serata!
THE HAUNTED
I The Haunted sono il primo gruppo di un certo livello a suonare nell’arena in questa seconda giornata di Summer Breeze. Il loro sound è energico, ricchissimo di groove e infiamma le prime entusiastiche file e non solo. Discorso a parte lo merita il frontman Peter Dolving: certi personaggi sono da un lato il valore aggiunto delle band ed il suo carisma non è in discussione, così come non lo sono le sue urla graffianti e trasudanti rabbia e dolore da ogni nota. Ciò che è in discussione è il suo esasperare le doti da oratore, forse per le troppe birre (che gli hanno fatto crescere a dismisura la pancia!), forse per qualche altro ‘aiutino esterno’; di fatto, Peter parla in continuazione tra un brano e l’altro, scendendo anche in mezzo alla folla per scatenare un wall of death, presentando tutte le canzoni in maniera accurata, con qualche filippica (e anche un pizzico di retorica) sull’etichettare i generi musicali e via discorrendo. Comunque sia, i The Haunted ci hanno regalato un’oretta di energia con pezzi come “99” o “Moronic Colossus” tra i più riusciti, quest’ultima in particolare allungata e rielaborata apposta per l’occasione. Peccato non aver potuto assistere al mai troppo lodato cavallo di battaglia “Hate Song” in chiusura, ma evidentemente Peter ha parlato così tanto che i nostri hanno esaurito il tempo a loro disposizione… Sarà per la prossima volta.
URGEHAL
“This is true satanic black metal!”. Cari Urgehal, non c’è bisogno di ricordarcelo. Se siamo qui sotto la tenda a soffrire un caldo infernale è perchè non vediamo l’ora di assistere finalmente a un vostro concerto! Il gruppo norvegese, purtroppo, non è mai riuscito a emergere più di tanto dall’underground, ma quest’oggi forse sarà riuscito a guadagnare qualche nuovo fan o comunque a far conoscere maggiormente il proprio nome. Trondr Nefas e soci danno infatti vita a uno show molto coinvolgente e inaspettatamente professionale: non avendo i nostri chissà quale esperienza dal vivo, era facile aspettarsi una prova un po’ impacciata, invece gli Urgehal arrivano sul palco e scatenano letteralmente l’inferno fra le prime file. A far la parte del leone, le loro ormai celebri puntate in midtempo, che incitano all’headbanging più ignorante e catturano l’attenzione anche di coloro poco familiari con la loro proposta. Di sicura presa, poi, l’immagine della band, che ostenta face-painting e tutto il consueto armamentario black: in particolare, il chitarrista Enzifer si rivela un vero animale da palco, presentandosi borchiato persino sul capo! Insomma, una gran bella sorpresa: chi ha sempre seguito il gruppo in studio, di certo quest’oggi non sarà rimasto deluso.
AMORPHIS
Cala la sera e tocca agli Amorphis riscaldare il pubblico accorso numeroso sotto il Pain Stage. Il sestetto finlandese è in forma smagliante, forte anche del loro ultimo studio-album “Skyforger”, e regala ai propri fan uno show affascinante, sontuoso, energico e mai pacchiano. Tomi Joutsen, oltre ad essere un vocalist dotato di una voce notevole sia sui puliti che sui growl, si dimostra a proprio agio anche sui pezzi più vecchi della band, quando a militare dietro al microfono c’era ancora Pasi Koskinen e ancor prima il chitarrista Tomi Koivusaari. Si ripercorre senza problemi quindi un po’ di storia, passando per brani come “The Castaway” o la splendida “My Kantele”; si va poi a ripescare qualche canzone da “Eclipse”, episodi come “The Smoke” o “House Of Sleep” ad esempio, sempre molto efficaci e piacevoli, dedicando anche qualche parentesi all’ultima fatica. Segnaliamo “Sampo” tra i brani meglio riusciti. Una band che conferma il suo valore in sede live: a un festival non sempre è facile mantenere alta l’attenzione del pubblico, ma si può dire che gli Amorphis siano riusciti pienamente nell’intento.
THE SORROW
Lo ammettiamo: ci rechiamo alla tenda per seguire lo show dei The Sorrow soprattutto perchè siamo curiosi di apprendere se effettivamente il gruppo austriaco stia davvero diventando così celebre in Germania e per vedere inoltre come il cantante Mathias Schlegel se la cavi in sede live. Niente da dire… una volta arrivati, la tenda appare piena di fan in trepidante attesa e, a concerto iniziato, l’impressione lasciata da Schlegel è sicuramente positiva. Nessun “effetto Caliban”, quindi: le voci pulite vengono replicate in maniera convincente e il gruppo tiene il palco con molta naturalezza, dando l’idea di essere ormai sul punto di diventare una solida realtà della scena modern metal/metal-core. Le canzoni di “Origin Of The Storm”, tra l’altro, sembrano studiate appositamente per essere riproposte live e, anche se a volte i ragazzi sembrano a tutti gli effetti la risposta austriaca ai Killswitch Engage o ai Trivium, in un battibaleno ci troviamo anche noi a seguire con attenzione l’evolversi della performance e a muovere il piede a tempo, mentre attorno i chorus vengono cantati quasi come se fossimo allo stadio. Non saranno dei fenomeni, però in questa dimensione i The Sorrow intrattengono.
PROTEST THE HERO
Ai canadesi Protest The Hero tocca calcare il palco della PartyTent ormai a notte fonda, per un’esibizione di qualche brano svoltasi dall’una di notte alle due! Ecco quindi che i cinque burloni stappano una birra dietro l’altra e si fanno coraggio, sciorinando tutto il meglio del loro repertorio: dai ritmi sincopati ai tempi dispari, passando per linee melodiche strumentali e vocali da far accapponare la pelle. Erge ancora una volta la capacità dei nostri di ipnotizzare e al contempo interessare l’ascoltatore, con il dinamismo strumentale e profondamente progressivo delle loro canzoni, suonate tutte quante con il sorriso sulle labbra, con anche un’aria canzonatoria dipinta sui volti come a dire ‘non stiamo facendo per niente fatica a fare cose impossibili’. La staticità che avevamo rilevato in altre situazioni è decisamente acqua passata e Randy Walker è un ottimo intrattenitore delle masse: scherzoso, ironico, simpatico, forse un po’ prolisso (caratteristica di moltissimi frontman attuali, d’altra parte) ma non esagerato. Vengono riproposte canzoni principalmente tratte dall’ultimo album “Fortress”, un disco più maturo rispetto a “Kezia”, che sembra aver spianato la strada ai ragazzi verso un futuro esaltante. Peccato veramente per l’orario indecente.
BENIGHTED
Siamo pronti a scommettere che i Benighted avrebbero tranquillamente barattato il loro slot sul Main Stage per uno nella tenda, se quest’ultimo fosse stato fissato a un orario più tardo. Esibirsi come prima band dell’ultima giornata del festival, alle 11 del mattino, non è infatti il massimo per nessuno. Tuttavia, i cinque francesi sembrano far buon viso a cattiva sorte e, davanti a un pubblico comunque abbastanza nutrito (le prime file praticamente composte soltanto da connazionali!), si rendono protagonisti di una prova decisamente energica, baciata inoltre da dei suoni più che validi. Con un death-grind molto dinamico, riassumibile come un mix di Napalm Death, Dying Fetus e Despised Icon, i nostri riescono a dar vita a un concerto molto divertente e vivace, che li vede poi accendere in rapida successione vari focolai di pogo e anche qualche circle-pit. Il gruppo non ha mai suonato granché fuori dalla Francia, ma, potendo contare su un buon frontman come Julien Truchan, non dà mai l’idea di essere poco esperto o impacciato. I fan si divertono e anche noi, alla fine, applaudiamo con convinzione.
BEFORE THE DAWN
Si sapeva in partenza che il melodic death metal dai toni gotici dei Before The Dawn non avrebbe reso granché se proposto nella tarda mattinata di una giornata di sole come quella di sabato. In effetti, pure il chitarrista/cantante Tuomas Saukkonen ci pare abbia un’espressione un po’ sconsolata. Chissà, però… forse è solo il suo modo di fare di sempre! Comunque, il gruppo finlandese dà l’idea di aver preparato con cura l’esibizione di oggi e, anche se i suoni si dimostrano un po’ sottili (quasi una costante sul Pain Stage), e finisce per cimentarsi in una performance diretta e piuttosto convincente, che tutto sommato riesce a lasciare il segno sui fan accorsi davanti al palco. Ovviamente c’è da lavorare sulla presenza scenica, ma a questa mancanza, dovuta senz’altro all’inesperienza, pensiamo che porrà rimedio l’imminente tour europeo di spalla agli Amorphis, il primo nella storia della band.
GRAVE
Un caldo soffocante non impedisce ai Grave di fare ulteriormente a pezzi gli astanti in un primo pomeriggio in cui il sole sembra proprio non voler concedere tregua. Il quartetto svedese è impegnato a festeggiare i suoi vent’anni di attività e opta quindi per una scaletta totalmente old school, per giunta improntata sulle tracce più pesanti e groovy del suo repertorio (“You’ll Never See…”, “Christi(ns)anity”, “Morbid Way To Die”). Giusto la recente “Bloodpath”, per la quale è stato girato un videoclip, trova spazio nell’esibizione: per il resto, ci si muove rigorosamente fra il 1991 e il 1994, ovvero il periodo in cui Ola Lindgren e compagni diedero alle stampe i loro dischi più famosi. Dicevamo del caldo… onestamente, ci stupiamo di vedere un pubblico tanto partecipe. Cosa che, a quanto pare, impressiona in positivo anche Lindgren, che ringrazia più volte la folla per l’accoglienza tributata. Ma del resto, i Grave stanno suonando con la loro consueta padronanza e ogni fan, come ovviamente chi scrive, sta a dir poco godendo nel sentire tutti questi classici proposti uno in fila all’altro. Siete troppo modesti, ragazzi!
BORN FROM PAIN
Dopo le vecchie volpi Grave (non stiamo a dirvi in che condizioni era Ola Lindgren nel backstage a fine festival…) e i penosi Krypteria, è la volta degli olandesi Born From Pain andare a fomentare i giovini animi del Summer Breeze, fra i quali un over-30 di nostra vecchia conoscenza (chi scrive). Agevolati dalle release via Metal Blade e dalla parlantina tedesca del frontman Rob Franssen, i cinque orange imbastiscono uno show muscolare e alquanto fisico, proprio nel bel mezzo dei tre quarti d’ora più torridi del giorno più caldo del festival. Non in moltissimi si avventurano nel moshpit, ma una settantina di aficionados rende il concerto degno di essere vissuto: si sa, i Born From Pain scimmiottano parecchio gli Hatebreed, ma la loro imitazione è di quelle ben riuscite, perciò ci si diverte abbastanza durante l’esecuzione di brani anthemici e da pogo quali ad esempio “Relentless”, “Rise Or Die”, “The New Hate” e “Stop At Nothing”. Fra i soliti numeri da circo dei moshers, va segnalata la novità 2009 nella categoria ‘Pogo Più Stupido’: mettersi per terra in fila e mimare una vogata collettiva. Ma cos’è, Giochi Senza Frontiere? Rassegnazione e Sconforto a Dinkelsbühl. Censurando la fantasia di un manipolo di imberbi crucchi, concludiamo con un bravo meritato ai Born From Pain…il sottoscritto c’ha lasciato giù qualche centilitro di sudore!
WAYLANDER
Dei molti gruppi attingenti alla cultura folk solitamente presenti al Summer Breeze – per la verità quest’anno sono parsi in calo rispetto alle passate edizioni – gli irlandesi Waylander ci sono sembrati i più interessanti da seguire. Avevamo adocchiato in precedenza anche i finnici Battlelore e i lettoni Skyforger, ma il clan di Ard ‘Chieftain’ O’Hagan ci ha colpito ed incuriosito più favorevolmente dei loro colleghi. Con pochissimo tempo per il soundcheck – la band è arrivata all’ultimo secondo – il gruppo dell’Ulster ha attaccato la platea della PartyTent con fervore e violenza. “Walk With Honour”, “Beyond The Ninth Wave”, la più pacata “A Hero’s Lament” e la trascinante “Born To The Fight” hanno riscosso gli applausi più convinti, tributati da un pubblico accorso numeroso per uno show di una formazione che per parecchi anni ha fatto perdere le proprie tracce. Coinvolgente il frontman O’Hagan, ma lo spirito dei Waylander viene meglio trasportato on stage da Dave Briggs, il troll (iper)attivo al mandolino e al whistle – il tipico flauto celtico. Non trascendentali gli Irishboys, ma comunque ampiamente godibili.
MOONSPELL
Tre anni sono passati dall’ultima performance dei Moonspell al Summer Breeze, tre anni durante i quali la band lusitana ha risollevato di parecchio la sua fama, sia attraverso la riuscita serie di ristampe Century Media, sia tramite i più recenti vagiti di casa SPV Records, ovvero la raccolta “Under Satanæ” e l’ultimo “Night Eternal”. E’ quindi con attesa e curiosità che ci posizioniamo davanti al Main Stage, mentre finalmente cala un po’ d’ombra serale, per gustarci l’esibizione dei portoghesi più famosi dell’universo metal. Pressoché impeccabile e dalla solita atmosfera decadente e sulfurea si è rivelato lo spettacolo di Fernando Ribeiro e soci, ben spaziante lungo tutta la discografia del gruppo, sebbene la parte del leone l’abbiano svolta da una parte l’ultimo album – con la proposizione di “Night Eternal”, “Scorpion Flower” e “Moon In Mercury” – e dall’altra parte il materiale più datato, rappresentato alla grande dai super-classici “Opium”, “Full Moon Madness” e “Alma Mater”. Sorprendente l’esecuzione di “Vampiria”, recuperata anch’essa direttamente da “Wolfheart”! Più statici del solito, i Moonspell hanno compensato la lacuna con una prestazione encomiabile. Ancora vivi.
HATE
Tocca al death metal dei pittati Hate mettere a ferro e fuoco la PartyTent nell’ultimo pomeriggio di festival. Il loro sound è compatto, veloce, tagliente, un po’ alla Behemoth per intenderci, con l’aggiunta di alcuni interessanti intermezzi campionati, passando da atmosfere dal sentore black metal, sfociando poi in ritmi compatti e cadenzati. Chi conosce la band avrà capito che nella mezzora di tempo a loro disposizione gli Hate hanno dato ampio spazio alle canzoni della loro ultima release, “Morphosis”. Ecco quindi susseguirsi le composizioni più belle dell’album succitato, quali l’opener “Metamorphosis” o “Resurrection Machine”, con quello stacco centrale in grado di far smuovere anche il più immobile dei metallari. Promossi quindi in sede live anche gli Hate, non ci resta che attenderli con più tempo a disposizione. Piccola nota: vince il Premio Headbanging del festival il bassista Mortifer e non ci si spiega come faccia a ruotare la testa a quella velocità senza perdere mai un colpo! Applausi anche per lui.
GHOST BRIGADE
Con da pochissimi giorni fuori il nuovo “Isolation Songs”, i finlandesi Ghost Brigade, almeno per chi scrive, erano fra i gruppi di questa edizione del Summer Breeze Open Air da seguire con maggiore interesse e curiosità; quindi nessun problema se a sovrapporsi alla new sensation scandinava sono, sul Main Stage, i Volbeat, band che in Germania sta bruciando davvero le tappe del successo. Ma atteniamoci a Manne Ikonen e compagni che, con pochi fronzoli e poche parole, hanno letteralmente ipnotizzato la (scarsina) platea a loro disposizione attraverso sonorità cariche di alti e bassi e mai statiche, un momento placide e delicate, il momento dopo possenti e dal groove travolgente, come ben ha dimostrato la micidiale “Suffocated”, dal riffing esaltante. L’incipit dello show è toccato a “Rails At The River”, dal precedente “Guided By Fire”, ma poi – com’è ovvio che sia – è stato “Isolation Songs” a farla da padrone, durante l’esecuzione di “My Heart Is A Tomb”, “Into The Black Light”, “Architect Of New Beginnings” e “Lost In The Loop”. Ci è spiaciuto non vedere suonate “Concealed Revulsions” e “Secrets Of The Earth”, i due masterpiece del disco in questione, ma i trentacinque minuti a disposizione del combo sono a dir poco volati. Non a caso i Paradise Lost hanno scelto i Ghost Brigade quali opening-act del loro imminente tour europeo; e se suonano anche nella data italiana, assicuratevi di non perderli! Concreti e bravissimi anche dal vivo.
EVOCATION
Ovviamente chi scrive si guarda bene dal perdersi lo show degli Evocation, death metal band svedese “di culto” da qualche anno tornata sulle scene. Il quintetto appare visibilmente carico per avere avuto l’opportunità di esibirsi a un festival tanto importante e, complice anche un supporto massiccio da parte del pubblico, dà vita a un’esibizione molto sentita e coinvolgente. I brani più noti dei due full-length sino a oggi pubblicati – “Tales From The Tomb” e “Dead Calm Chaos” – vengono proposti con fedeltà e trasporto, ma per il sottoscritto l’apice dello show viene raggiunto con l’esecuzione della vecchissima “The Ancient Gate”, title track di un demo datato 1992. I fan, come prevedibile, non sembrano conoscere questa traccia altrettanto bene, ma poco importa… il frontman Thomas Josefsson salta da una parte all’altra del palco come se fosse un ragazzino e non smette un solo secondo di incitarli. A tratti ci emozioniamo quasi quanto lui… d’altronde, non capita tutti i giorni di vedere un gruppo dato ormai per morto tornare con lavori di qualità e, per giunta, riscuotere anche un buon successo. Ora cercate di non perderli nell’imminente tour di spalla ai Cannibal Corpse: come annunciato da Josefsson, per loro sarà la cosiddetta occasione della vita.
OPETH
Assistere ad uno show degli Opeth è sempre e comunque uno spettacolo a cui vale la pena presenziare, anche in serate in cui la fortuna non assiste la band poiché le cose non vanno proprio come dovrebbero andare solitamente. Pronti via e, dopo la prima canzone (“Ghost Of Perdition”), ci si accorge che l’amplificatore di Fredrik Akesson non va come dovrebbe e quindi si deve provvedere ad una fulminea riparazione. Mikael Akerfeldt, perciò, si vede costretto a far sfoggio delle sue doti da oratore parlando al pubblico, spiegando che ovviamente lo show non poteva continuare con una chitarra in meno e via discorrendo. A grande richiesta, poi, assistiamo a un breve solo di Martin Axenrot dietro le pelli, seguito poi a ruota dagli altri strumentisti per cinque minuti di inattesa e piacevolissima jam session. Dopo aver presentato uno ad uno gli elementi della band e dopo aver sottolineato che ‘questa band si chiama Opeth, nel caso in cui non ci conosciate’, Akerfeldt decide che si può riprendere con il vero e proprio concerto. Mikael annuncia che per farsi perdonare eseguiranno due brani da “Blackwater Park”: il primo è “Harvest”, che però viene fatto cantare quasi esclusivamente dal pubblico (che per la verità partecipa decisamente poco), per poi partire all’assalto con “The Leper Affinity”. E’ il momento di incantare ulteriormente la folla con una versione rivisitata, allungata, riarrangiata e semplicemente incantevole di “Closure”. Si scusano col pubblico gli Opeth prima di uscire di scena, forse non sanno che in realtà ai loro fan (e non solo) sono bastate una manciata di canzoni per rimanere estasiati ancora una volta…
DAGOBA
Mentre gli Opeth concludono avventurosamente le danze del festival sul Main Stage, nella PartyTent è ancora tempo di violenza apocalittica e annichilente: i francesi Dagoba, seguendo gli ultimi echi del loro secondo full “Face The Colossus”, si preparano a distruggere gli eroici superstiti dell’evento tramite il loro death-black metal moderno, bombastico e dalle vaghe tinte –core. Nonostante il ridicolo inglese francesizzato del drummer Franky Costanza, che in un paio di occasioni ha creato gelo negli astanti sostituendosi come frontman al ben più decente Shawter, i ragazzi di Marsiglia hanno sbaragliato le residue resistenze fisiche dell’audience, offrendo una performance più che buona – un pelo troppo alta di volumi, forse – e ben bilanciata fra i pezzi superlativi di “What Hell Is About” (“The Things Within”, “The Man You’re Not”, “It’s All About Time”) e quelli migliori dell’ultimo lavoro, fra i quali la title-track, “Back From Life” e “The Nightfall And All Its Mistakes”. Prova positiva, dunque, anche per i Dagoba, che si sono confermati band di spessore e davvero capace. Ai Deathstars, sul Pain Stage, il compito di spedire tutti quanti nelle tende o, in alternativa, all’afterhour della Metal Hammer Nacht. Un’altra edizione trascorsa, dunque: tanti bei ricordi, musica valida per buona parte del tempo e diverse formazioni da censurare senza pietà. Arrivederci, cara Dinkelsbühl!