17/08/2022 - SUMMER BREEZE 2022

Pubblicato il 09/09/2022 da

Introduzione e report di Roberto Guerra
Fotografie di Giacomo Astorri

Dopo l’odioso stop di due anni che ha visto andare in stallo l’intera scena metal mondiale, anche il Summer Breeze può tornare a dire la propria nell’ambito dei festival europei. La novità più evidente di questa edizione risiede nel fatto che, per la prima volta, il Main Stage viene messo in funzione sin dal primo giorno, anche se trovarlo così essenziale e sprovvisto non solo delle statue dei gargoyle montate ai lati, ma anche della funzione rotante che tanto ci aveva fatto gridare all’innovazione alcuni anni fa, lascia un po’ di amaro in bocca. Tuttavia, le vere note dolenti dell’edizione di quest’anno risiedono in una cura non eccelsa dei suoni (a differenza degli anni passati), nonché nella quasi totale mancanza di misure per contrastare i disagi dati dalle condizioni meteo piovose, le cui fangose conseguenze renderanno relativamente più difficili permanenza e spostamenti soprattutto nelle ultime due giornate. A parte questo non abbiamo particolarmente apprezzato alcune scelte sulla disposizione delle band sui vari palchi (i Testament sul T-stage, ad esempio), col risultato di far apparire quasi sottovalutate delle realtà dall’indiscutibile valore storico, ma probabilmente alcune disposizioni di running order sono dovute alla presa (o meno) delle band sul pubblico tedesco, nonché sulla loro natura più o meno improntata all’intrattenimento e non solo alla musica. Inoltre, attraverso i canali ufficiali del Summe Breeze abbiamo appreso di problemi con il trattamento igienico dei bagni e con qualche comportamento irrispettoso da parte di alcuni presenti, comprese delle presunte molestie, per cui gli organizzatori hanno voluto rilasciare comunicati in corso d’opera, rivolti ovviamente al medesimo pubblico presente. Vi lasciamo al resoconto delle varie giornate del festival. Buona lettura!

MERCOLEDÌ 17 AGOSTO
In questa prima giornata il nostro running order personale non prevede concerti sul palco principale – ad eccezione dei Die Apokalyptischen Reiter all’una di notte – non per motivazioni particolari, ma perché riteniamo che determinate esibizioni in programma fossero al limite dell’irrinunciabile, nonostante la loro collocazione sui palchi secondari.
Dopo il pranzo a base di street food, seguito dal consueto giro al metal market del Summer Breeze, davvero ricco di stand dove poter spendere in merchandise di vario genere, decidiamo di rompere il nostro silenzio musicale in prossimità del T-Stage in compagnia dei mitici thrasher statunitensi EXODUS, i quali si rendono protagonisti ancora una volta di uno show demolitivo (seppur forse un po’ breve) e perfetto per iniziare a incrinare le prime costole nel moshpit tra una “Bonded By Blood” e una “Strike Of the Beast”, passando per una più lenta “Blacklist” che non guasta mai, respirando nel contempo l’immancabile quantità di terra: Steve Zetro Souza fomenta gli animi con fare esaltante e Tom Hunting ci fa letteralmente piangere di gioia con la sua ritrovata energia, pur essendo visivamente invecchiato a causa della propria lotta contro il cancro; e che dire del mitico Gary Holt nuovamente presente in pianta stabile? Una goduria per occhi e soprattutto orecchie.
Similmente a quanto avvenuto al Luppolo In Rock di quest’anno, proseguiamo con gli illustri colleghi TESTAMENT, anch’essi a dir poco chirurgici nell’esecuzione di una scaletta cui non abbiamo particolari critiche da muovere, considerando la presenza di inni come “Practice What You Preach”, “The New Order” e “Over The Wall”, anche se non avremmo disdegnato almeno un rimando o due alla loro uscita più recente, oggi trascurata del tutto. In ogni caso, con una formazione così colma di vere e proprie superstar del metal globale sarebbe stato difficile aspettarsi di meno, trattandosi di fatto di quella che è forse la miglior thrash band in circolazione per quanto concerne l’attività live, impreziosita in tempi recenti dal ritorno del rullo per antonomasia Dave Lombardo. Ci dispiace non vederli sul Main Stage come meriterebbero, ma evidentemente gli organizzatori han preferito dare priorità ad altro.
Nota dolente di oggi i PARADISE LOST, la cui resa generale sembra quasi far trasparire una parziale mancanza di energia e voglia: questo non è collegato alla loro tetra proposta musicale a tinte gotiche, chiaramente non orientata verso lidi più scanzonati, quanto piuttosto ad una carenza, almeno secondo chi scrive, di coinvolgimento generale. In particolare Nick Holmes ci sembra quasi che vada avanti per inerzia, anziché per passione in ciò che sta facendo, e il risultato si concretizza in una quantità notevole di sbadigli da parte nostra, anche in concomitanza di “Forever Failure” e “One Second”; un po’ meglio fortunatamente con “As I Die” e “Say Just Words”, le cui soluzioni riescono ancora ad apparire accattivanti. Peccato, speriamo si tratti di un episodio isolato.
Ben altro discorso per gli ucraini 1914, che per qualche motivo vengono relegati sul Ficken Party Stage in mezzo al campeggio, anche se basta aspettare i primi rintocchi di “War In” per accorgersi che questo non rappresenta affatto un ostacolo. Anzi, ci troviamo al cospetto di uno show maledetto, furente e colmo di pathos, nonché di vera e propria collera belligerante nelle parti più concitate ed annerite del loro modo unico di intendere la commistione tra black, death e doom, data anche dalla situazione in cui versa ancora oggi il loro paese di provenienza. Tuttavia, notiamo che, a parte qualche breve frase sanguinaria qui e là, lo show non appare affatto con tinte politiche: i ragazzi suonano dall’inizio alla fine con pochissime interruzioni, persino camminando in mezzo a un pubblico in contemplazione negli attimi finali sulle malevole note di “Passchenhell”. Immancabile comunque qualche “fuck Putin” qui e lì nel pubblico.
Ultima tappa al T-Stage per i nostrani FLESHGOD APOCALYPSE, purtroppo protagonisti di un concerto castrato dalla mancanza del chitarrista solista Fabio Bartoletti, qui sostituito comicamente da un fantoccio. Malgrado l’assenza importante, Francesco Paoli e soci ci esaltano tantissimo con la loro peculiare formula a base di death metal sinfonico, ed è doveroso un applauso al giovane nuovo ingresso alla batteria Eugene Ryabchenko, anch’egli proveniente dalla sanguinante Ucraina. Fa dispiacere sentire gli assoli chitarristici di “Monnalisa”, “The Fool” e “Sugar” in playback a causa della situazione, ma considerando la resa e anche il coraggio di presentarsi senza un membro tanto importante, ci riteniamo comunque soddisfatti.
Chiudiamo appunto con i DIE APOKALYPTISCHEN REITER sul Main Stage, che come prevedibile mandano in visibilio il pubblico tedesco con la loro peculiare minestra di generi, in modo non dissimile da tutte le altre volte che li abbiamo visti: dalla iniziale “Reitermania” agli atti conclusivi “Auf Und Nieder” e “Von Freiheit Will Ich Singen” la parola d’ordine è sempre e comunque l’intrattenimento, ed il pubblico sembra gradire, perlopiù noncurante delle prime gocce di pioggia che, fortunatamente, rimarranno assenti nella giornata successiva, anche se dalla terza in avanti… Beh, lo vedremo.

GIOVEDÌ 18 AGOSTO
A mezzogiorno è già il momento di inaugurare il Main Stage in compagnia dei thrasher britannici EVILE che, nonostante un pubblico non ancora particolarmente gremito di fronte, forniscono una prova esemplare e ottima per prendere qualche bella sberla, anche e soprattutto quando viene rievocato l’esordio “Enter The Grave”, il cui estratto “Thrasher” ha fatto letteralmente scuola in ambito modern thrash. Il tutto volto anche a destare la nostra attenzione in vista di ciò che arriverà dopo. Inoltre, notiamo con piacere che Ol Drake anche come frontman funziona piuttosto bene, oltre che – ovviamente – come chitarrista.
Seppur più da lontano, diamo un occhio anche allo show dei DARKEST HOUR, che a scanso di qualche lieve svarione sonoro (non dissimile da altre di cui avremo modo di accorgerci nel corso delle giornate) si mostrano carichi e divertiti con il loro moderno melodic death a tinte metalcore, almeno quanto il loro pubblico schierato nelle prime linee, intento a gettarsi oltre la transenna sui ritmi della corposa scaletta, comprensiva ovviamente della nota “Demon(s)” e della conclusiva “The Sadist Nation”.
Riusciamo a guardare una parte del concerto dei GUTALAX sul T-stage, che, nonostante chi scrive non sia propriamente un estimatore della loro fecale miscela a tinte goregrind (anzi, tutto l’opposto), sembra fomentare e divertire moltissimo il pubblico, a giudicare dalla quantità immane di gente agghindata in modo improbabile, intenta a pogare sventolando spazzoloni da water.
Coi BEAST IN BLACK torniamo sotto il Main Stage, pronti a mandare in fiamme le nostre ugole insieme a quella bestia di cantante di Yannis Papadopoulos e all’heavy/power a tinte pop proposto, capace ogni volta di toccare delle note talmente acute da essere difficilmente percepibili. Si nota il grandissimo successo commerciale, da loro riscosso negli ultimi anni, osservando l’esaltazione generale che si impossessa dei presenti, ben lieti di poter cantare e saltare al ritmo di una scaletta che purtroppo conta qualche assenza, ma considerando il poco tempo a disposizione riteniamo che vada bene così. In fin dei conti, le recenti “Blade Runner” e “Hardcore” ci sono, così come la ormai inflazionata “Blind And Frozen”, divenuta una vera e propria hit delle sonorità finniche.
Altra nota dolente per i loro connazionali FINNTROLL che, oltre a dover rivedere un minimo la scaletta, privata di alcuni estratti immancabili come “Slaget Vid Blodsalv”, “Jaktens Tid” e “Trollhammaren” (tanto per dirne alcune, ma potremmo andare avanti), non paiono esattamente all’apice della loro forza, tant’è che la botta che ci aspettavamo di ricevere da questi troll nordici, sia sul versante musicale che quello scenico, non giunge mai, riducendo di fatto la loro esibizione a qualcosa di a malapena gradevole da parte di un combo di musicisti visivamente poco inclini a dichiarare battaglia alla location. Un risultato non all’altezza di quanto fatto in altre occasioni, incluse alcune date in Italia che ricordiamo con molto piacere, e dopo tanti anni di assenza dalle scene è lecito desiderare qualcosa di più.
Ben altro discorso per i DEATH ANGEL, di nuovo sul T-stage, che non sono altro che una vera e propria garanzia di successo quando si vuole menare le mani in compagnia di un po’ di sano thrash metal di matrice statunitense. Mark Osegueda è un animale da palco con tutti i crismi, oltre a non aver perso una virgola di voce, la formazione che lo accompagna non sbaglia mezza nota, e anche i suoni dobbiamo dire che a sto giro hanno svolto bene la loro parte, portando di fatto uomini e donne a volare sopra le teste delle prime file con gaudio, soprattutto su classici come “Seemingly Endless Time” e la conclusiva “Thrashers”, anche se pure le recenti “Humanicide” e “Dream Calls For Blood” non scherzano affatto.
I black metaller KVAEN rappresentano la vera sorpresa del festival, dal momento che la loro esibizione sotto la tettoia del Wera Tool Stage ci ha lasciato a dir poco con la bocca aperta per il tiro irresistibile in sede live delle composizioni, degne di un ricovero a causa dei muscoli del collo infiammati; tanto da spingerci ad assistere all’intero show con il fomento a mille, nonché con una curiosità insaziabile di approfondirne ulteriormente le capacità una volta tornati a casa, ritenendo che si tratti di una band con un futuro a dir poco radioso di fronte, e augurandoci che il successo non tardi ad arrivare per loro. Consigliamo a tutti i lettori di correre a sentire almeno il recentissimo “The Great Below”, candidato, a parere di chi scrive, tra le migliori uscite di genere black metal del 2022.
Sugli ARCH ENEMY e sul loro ruolo di headliner non c’è molto da dire, trattandosi oramai di una vera e propria istituzione, fautori di un connubio sempre più di moda tra metal estremo e melodie catchy, nonché trovate compositive piuttosto semplici da assimilare. Sono caratteristiche che possono piacere o non piacere, ma è innegabile che i loro concerti siano confezionati con cura maniacale da un combo di musicisti preparati e professionali: Alissa White-Gluz è sempre una frontwoman iconica nel suo portamento e l’accoppiata di chitarre affidate alle sapienti mani di Jeff Loomis e Michael Amott è pressoché esente da ogni critica. Si potrebbe volendo criticare la natura quadrata dei loro concerti, così come una presenza troppo ridotta di pezzi antecedenti l’ingresso in formazione di Alissa – se si escludono le solite “My Apocalypse”, “Ravenous” o “Nemesis” –  ma finché il risultato è questo non ci possiamo lamentare. Anche il nuovo album “Deceivers”, pubblicizzato persino sui bicchieri del festival, ci ha piacevolmente convinto in sede live, ben più dei due predecessori, a dirla tutta.
L’ingresso on stage degli AVATAR, che li vede disposti tutti al centro del palco sulle note e i battiti di “Colossus”, ci ha lasciato a dir poco basiti, così come tutto il concerto seguente, eseguito con un’attenzione maniacale alla componente più legata all’intrattenimento, ma sempre con ben puntati gli occhi e le orecchie sul lato musicale. Una band che ha trovato la propria piena maturazione artistica ed esecutiva, capace di far tacere gente provvista di nomi ben più inflazionati e di mettere d’accordo anche chi sarebbe poco incline alla loro proposta poco etichettabile, che passa dalle melodie malate di “Paint Me Red” allo speed metal di “Silence In The Age Of Apes”. Un applauso al circense frontman Johannes Eckerstrom, autore di una performance sopra le righe. Li aspettiamo al varco per una data in Italia quanto prima.
Impossibile andare a dormire senza aver posto i nostri omaggi a uno dei migliori frontmen della storia, nonché alla band che, a fine festival, ci ricorderemo come quella autrice del concerto più bello del festival. I DARK TRANQUILLITY e Mikael Stanne ci incantano infatti con un’ora di concerto aggressivo e toccante, condito da suoni perfetti e spinto da un propulsore inesauribile, con un risultato finale che definiremmo quasi inaspettato – non perché loro non siano una garanzia, ma perché difficilmente si sarebbe presagito un evento tanto magico ed appassionante, dopo il quale possiamo solo coricarci con ancora in testa le melodie di “Therein” e “Lost To Apathy”. Anche in questo caso la nota dolente risiede nell’assenza di rimandi ai grandi capolavori del loro primo periodo di carriera, ma personalmente abbiamo goduto tantissimo anche semplicemente con quanto proposto.

VENERDÌ 19 AGOSTO
L’ora tarda raggiunta la sera precedente ci ha costretto a perdere le prime esibizioni della giornata, tra cui i Lorna Shore, rendendo di fatto i teutonici Orden Ogan la nostra prima band di oggi, nonché l’inizio di quella stramaledetta pioggia che andrà e verrà per tutto il giorno, trasformando il terreno del festival in una dannatissima palude, peggio di Wacken.
Venendo al dunque degli ORDEN OGAN, non possiamo che ribadire quanto in realtà già detto da molti negli ultimi anni: i loro pezzi e il loro peculiare modo di fare power metal ci piacciono da matti, anche in sede live, e tra questi potremmo citare l’iniziale e iconica “F.E.V.E.R.”, la più fiammeggiante “Inferno” o la altrettanto nota “Gunmen”, ma il vero problema risiede nel fatto che il vocalist Sebastian ‘Seeb’ Levermann dal vivo proprio non ce la fa a cantare come su disco: si sprecano le strofe e i ritornelli eseguiti una o due ottave sotto, o persino con una timbrica più addolcita, con risultati a tratti un po’ amari come in concomitanza della furente “In The Dawn Of The AI”; questo porta a domandarci ulteriormente se non sarebbe il caso che tornasse a imbracciare la chitarra, per prendere magari un cantante più performante. A tal proposito, la versione della loro “Interstellar” cantata da Andy Franck dei Brainstorm e rilasciata online pochi giorni fa permette di ben capire come possono rendere i loro pezzi con dietro al microfono un vocalist di livello davvero alto.
La quantità immane di toppe e magliette dei PARASITE INC. ha stuzzicato la nostra curiosità: decidiamo quindi di assistere a un loro concerto presso il T-Stage, e quel che ci siamo trovati davanti onestamente ci è parso come una riproposizione degli stilemi più catchy del melodic death metal, con più di qualche menzione ai Children Of Bodom o agli stessi Dark Tranquillity, con però un risultato generale fiacco, distante anni luce da quanto reso celebre da colleghi ben più talentuosi e capaci. Rimane un mistero come faccia certa gente a lamentarsi degli Arch Enemy per poi difendere formazioni come questa che, sebbene possa vantare un paio di pezzi buoni come “I Am” e “The Pulse Of The Dead”, ha davvero ben poco da aggiungere al panorama.
Con gli ALESTORM ci si diverte sempre, e anche in questa sede la loro apparizione sul palco principale ci ha strappato più di qualche sorriso, nonostante la mancanza del telo posteriore parodistico, scimmiottante i Manowar, che tanto ci aveva fatto ridere a Barcellona. Chris Bowes e tutta la ciurma tengono il palco benissimo, portando a sguazzare nel fango tutti i loro estimatori, in particolar modo sulle note del loro ultimo full-length “Seventh Rum Of A Seventh Rum”, apprezzato anche dalla critica per via del suo ritorno alle sonorità più power metal degli esordi, qui rievocati anche con le immancabili “Keelhauled”, “Shipwrecked” e “Captain Morgan’s Revenge”. Meno efficaci le più ballerine “Treasure Chest Party Quest” e “Mexico”, ma trattandosi dei nostri amati pirati scozzesi power/folk li apprezziamo anche nelle vesti più caciarone.
Altra band ucraina del lotto sono i sempre più popolari JINJER, guidati da quella belva ruggente di Tatiana Shmayluk e rappresentati dal simbolo della pace coi colori della loro bandiera nazionale, ben visibile sullo sfondo del T-Stage, nonché dal loro indefinibile genere musicale, in cui si percepiscono groove, prog, djent e deathcore. Anche per loro si applica il discorso che vede le formazioni provenienti dal paese martoriato dalla guerra intente a ricordare, con gesti e parole, la situazione della propria nazione, e la summa di tutto questo non può che essere una rabbia e una ferocia inimitabili, tangibili nell’esecuzione delle terremotanti “Teacher, Teacher!”, “Call me A Symbol” e “Vortex”, così come nella ricezione da parte del pubblico presente sotto al palco, a dir poco estasiato dall’energia trasmessa.
Il nome SPACE CHASER dirà poco a molti di voi, ma vi garantiamo che si tratta di una speed/thrash metal band davvero interessante per gli amanti dell’old-school, e anche il loro concerto sotto il Wera Tool Stage incarna a pieno i dettami del suddetto filone: adrenalina, velocità e tanto sano metallo alla vecchia maniera, davvero irresistibili in un contesto in cui tendenzialmente si è mangiato pane e sonorità, più o meno apprezzabili, decisamente rivolte verso la modernità. Se non li conoscete date una chance ai loro tre album disponibili sul mercato, soprattutto il recente “Give Us Life”, non ve ne pentirete!
Parliamo ancora di melodic death metal e di T-Stage grazie agli INSOMNIUM, che come al solito portano in scena la loro malinconica e introspettiva interpretazione del genere con somma maestria, confermandosi ancora una volta come pietre angolari della scena. Inoltre, la possibilità di suonare dopo il tramonto impreziosisce l’atmosfera evocata dalle loro composizioni, davvero suggestive in questa cornice. Del resto, riesce relativamente difficile immaginare “Ephemeral”, “Unsun” e “While We Sleep” sotto la luce del sole.
Chiudiamo la terza giornata con gli spagnoli ANGELUS APATRIDA, che ormai sono da consacrare letteralmente nel pantheon delle migliori formazioni di genere thrash metal degli ultimi anni, nonché degni araldi di un sound da loro interpretato ottimamente, dal vivo ancor più che su disco. Fa un po’ dispiacere vederli relegati sul Wera Tool Stage, soprattutto dopo averli visti sui palchi principali a casa loro in occasione del Barcelona Rock Fest, e per giunta con l’impossibilità di pogare come si deve su “Indoctrinate” e “You Are Next” a causa del terreno appiccicoso e devastato dalla pioggia. Peccato, perché questi quattro ispanici hanno davvero mietuto vittime con la loro musica in questa sede, come sempre del resto.