Introduzione a cura di Marco Gallarati
Report a cura di Marco Gallarati e Giacomo Slongo
Foto di Enrico Dal Boni ed Emanuela Giurano
Con il Summer Breeze Open Air giunto alla sua sedicesima edizione e Metalitalia.com giunta alla sua dodicesima partecipazione consecutiva (dal 2002 al 2013 senza soste!), possiamo ben dire di conoscere pressoché a menadito le prerogative, le abitudini e i segreti di questo importantissimo festival open air europeo, negli ultimi anni superato certamente dal francese Hellfest e dal belga Graspop per importanza del bill – senza tirare in ballo ovviamente la Corazzata Potemkin degli eventi metal, il Wacken – ma ancora ben accattivante per qualità del divertimento, elenco band piuttosto di nicchia, location climaticamente ideale e portata d’audience non esageratamente elevata. All’edizione dello scorso anno, infatti, furono 33000 le presenze registrate, mentre quest’anno crediamo il festival sia cresciuto al massimo di un qualche migliaio di unità, senza raggiungere la vetta impegnativa dei 40000 partecipanti. La camping area è stata ulteriormente ampliata, come succede ogni anno, quel tanto che basta per garantire un’organizzazione sempre efficiente e lontana da serie problematiche. I servizi ormai sono una certezza al Summer Breeze, con un’ampissima scelta di cibarie, bevande e possibilità di utilizzare bagni e docce a pagamento, se proprio non si sopporta l’idea di accomodarsi nei temuti, ma anche ben mantenuti, ‘cessi’ chimici. Qualcosa è cambiato, invece, nella disposizione dei palchi del festival: nella zona prettamente musicale, lo spazio tra il Main Stage e il Pain Stage è stato allargato e, seppur di poco, ci è sembrato che le dimensioni del Main si siano ingrandite, così come quelle del Pain rimpicciolite rispetto al passato; il tendone denominato Party Stage, invece, posto nell’ampia area d’accoglienza tra l’entrata e il Metal Market, è stato ruotato di novanta gradi – forse per garantire una migliore acustica – e rifornito di un impianto luci più potente, oltre che di supplementari chioschi di birra e bibite e un maxi-schermo posto all’esterno. La distribuzione del bill, inoltre, si è rivelata leggermente più curata (sempre se paragonata alle edizioni precedenti), con il Party Stage praticamente riservato alle band più estreme e a quelle di minore appeal, e con i due stage principali devoti alle formazioni in grado di richiamare ampi plotoni di pubblico, come ad esempio qualsiasi band praticante ogni tipo permesso di folk metal e folk non-metal. Infine, variati anche i proibitivi orari delle esibizioni, resi appunto meno proibitivi dal taglio di ben due ore di concerti al giorno, non più previsti dalle 11 del mattino alle 4 di notte, bensì da mezzogiorno alle 3. Insomma, sorvolando sui perfezionamenti riservati alla VIP Area, che riguardano prettamente gli addetti ai lavori, possiamo concludere affermando che, di anno in anno, piano piano, il Summer Breeze offre ai propri avventori una serie di migliorie curate nei dettagli, migliorie che lo mantengono di sicuro nella ristretta cerchia delle manifestazioni metalliche europee di livello superiore. Senza dimenticare la vicinanza con la deliziosa Dinkelsbuhl, a cui quest’anno la vostra TMP (Truppa Metallica Preferita) ha dedicato maggior tempo e attenzione, godendosi per bene, di mattina inoltrata, la sua pace e le sue bellezze medievali.
Ora, finalmente, spazio alla solita pletora di trafiletti, Pillole, foto e quant’altro ricavato dalla nostra 4 giorni teutonica!
VADER
Dopo un viaggio piuttosto tranquillo, senza risentire troppo degli annunciati lavori in corso a Dinkelsbuhl, rivelatisi ben poca cosa e di minimo rilievo, il prologo del mercoledì festivaliero ha come al solito luogo nell’area circostante il Party Stage, il gigantesco tendone dove la kermesse musicale decolla. Quest’anno c’è alternanza, fin dalla prima serata, fra Party e Camel Stage, non solo con formazioni di quinto-sesto piano, magari neanche metal, ma anche con entità un po’ più robuste. E’ però sotto la tenda che l’attesa sale in breve spasmodica: archiviato il concorso New Blood Award, con la vittoria degli Stormborn, e osservati, stesi sull’erba, alcuni spezzoni dei metal-corer inglesi Bury Tomorrow, tocca agli storici polacchi Vader darci il battesimo del Summer Breeze 2013. Giusto a due anni fa, sempre qui, risale l’ultima nostra visione della death metal band e a questo giro ci tocca ammettere che il gruppo di Peter ci convince almeno più del previsto. Nascosta da una cortina fumogena pressoché costante e irradiata da un impianto luci rinnovato e perfettamente all’uopo, la formazione est-europea sciorina il suo caparbio metal estremo su una folla già abbastanza numerosa – sebbene nel tendone si sia visto molto di peggio/meglio negli anni scorsi. Un’ora dedicata al massacro totale, quella concessaci dai Vader, grazie ad una setlist che stavolta non ha riservato cadute di stile – ricordiamo le due cover suonate l’ultima volta, che per una band dalla storia trentennale (quest’anno: auguri!) sanno davvero di rancido – e che ha travolto e annichilito un bel po’ di audience, magari ancora stanca e/o già provata dal viaggio e dalle prime bevute di birra. Buona scarica death metal, comunque, per un giusto antipasto!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Sothis
Vicious Circle
Fractal Light
Carnal
Reborn In Flames
Silent Empire
Return To The Morbid Reich
Come And See
Dark Age
Vision And Voice
Wings
God Is Dead
DESERTED FEAR
Archiviato il non tanto esaltante show dei Vader, ci spostiamo di nuovo nei pressi del Camel Stage per saggiare con mano le doti dei Deserted Fear, giovane promessa del death metal europeo (età media vent’anni) finita sulle pagine della nostra famigerata rubrica Sectioning Death. Il gruppo si presenta sul palco come quartetto, con il lungocrinito frontman nella duplice veste di cantante/chitarrista, e, dopo un soundcheck appena abbozzato, sguinzaglia sulla folla la propria concezione di Metallo della Morte alla vecchia – vecchissima! – maniera, partendo come una locomotiva sulle note di “The Battalion Of Insanities”. A metà strada fra Asphyx, Bolt Thrower e le derive più epiche di un gruppo come gli Hail Of Bullets, la musica dell’ensemble teutonico fuoriesce dalle casse con la grazia di un caterpillar, spianando la strada al resto della setlist e scatenando una volta per tutte i presenti, visibilmente esaltati dalla foga con cui i propri connazionali imbracciano gli strumenti sul palco, stretti fra le mani quasi fossero mazze ferrate. Difficile per uno spettatore cresciuto ascoltando le succitate realtà resistere all’assalto perpetrato dai Nostri: l’headbanging parte immediato, in un tripudio di chiome fluenti e corna stagliate contro il cielo notturno. “Nocturnal Frags”, “The Black Incantation” e “Field Of Death” riecheggiano come granate sulla campagna di Dinkelsbühl, stendendo un lungo tappeto rosso sangue in vista dell’attesa “My Empire”, il cui splendido incipit in mid tempo consacra una volta per tutte la performance del gruppo. Pollice su!
(Giacomo Slongo)
Setlist:
The Battalion Of Insanities
Nocturnal Frags
The Black Incantation
Field Of Death
My Empire
Bury Your Dead
WINTERFYLLETH
Il primo gruppo che riusciamo a vedere all’opera nella giornata di giovedì è quello dei Winterfylleth, quartetto britannico nato nel 2007 ed autore di un black metal atmosferico non troppo distante da quello dei coetanei (nonché vicini di casa) Fen. I Nostri, sobri tanto nel vestire quanto nei modi di fare, si presentano sul Party Stage in punta di piedi e senza troppi preamboli partono a testa bassa con un trittico di brani pescati dalla loro ultima fatica discografica, “The Threnody Of Triumph”: la malinconica intro “Æfterield-Fréon”, “A Memorial” e “The Swart Raven” deflagrano come fulmini a ciel sereno sotto l’accogliente volta del tendone, ponendo l’accento sull’ottimo guitar-work e sulla sofferta prova di Chris Naughton, sospesa fra urla, sussurri e calde tonalità pulite. Uno spettacolo intimo, che quasi stona con l’abbagliante luce del sole proveniente dall’esterno, gestito con comprovata sicurezza da una formazione ormai prossima a fare il cosiddetto salto di qualità. Solo sette i brani eseguiti dal gruppo di Manchester nei tre quarti d’ora a disposizione, ma in fin dei conti non c’è da meravigliarsi se consideriamo che la durata media delle sue composizioni è di sei/otto minuti! Tra queste, spiccano soprattutto gli estratti dei primi due dischi, con una “A Valley Thick With Oaks” accolta molto bene dal pubblico nel suo incedere epico e solenne, fra sfuriate in blastbeat, break acustici e parentesi ad ampio respiro. Prima, piccola sorpresa di questo Summer Breeze 2013.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Æfterield-Fréon
A Memorial
The Swart Raven
The Ghost Of Heritage
A Valley Thick With Oaks
The Threnody Of Triumph
Defending The Realm
SOILWORK
I Soilwork, dopo qualche anno e un blocco di dischi alquanto appannati, paiono avere ritrovato il bandolo della matassa, si voglia anche grazie ad una formazione ormai completamente rivoluzionata ma almeno abbastanza stabile. Il doppio “The Living Infinite”, pur senza far gridare al miracolo, ha ottenuto buoni responsi e ‘Speed’ Strid e compari, nel pieno pomeriggo di una tiepida giornata tedesca, decidono di dare la sveglia ad un pubblico numeroso, ma che alle 16.00 ha ancora avuto poco di che godere, se non forse con un paio di danze folk dei ridanciani Cultus Ferox e dei beoni Alestorm. L’impatto dei Soilwork sull’audience teutonica è sempre positivo, nonostante si imbarchino spesso in prestazioni mai perfette e mai del tutto soddisfacenti. Dal vivo, esclusa la sputazzante e ingombrante mole di ‘Speed’, che da solo regge in piedi quasi tutta la presenza scenica del combo, la band pare al solito anonima e opaca, sebbene non pecchi più di tanto in dinamismo e impegno. I suoni sono un po’ disturbati da una brezza fastidiosa, ma i sei ragazzi riescono a destreggiarsi con sufficienza in lungo e in largo ad una setlist equamente divisa tra il nuovo disco, “The Panic Broadcast” e alcune chicche del passato di media carriera, senza ovviamente andare a disturbare i capolavori “The Chainheart Machine” e “A Predator’s Portrait”, dai quali i brani tratti equivalgono a zero. Al loro posto, ecco le piacevolissime “Follow The Hollow”, “Weapon Of Vanity” e, a concludere, la dondolante “Stabbing The Drama”, giunte a ricordarci come, con i loro fisiologici alti e bassi, i Soilwork restino dei piccoli maestri del chorus super-melodico in un contesto thrash-death metal. Non ci sono piaciuti granché, a conti fatti, ma qui i crucchi applaudono incondizionatamente tutti, quindi ci fidiamo. O no?
(Marco Gallarati)
Setlist:
This Momentary Bliss
Weapon Of Vanity
Spectrum Of Eternity
Follow The Hollow
Tongue
Nerve
Let This River Flow
Rise Above The Sentiment
Late For The Kill, Early For The Slaughter
Stabbing The Drama
FEAR FACTORY
Dopo un’oretta di pausa dedicata al merchandise, ci ritroviamo di fronte al Main Stage per vederci un’ennesima volta i Fear Factory, sperando che la loro situazione sia almeno un po’ migliore rispetto alle (quasi) imbarazzanti prove delle ultime visioni, ovviamente dovute all’ormai afonia galoppante di Burton C. Bell. Ebbene, essendo la speranza l’ultima a morire, a questo giro il caro Burton risorge, almeno in parte, e sfodera una prova perlomeno degna di essere ascoltata e anche sorprendente. Cazares e la relativamente nuova sezione ritmica composta da Matt DeVries e Mike Heller danno solidità e spessore ad un wall of sound notevole, che appunto non aspettava altro che una voce all’altezza. Ora, non stiamo certo gridando al miracolo, ma risentire il vocalist in discreta forma è stato un vero toccasana per chiunque si reputi fan della formazione losangelina. Setlist piuttosto classica – per un’ora di esibizione – ma che ha riservato un paio di sorprese inaspettate: l’esecuzione di “What Will Become?” al posto della stucchevole, ma sempre apprezzata dal pubblico, “Lynchpin”, a rappresentare un disco discusso quale “Digimortal”; e poi, novità delle novità, ecco rientrare in scaletta un pezzo tratto da “Archetype”, l’album che, assieme a “Transgression”, venne pubblicato quando Dinone Cazares era fuori dal gruppo. Le dichiarazioni al suo rientro furono decisamente esplicite (Ricordate? ‘Non suoneremo mai canzoni da quei due dischi’), ma evidentemente il tempo ha lenito l’impuntarsi d’orgoglio…oppure, più semplicemente, “Archetype” è un signor pezzo che Burton riesce a cantare discretamente dal vivo. Finale al solito spaziale, con il poker d’assi iniziale del masterpiece Nineties “Demanufacture”. Bello risentire questa formazione, ultimamente un po’ in calo, ancora in grado di spaccare!
(Marco Gallarati)
Setlist:
The Industrialist
Shock
Edgecrusher
Powershifter
What Will Become?
Archetype
Martyr
Demanufacture
Self Bias Resistor
Zero Signal
Replica
NECROPHOBIC
Dopo il gradevole show offertoci dai Naglfar nella scorsa edizione del festival, arriva per noi il momento di un po’ di sano death/black made in Sweden. Quest’oggi la volta dei Necrophobic, una delle realtà più ingiustamente sottovalutate della penisola scandinava e da sempre pallino fisso di chi scrive, chiamati a presenziare sotto il tendone poco dopo la convincente esibizione dei Fear Factory sul Main Stage. Con il frontman Tobias Sidegård detenuto in carcere per abusi famigliari, i Nostri sopperiscono egregiamente alla mancanza di un cantante grazie all’intervento di Kristoffer Olivius dietro al microfono (si, proprio il singer dei Naglfar), mentre il ruolo di chitarrista ritmico finisce nelle mani di Friedrik Folkare, axe-man in forza anche negli Unleashed. L’inizio è tutto per “Hrimthursum”, primo disco dell’era Regain, con una “Blinded By Light, Enlightened By Darkness” che non fa rimpiangere poi così tanto l’operato di Sidegård: Olivius si conferma un frontman abile e scafato, muovendosi su e giù per il palco e sfoggiando uno screaming a dir poco raggelante. Gli occhi degli astanti sono ovviamente tutti per lui, ma non possiamo fare a meno di sottolineare anche la figura del bassista Alex Friberg, un vero colosso di muscoli, piercing e tatuaggi! “Revelation 666”, “Into Armageddon” e “Celebration Of The Goat” avvelenano i cuori della folla con il loro feeling diabolico, prima che un visibilmente commosso Olivius dedichi la storica “Black Moon Rising” – praticamente mai suonata dal vivo – al compianto chitarrista David Parland (a.k.a. Black Moon, scomparso lo scorso maggio). Gli applausi si sprecano, così come le corna alzate al cielo, mentre la band spara le sue ultime cartucce sulle note di “The Nocturnal Silence”, insuperabile manifesto d’odio e blasfemia dall’omonimo debutto del 1993. Ancora una volta, grandi Necrophobic!
(Giacomo Slongo)
Setlist:
The Slaughter Of Baby Jesus
Blinded By Light, Enlightened By Darkness
The Crossing
Dreams Shall Flesh
Revelation 666
Into Armageddon
Celebration Of The Goat
Black Moon Rising
The Nocturnal Silence
SOLSTAFIR
Sui palchi principali, prima dell’headlining show degli attesi Sabaton, si stanno esibendo i misconosciuti Der W e gli idoli di casa Powerwolf, numeri uno delle classifiche musicali tedesche, quindi ci manteniamo ben lontani dalla massa e restiamo belli tranquilli nella tenda, dove i Cowboys From Ice islandesi Solstafir stanno per mettere in scena la loro performance. Rispetto al concerto suonato a marzo a Milano, di spalla ai Long Distance Calling, la cornice è completamente diversa: pubblico folto e numeroso e orario perfetto, dalle 20.15 alle 21.05. L’attitudine del quartetto di Reykyavik può far innamorare all’istante oppure dar fastidio in modo altrettanto rapido: hanno un look particolare, l’atteggiamento è riservato, eppur c’è un sentore crescente ‘da rockstar’ che s’intravede oltre la presenza scenica sofferta e misantropa del quadrato di musicisti. Dettagli, chiaro, ma che lasciano un po’ d’amaro in bocca a chi, ad esempio, non ama vedere i propri idoli sfumacchiare allegramente on stage oppure portare gli occhiali da sole dietro il drumkit, sotto una tenda, alle nove di sera… Cose così, insomma…cavolate, ma che gettano una lievissima ombra su uno show per il resto perfetto: intimista, personale, originale, alternativo ma ancora metal, un post-qualcosa che odora di rock’n’roll, psichedelia e country glaciale, come l’opener “Ljos I Stormi” è andata ben a dimostrare. Adalbjorn Tryggvason è un frontman carismatico, che sa sicuramente atteggiarsi a ‘bello e dannato’, ma che quando c’è da tirare fuori la voce – sentasi le note a cappella di “Pin Ord” o l’interpretazione sentita della nota “Fjara” – non si fa certo pregare. La catatonia che ha avvolto pian piano gli astanti, ipnotizzati dalle lunghe suite degli isolani, si è dissolta solo al momento dei saluti, al termine di una “Goddess Of The Ages” ottima. Band da vedere a tutti i costi e che certamente riserverà cose imprevedibili in futuro.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Ljos I Stormi
Svartir Sandar
Pin Ord
Fjara
Goddess Of The Ages
CULT OF LUNA
Preso atto della cancellazione dei Benediction in favore degli idoli di casa Atrocity, decidiamo di riprendere un po’ il fiato e rifocillarci in vista dell’attesissimo show dei Cult Of Luna, chiamati nuovamente a raccolta dall’organizzazione del Summer Breeze per diffondere il loro inconfondibile verbo “post” metal sulla pacifica località di Dinkelsbühl. Kebab alla mano, ci spostiamo quindi in prossimità del Party Stage, dove un nutrito gruppo di seguaci, fan dell’ultima ora e semplici curiosi ha già occupato buona parte del tendone in vista del seven-piece svedese. Pochi minuti e si comincia, con la macchina del fumo da subito a pieno regime e i Nostri – capeggiati da un Johannes Persson più coinvolto ed esagitato che mai – a contorcersi sui propri strumenti come in preda ad una crisi epilettica, impalpabili silhouette in un mare di nebbia e luminiscenze spettrali. Il colpo d’occhio è magnifico (merito soprattutto dell’impianto luci in dotazione della band) e Metropolis sembra quasi materializzarsi nell’oscurità mentre le note di “I: The Weapon” – opening-track del recente “Vertikal” – cominciano a fluire dalle casse in un caleidoscopio di immagini fredde e tumultuose. Come già detto, è Persson ad attirare il grosso dell’attenzione a suon di riff e linee vocali sentitissime, ma non bisogna sottovalutare l’approccio simil-orchestrale che da sempre contraddistingue la band: un flusso di coscienza in cui chitarre, percussioni e tastiere difficilmente prendono il sopravvento l’una sull’altra, badando come prima cosa al risultato d’insieme. Con poco meno di un’ora a disposizione, la setlist è giocoforza ridotta rispetto a quella della tournée primaverile e brani mastodontici del calibro di “Vicarious Redemption” vengono scartati; ciò nonostante, le vecchie “Finland” e “Ghost Trail” incantano ugualmente la platea a suon di crescendo strumentali e digressioni post-rock da pelle d’oca. Quello messo in piedi dai Cult Of Luna non è insomma un concerto come tanti altri, ma un’esperienza da vivere e respirare a pieni polmoni: qualcosa che trascende il mero concetto d’arte musicale e visuale. A fine spettacolo il parere è pressochè unanime: semplicemente spettacolari.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
The One
I: The Weapon
Ghost Trail
Finland
Disharmonia
In Awe Of
NEAERA
La giornata del venerdì, per la vostra Truppa Metallica Preferita, si apre alle 14.15, quando si giunge di fronte al Main Stage nel momento in cui i Neaera sono alle prese con “Armamentarium”, epicentro di una setlist terremotante e appagante, che sicuramente ha fatto divertire i ragazzi, già piuttosto abbondanti, presenti al primo pomeriggio, sotto un Sole non drammaticamente caldo ma comunque bello potente. Quest’oggi si esibiranno diversi gruppi hardcore – Agnostic Front, Walls Of Jericho, Madball, Evergreen Terrace – e lo show dei tedeschi pare quindi svolgere proprio la funzione di training party, in vista delle pogate più massicce delle ore successive. La band di Munster è nella stessa formazione dalla sua nascita e sul palco ciò si vede, con il frontman Benjamin Hilleke padronissimo dell’audience di casa e i suoi quattro compari compatti e sicuri di loro a proteggere le spalle dello screamer. Non offrono tantissimo i Neaera, in termini di originalità stilistica, ma l’approccio al live è sempre piacevole e positivo ed il loro death metal melodico, sporcato da metal-core e black metal, si lascia ascoltare benissimo. La chiusura affidata alla massacrante “Spearheading The Spawn”, sul cui inizio ci godiamo il primo wall-of-death del festival, è l’ideale per mandare tutti negli spogliatoi a rinfrescarsi con una bella birra fredda.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Ours Is The Storm
Walls Instead Of Bridges
Let The Tempest Come
Armamentarium
Through Treacherous Flames
Synergy
I Loathe
My Night Is Starless
Spearheading The Spawn
MISANTHROPE
Mentre sui palchi principali si passa allegramente dalla leggiadria dei Leaves’ Eyes alla stoicità degli Agnostic Front, il Party Stage ci offre i francesi Misanthrope, alla seconda esibizione al Summer Breeze, una delle poche terre di conquista della formazione parigina, la cui ostilità verso l’estero (volontaria o involontaria) è ormai ‘leggenda del terrore’. A tratti patetici, ad esempio quando S.A.S. De L’Argiliere si lancia in biunivoci proclami d’unità (‘France and Germany united for metal!’) durante un festival di carattere global-internazionale, i transalpini inanellano comunque una bella serie di esecuzioni, dal suono sporco e non ottimamente intelligibile, ma che certo hanno spazzato via il parterre del tendone, composto per buona parte da spettatori francesi – ollallà, che caso! Si parte con la versione inglese di “La Marche Des Cornus”, per poi proseguire con l’ottima “Eden Massacre” e “Névrose”, il singolo tratto da “IrréméDIABLE”, certamente il disco più valido partorito dal combo negli ultimi anni. E’ però il recente “Aenigma Mystica” a chiudere il set, con ben due estratti, fra i quali la lunga title-track. A rappresentare il passato più remoto dei Misanthrope, ecco “Futile Future”, introdotta da uno spettacolare assolo di basso del virtuoso – e quantomai sottovalutato! – Jean-Jacques Moréac. Finalone col botto, assicurato da una bella boccia di champagne on stage e da una doccia per tutti i tipi delle prime file!
(Marco Gallarati)
Setlist:
The Horns Walk (La Marche Des Cornus)
Eden Massacre
Névrose
Lycaon (Omophagie Communiante)
Futile Future
Aenigma Mystica
ROTTEN SOUND
Come da tradizione, il concerto dei Rotten Sound ha portato il livello di ignoranza del festival su picchi vertiginosi. In tour per promuovere il recente EP “Species At War”, il quartetto si presenta sul Party Stage con lo sguardo inferocito di un mastino a cui sono stati pestati i cosiddetti, partendo a raffica con una “Western Cancer” che mette da subito in chiaro le cose con la sua furia iconoclasta; suoni e volumi sono mostruosi, ruvidi quanto un foglio di carta vetrata, e la chitarra a motosega di Mika Aalto non può che gioire in mezzo a tanto lerciume, sparando riff a mo’ di mitragliatrice sulla folla. Il pogo – neanche a farlo apposta – è folle e violentissimo come nella migliore delle tradizioni, con decine di persone intente a sbracciarsi mentre una fitta coltre di polvere si leva dal suolo rendendo l’aria tutt’attorno al pit semplicemente irrespirabile. “The Effects” da “Cycles” e “Sell Your Soul” dall’indimenticabile “Exit” finiscono dritte fra gli highlight della giornata, ma lo show dei grindfreak scandinavi non è soltanto sinonimo di brani sguaiati e velocità parossistiche, anzi! Non mancano momenti in cui è il groove a farla da padrone – vedi le terremotanti “Hollow” e “Alternews” – a dimostrazione del fatto che per infliggere dolore non serve soltanto premere a tavoletta sull’acceleratore. Detto dell’ottima prestazione del drummer Sami Latva e di un Keijo Niinimaa all’apice della forma – impressionante sia sulle parti screaming che su quelle in growling – non ci resta insomma che fare i complimenti ai Rotten Sound, giunti in quel di Dinkelsbühl quasi di soppiatto ed autori di una delle prove più intense e memorabili dell’happening. Grindcore allo stato dell’arte.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Western Cancer
Days To Kill
Victims
The Effects
Self
Superior
The Solution
Salvation
Sell Your Soul
Power/Plan
IQ/Targets
Hollow
Doomed
Decay
Blind
Alternews
WALLS OF JERICHO
18.55, Pain Stage, il Sole comincia ad essere basso sull’orizzonte. I Walls Of Jericho sono praticamente silenti dalla release di “The American Dream”, 2008, in (lunga) pausa per la gravidanza del frontman…ah no, scusate!…della frontgirl Candace Kucsulain. A quanto però ci è dato modo di sentire quest’oggi, la band pare essere stata in tour ininterrottamente da un decennio, tali sono la foga, la caparbietà e la passione con cui affronta il palco. Il metal-core molto hardcore del gruppo di Detroit sarebbe pure poca cosa, se a trainare le performance e la band tutta non ci fosse la Kucsulain, davvero un mostro di personalità e (potenziale) violenza fisica: in tanti anni di festival ed esibizioni, facciamo fatica a ricordare un set più coinvolgente e trascinante, a prescindere dalla musica e dalla conoscenza delle canzoni, di quello dei Walls Of Jericho. Candace, ormai pompata dalla palestra e chissà da cos’altro – ma non diteglielo in faccia, se non volete trovarvi la testa girata di 180 gradi in un micro-secondo! – ha lo spessore muscolare di un uomo e si muove rimbalzando atletica per tutta la lunghezza del palco, scazzottando, gridando, incitando, cristonando a destra e a manca, minacciando di morte chiunque non muova il culo. Un animale, insomma. E chissenefrega dei pezzi che suonano i suoi fidi compari, oltretutto, quando basta osservare lo scatenato torello on stage per divertirsi. Steroidi a mille.
(Marco Gallarati)
Setlist:
A Day And A Thousand Years
A Trigger Full Of Promises
Feeding Frenzy
I Know Hollywood And You Ain’t It
The New Ministry
II. The Prey
Playing Soldier Again
And Hope To Die
The American Dream
Revival Never Goes Out Of Style
ORPHANED LAND
All’ora di cena – come se ci fossero degli orari prestabiliti durante i grandi festival metal… – la scelta si fa ardua: Anthrax come pre-headliner o Orphaned Land sotto la tenda? In realtà non si tratta di decisione particolarmente difficile, almeno per il sottoscritto, in quanto la formazione israeliana risiede stabilmente da anni fra i suoi ascolti preferiti; inoltre, il seppur claudicante nuovo album “All Is One” è appena uscito e quindi bisogna testare d’obbligo i nuovi pezzi dal vivo. Kobi Farhi e compagni si presentano puntuali sul palco, nella più semplice e recente formazione, ovvero con Matan Shmuely alle pelli e il nuovo chitarrista Chen Balbus al fianco dello storico e barbuto bassista Uri Zelcha; Yossi Sassi e i suoi sorrisi danno sempre spettacolo, mentre Kobi, seguendo la prevalente oscurità dell’artwork di “All Is One”, indossa scalzo una tunica completamente nera, continuando imperterrito a dichiarare, però, che ‘I’m not Jesus Christ’. “Barakah” apre le danze in modo energico ma piuttosto anonimo, per poi lasciar spazio ad un’esibizione semplicemente entusiasmante e per nulla dedicata all’ultimo album, dal quale vengono tratte solamente la compulsiva title-track e la più leggera “The Simple Man”. Come prevedibile, infatti, sono le canzoni del capolavoro “Mabool” a mantenere un ruolo centrale nella setlist degli asiatici, con le imprescindibili “The Kiss Of Babylon”, “Ocean Land”, “Birth Of The Three” e la conclusiva “Norra El Norra” a creare il maggior scompiglio. Uno show degli Orphaned Land poi, si sa, è una vera festa di cori e braccia alzate al cielo e, durante le riproposizioni di episodi esaltanti quali “Olat Ha’tamid” e soprattutto “Sapari”, il tripudio è stato generale! E proprio durante “Sapari”, ecco la sorpresa di trovare la nostra Mariangela Demurtas – vocalist dei Tristania, in esibizione il giorno dopo – a fare le veci della cantante originale del pezzo, Shlomit Levi: uno dei momenti più sentiti e belli dell’intero festival, quattro minuti di suprema e feroce intensità, bellissimo. E bravissimi gli Orphaned Land, band che dal vivo delude ancor meno che in studio!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Barakah
The Kiss Of Babylon
Birth Of The Three
Olat Ha’tamid
The Simple Man
All Is One
Ocean Land
Sapari
Norra El Norra
WHITECHAPEL
Ottima prova quella dei Whitechapel di questa sera! Il gruppo statunitense è reduce da una fortunata tournée europea che lo ha visto trionfare sui palchi di alcuni rinomatissimi happening estivi (Wacken Open Air, Brutal Assault, Ieperfest) e il suo affiatamento è quasi palpabile mentre prende possesso del Party Stage dinanzi a una folla davvero corposa, che non aspetta altro dalle prime ore del giorno. I mesi trascorsi in compagnia di gente come Asking Alexandria e Suicide Silence – oltre ovviamente alla spinta mediatica della Metal Blade – hanno portato i loro frutti e i Nostri possono oggi godere del sostegno di una fan-base fedelissima, sempre pronta ad accoglierli come veri e propri eroi. In barba ai pregiudizi dei metallari “duri e puri”, quindi, noi di Metalitalia.com decidiamo di farci largo nella massa di canotte, frange e lobi dilatati per raggiungere il pit e goderci appieno lo show del sestetto di Knoxville, la cui miscela a base di Meshuggah, Despised Icon e Aborted dal vivo acquista almeno dieci marce in più rispetto alle già convincenti prove in studio. “Make It Bleed”, “Section 8” e “I, Dementia” aprono le danze con il botto, puntando i riflettori sull’impressionante wall of sound scaturito dalle chitarre (ribassate fino all’inverosimile) e sul growling di un Phil Bozeman decisamente a proprio agio nelle vesti di frontman; il ragazzo dà l’impressione di migliorare a ogni appuntamento, sia sul fronte vocale che su quello comunicativo…una vera macchina da guerra! Unico neo? Una setlist troppo incentrata sull’ultimo disco omonimo e con appena tre brani da “The Somatic Defilement” e “This Is Exile” (senza dubbio le loro opere migliori); ma nel complesso non possiamo certo muovere grosse accuse nei confronti dei Whitechapel, abili nel tenere in scacco il pubblico dal primo all’ultimo istante. Death-core? Sì, ma in fin dei conti non vediamo quale sia il problema.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Make It Bleed
Section 8
I, Dementia
Faces
Possibilities Of An Impossible Existence
Vicer Exciser
Possession
The Darkest Day Of Man
This Is Exile
LAMB OF GOD
Per una volta lasciamo che sia soltanto la musica a parlare. Terminata la lunga e snervante vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto il frontman Randy Blythe, i Lamb Of God tornano a fare ciò che più gli viene meglio: devastare i palchi di mezzo mondo grazie al loro groove metal rabbioso e ultra-heavy (chiamatelo come vi pare, ma lasciate perdere la dicitura “metalcore”). Per i cinque di Richmond “Motherfucking” Virginia, quella di stasera è la prima volta a Dinkelsbühl in oltre quattordici anni di carriera, un’attesa ampiamente ripagata dalla partecipazione in veste di headliner e dall’ottima risposta da parte del pubblico, con almeno ventimila persone asserragliate nei dintorni del Main Stage. Proprio a causa della ressa immane non riusciamo a seguire più di quel tanto lo show – defilati come siamo dal maxischermo e dal palco – ciò nonostante la nostra idea sullo stato di salute del combo statunitense ce la siamo fatta ugualmente. Una scenografia ridotta all’osso, con il solo artwork di “Resolution” a svettare dietro il drumkit di Chris Adler, fa da cornice a un concerto professionale, formalmente privo di sbavature ma lungi dal dirsi esaltante, vuoi per lo stop forzato degli ultimi mesi, vuoi per gli anni che inesorabili si accumulano sul groppone sudista dei Nostri. Pause sempre più lunghe fra un brano e l’altro, una presenza scenica “controllata” dall’inizio alla fine… I tempi delle demolizioni totali immortalate dal dvd “Killadelphia” sembrano insomma lontani e, molto probabilmente, persi per sempre. Fortuna che le varie “Ruin”, “Now You’ve Got Something To Die For” e “11th Hour” trovano comunque il modo di irretirci, alternate a hit più recenti quali “Set To Fail” o “Redneck”, vero e proprio manifesto “intellettuale” (le virgolette sono d’obbligo) della formazione. Il pubblico poga e applaude, rispondendo a gran voce agli incoraggiamenti di Blythe che – scampata la prigione e persi per strada i dreadlocks – si conferma un vocalist molto carismatico, seguito a ruota dall’ineccepibile Adler alla batteria. Settantacinque minuti di show (venti in meno rispetto a quanto pattuito) ed è già tempo di saluti, con la band intenta a ringraziare i propri fan in vista del tour europeo di gennaio. Alla prossima.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Straight For The Sun
Desolation
Ghost Walking
Walk With Me In Hell
Set To Fail
Ruin
Now You’ve Got Something To Die For
11th Hour
The Undertow
Omerta
Contractor
The Passing/In Your Words
Laid To Rest
Redneck
Black Label
EVERGREEN TERRACE
Uno spazio approfondito dedicato ai floridiani Evergreen Terrace, in tutta sincerità, non era previsto in partenza; ma, una volta trovatici a riposare le membra nel tepore del Party Stage, dopo aver visto il finale del set dei distruttivi Madball, ci siamo imbattuti per caso in un soundcheck quanto mai divertente, con il frontman degli ET, Andrew Carey, già bello alticcio e in vena di scherzi idioti. Ci siamo soffermati quindi, in previsione di una performance movimentata, ad osservare il quintetto hardcore/metalcore melodico di Jacksonville. Show certamente divertente e corroborante, quello dei Nostri, che hanno saputo intrattenere molto bene i pogatori reduci dai Madball e anche qualche manciata di blackster in attesa del successivo slot dei Marduk. Gli Evergreen Terrace, sebbene non siano dei mostri del genere, ne sono ideali esecutori, in quanto danno l’impressione di avere nel sangue l’attitudine al divertimento e al cazzeggio. La mezza ubriacatura di Carey, ben supportato dal clean vocalist/chitarrista Craig Chaney, è diventata completa nel corso dell’esibizione, durante la quale spesso partiva in pipponi discorsivi senza capo né coda, finendo per essere proditoriamente tagliato dai suoi compari che davano il la all’inizio del pezzo. La conclusione affidata alla cover dei Tears For Fears, “Mad World”, si è rivelata una mezza gaffe, in quanto ai ragazzi è stato detto che avevano ancora tempo: ecco quindi un altro paio di canzoni, con l’effettivo finale di “Sunday Bloody Sunday”, ovviamente degli U2. Vista l’ora tarda, dunque, proprio un buon modo per stare ancora un po’ svegli e pimpanti!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Enemy Sex
No Donnie, These Men Are Nihilists
Mario Speedwagon
New Friend Request
Where There Is Fire, We Will Carry Gasoline
The Letdown
Wolfbiker
Hopelessly Hopeless
To The First Baptist Church Of Jacksonville
Rolling Thunder Mental Illness
Mad World (cover Tears For Fears)
Chaney Can’t Quite Riff Like Helmet’s Page Hamilton
Sunday Bloody Sunday (cover U2)
MARDUK
Marduk e Summer Breeze. Un sodalizio che prosegue vincente negli anni e consacrato da una performance che spazza via quella scialba e incolore di un paio d’anni fa, quando la band si esibì sul Pain Stage con dei suoni di cartapesta che affossarono inevitabilmente il nostro giudizio. Quest’oggi il quartetto capitanato da Morgan e dallo spiritato frontman Mortuus calca le assi del Party Stage, seguendo il trend 2013 che vede la stragrande maggioranza dei gruppi estremi rintanati sotto la volta del tendone. La titletrack dell’ultimo “Serpent Sermon” è l’apripista perfetto per il rituale in programma stasera, con il suo riffing diabolico a scaraventarci nel più profondo dei gironi infernali mentre lo screaming del frontman penetra nelle ossa come veleno, corrodendole fino al midollo. Scanditi dal drumming secco e tagliente di Broddesson e dal basso pulsante di Devo, i brani spaziano in lungo e in largo per la discografia dei Nostri, assumendo presto i connotati di “greatest hits”: dalla contorta “Nowhere, No-One, Nothing” alla primitiva “The Black…”, passando per la furia iconoclasta di “Slay The Nazarene” e “502” (quest’ultima ripescata dopo anni di latitanza) ce n’è insomma per tutti i gusti. Spettacolari poi i momenti in cui l’atmosfera riesce ad averla vinta sui blastbeat, come dimostrato dagli otto, abissali minuti di “Imago Mortis”, dai rintocchi eretici di “Temple Of Decay” e dall’intramontabile “Materialized In Stone”, epico midtempo che consacra nel migliore dei modi una performance di rara intensità e malvagità. Ora la palla passa in mano ai Dark Funeral, odiatissimi colleghi attesi al varco sul Pain Stage nella giornata di domani. Sapranno fare di meglio?
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Serpent Sermon
Nowhere, No-one, Nothing
The Black…
Slay The Nazarene
Imago Mortis
Christraping Black Metal
Temple Of Decay
With Satan And Victorious Weapons
Womb Of Perishableness
Azrael
Materialized In Stone
502
MOONSPELL
Dopo il piacevole divertissement concessoci dai Cliteater, il primo gruppo serio dell’ultima giornata di Summer Breeze arriva alle 16 in punto e risponde al nome dei portoghesi Moonspell, a Metalitalia.com piuttosto cari in quanto veri protagonisti della prima edizione (2012) del nostro festival. Cinquanta minuti di tempo sul Main Stage non sono tantissimi, quindi Fernando Ribeiro e soci ci offrono uno spettacolo praticamente diviso in due: la prima parte dedicata al recente “Alpha Noir/Omega White” – con la sola eccezione di “Night Eternal” – mentre la seconda viene affidata ai classici per eccellenza del combo lusitano, ovvero le imprescindibili “Vampiria”, “Alma Mater” e “Full Moon Madness”. E se l’esecuzione di “Opium” non ci ha fatto esaltare come al solito, la sola sorpresa arrivata da questo set è stata la proposizione, a detta della stessa band una delle pochissime mai avvenute, di “Raven Claws”, anch’essa tratta da “Irreligious” e durante la quale è risalita sul palco, dopo aver graziato delle sue doti canore gli Orphaned Land la sera prima, Mariangela Demurtas, per un duetto invero un po’ deludente con Ribeiro. Comunque sia, i portoghesi si sono confermati una formazione all’altezza della propria fama, esecutori pressoché impeccabili e dal fascino ancestralmente Nineties. Compito assolto con devozione e precisione per questi maestri d’incanto.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Axis Mundi
Alpha Noir
Night Eternal
Opium
Raven Claws
Em Nome Do Medo
Vampiria
Alma Mater
Full Moon Madness
HATE
Spiace doverlo ammettere, ma il concerto degli Hate di quest’oggi rientra senza dubbio fra le più grosse delusioni del festival. Il gruppo capitanato dal cantante/chitarrista Adam the First Sinner si presenta sul Party Stage nel tardo pomeriggio, carico e fermamente intenzionato a regalare ai propri fan uno show con i fiocchi, partendo senza troppe cerimonie sulle note dell’ottima “Eternal Night”. I tempi in cui i Nostri erano poco più che una semplice promessa dell’underground polacco sono finiti da un pezzo: oggi il quartetto gode di fama internazionale, di una presenza scenica rinnovata (palese il tentativo di rifarsi ai Behemoth) e di una discografia di tutto rispetto da cui attingere, costruita attorno agli stilemi del death, del black e dell’industrial dei Satyricon di “Rebel Extravaganza”. E’ quindi con poco stupore che osserviamo le gesta concitate del pubblico durante l’incedere ossessivo del brano, eseguito minuziosamente e con il growling ieratico del frontman a fendere l’aria come una coltellata. Tutto procede per il meglio anche durante la successiva “Omega” (dal disco-manifesto della band, “Morphosis”), ma il disastro è praticamente dietro l’angolo: la chitarra di Adam dà problemi, cosa che spinge il leader maximo a ritirarsi dietro le quinte mentre i suoi compagni provano a mantenere viva l’attenzione suonicchiando qualche riff. Il palco diventa presto un via vai di fonici e i minuti d’attesa – ahinoi – si protraggono inesorabilmente, segnati da un lento deflusso di spettatori verso l’esterno. Dopo mille tentativi e chissà quante bestemmie, gli Hate tornano a suonare ma ormai è tardi, non bastano i ‘midtemponi’ di “Wrist” e di “Erebos” per salvare la loro performance dall’oblio, né tanto meno la vecchia “Hex”. Il concerto finisce così, mutilato nella setlist e ferito nell’orgoglio, con la band visibilmente spazientita di fronte a una platea dimezzata. Concerto da dimenticare.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Eternal Might
Omega
Wrists
Erebos
Sadness Will Last Forever
Hex
GRAND SUPREME BLOOD COURT
Che sia in compagnia degli Asphyx, degli Hail Of Bullets o di qualche altro progetto parallelo (vedi i qui presenti Grand Supreme Blood Court), Martin van Drunen veste ormai i panni dell’ospite di casa in quel di Dinkelsbühl. Quante volte negli ultimi anni il Nostro ha calcato i palchi del Summer Breeze? Quattro? Cinque? Onestamente fatichiamo a tenere il conto, ma la cosa non è certo un problema! Per nulla al mondo rinunceremmo mai alla criniera brizzolata e all’inconfondibile voce del frontman olandese, vera e propria leggenda vivente del death metal con i suoi trent’anni di militanza all’interno della scena. Per chi si fosse perso le ultime puntate, ecco un breve riepilogo: i Grand Supreme Blood Court altro non sono che tre quinti della line-up storica degli Asphyx (esatto, quelli di “The Rack” e “Last One On Earth”) raggiunti per l’occasione da Theo van Eekelen al basso (Hail Of Bullets) e da Alwin Zuur alla seconda chitarra (negli Asphyx dal 2010)… in altre parole, la crème de la crème del Metallo della Morte dei Paesi Bassi! Il quintetto si presenta sul Party Stage di fronte a un pubblico di certo non numerosissimo ma caldo e partecipe al punto giusto, partendo a testa bassa con una selezione di brani dal disco di debutto pubblicato lo scorso anno, “Bow Down Before The Blood Court”. La titletrack, “Veredictum Sanguis” e la devastante “Fed To The Boars” svelano il lato più barbaro e puramente death metal dei Nostri, mentre è con la conclusiva “…And Thus The Billions Shall Burn” che a nostro avviso lo show sfiora il proprio apice: trattasi di un monolite death/doom di oltre dieci minuti, venato da melodie epicissime e dall’atmosfera tremendamente drammatica…qualcosa di non troppo distante da “Berlin” o “To Bear The Unbearable” degli Hail Of Bullets, veramente un gran pezzo che sigla nel migliore dei modi la serata. Per i GSBC l’esame dal vivo può insomma dirsi superato con classe, avanti il prossimo!
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Bow Down Before The Blood Court
Veredictum Sanguis
Fed To The Boars
Circus Of Mass Torment
Piled Up For The Scavengers
…And Thus The Billions Shall Burn
GRAVE
Ai Grave piace vincere facile. Non si spiega altrimenti la scelta di aprire il concerto con due mega-classici del calibro di “Deformed” e “For Your God”! Ola Lindgren e soci – da mostri sacri quali sono – godono di uno slot di tutto rispetto (sul Party Stage in prima serata) e non è un caso che la loro performance venga seguita da uno stuolo fittissimo di fan dallo sguardo truce e con addosso le t-shirt sgualcite di Carnage e Dismember, accorsi da ogni angolo del festival per una sacrosanta dose di mazzate. Insomma, basta mettere piede sotto il tendone per respirare un’aria 100% old-school (senza ovviamente dimenticare il puzzo di birra, cibo thai e sudore), qualcosa a cui noi di Metalitalia.com non abbiamo mai saputo resistere… Figuratevi poi con un simile uno-due di brani! L’headbanging parte immediato, cori e urla di incitamento si sprecano, mentre sul palco il quartetto macina un riff dietro l’altro con l’intento di far piazza pulita dei gruppi che lo hanno preceduto. Ola scherza con il pubblico (“No moshpit, just fucking headbanging, ok?”) e le varie “Disembodied Step” e “Passion Of The Weak” esplodono come colpi inferti a bruciapelo, accolte alla stregua delle grandi hit del passato. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: si stenta quasi a credere che i Nostri abbiano venticinque anni di carriera sul groppone a giudicare dalla foga con cui suonano! “Inhuman” e “Morbid Way To Die” infliggono il colpo del definitivo k.o., ribadendo la netta supremazia dell’ensemble nei confronti delle vecchie glorie svedesi (oggi ridotte allo stremo delle forze) in un tripudio d’ignoranza e chitarroni motosega a briglia sciolta. Niente orpelli o cazzate, solo tanta sostanza all’insegna del più puro e incontaminato death metal, proprio come si faceva una volta. Questi sono i Grave, questo è il loro credo. Eterno rispetto.
(Giacomo Slongo)
Setlist (incompleta):
Deformed
For Your God
Soulless
Disembodied Step
Passion Of The Weak
Inhuman
Morbid Way To Die
Into The Grave
ENSLAVED
Il programma dell’ultima serata di Summer Breeze 2013 è davvero intenso e si fa fatica a scegliere cosa vedere: dopo aver preferito i Grave allo show spacca-tutto degli Hatebreed, tocca agli Amorphis pagare dazio agli Enslaved, band che sicuramente non passa in Italia così frequentemente come fanno invece i finnici. La devastazione sonora del set dei Grave è ancora rimombante nelle orecchie, perciò il passaggio al progressive black metal della band di Grutle Kjellson e Ivar Bjornson non è dei più semplici. Oltretutto il sonoro del Party Stage – o sarà solo la nostra stanchezza? – non pare all’altezza della formazione norvegese, che impiega un po’ di tempo a carburare, con “Riitiir” prima e “Ruun” poi. Estrapolare una setlist valida per cinquanta minuti di esibizione inizia a diventare un’impresa per i ragazzi di Bergen, vuoi per l’ampiezza della loro discografia, vuoi per la sua stessa incredibile varietà. E quindi cosa fare di meglio, se non suonare la prima parte dello spettacolo dedicandosi ai tempi più recenti, esclusa la citata “Ruun”, e terminare in bellezza sciorinando l’ancestrale “Allfadr Odinn” poco prima della conclusiva “Isa”? Solamente le grandi band, composte da grandi compositori e musicisti, riescono a spaziare così naturalmente attraverso più di vent’anni di musica, evolvendo e stravolgendo il proprio sound senza mai dimenticare le origini. Sebbene ci piacquero di più due anni fa, sempre qui a Dinkelsbuhl ma sui palchi all’aperto, gli Enslaved hanno onorato la loro nomea, dimostrando un’altra volta di essere una creatura più unica che rara!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Riitiir
Ruun
Ethica Odini
Roots Of The Mountain
Convoys To Nothingness
Allfadr Odinn
Isa
IN FLAMES
Non fanno in tempo a finire gli Enslaved che ci dobbiamo precipitare dall’altra parte dell’area festival per l’ultimo headliner dell’edizione 2013 del Summer Breeze, gli svedesi In Flames, che, se non erriamo, sono all’esordio nella manifestazione; certamente, comunque, è la loro prima volta in quel di Dinkelsbuhl. La folla è notevole e riusciamo a posizionarci solo ad un paio di centinaia di metri dal palco, affidandoci al maxi-schermo per i dettagli dello show. La band ha da pochissimo annunciato di aver iniziato la fase compositiva di un nuovo disco, dopo il riuscito – ma discussissimo – “Sounds Of A Playground Fading” e dopo l’assorbimento della perdita definitiva di Jesper Stromblad, membro storico e fondatore. Ovviamente non si può neanche pensare di ascoltare tracce nuove, per cui Fridén, Gelotte e gli altri ci danno dentro con la consueta setlist incentrata sul materiale post-svolta ‘commerciale’, affiancato a sparute escursioni nei loro dischi del tempo che fu – “The Hive”, “Pinball Map” e “Only For The Weak” sono stati i pezzi più antichi eseguiti. Ad una partenza buona ma non entusiasmante, con suoni parecchio disgraziati ed un Anders troppo caciarone e probabilmente alticcio, incappato in un paio di frasi non particolarmente vincenti (“Ormai facciamo quello che facciamo solo per voi”, rivolto al pubblico e denotando l’ormai flebile passione che guida la band; “Abbiamo speso un sacco di soldi per i fuochi d’artificio ed ecco che scopro che basta lanciare due birre per avere più successo!”)…dicevamo, ad una partenza buona ma non entusiasmante, è seguito poi un lento crescendo positivo, combaciante con l’inizio dei suddetti giochi di fiamme, fumo e fuochi d’artificio e con le paurose ondate di crowd-surfing che partivano da ovunque ci fosse vista, con ragazzi da mandare avanti a bracciate ogni minuto. “Trigger”, “Only For The Weak” e “Cloud Connected” hanno innescato il tripudio che è poi proseguito, a prescindere dal brano in auge, fino alla fine, segnata dall’accoppiata devastante “Take This Life” / “My Sweet Shadow”, sulla quale il pubblico ha solo potuto ammirare la relativa poesia dei giochi pirotecnici di fine festival, portanti con sé la più classica delle malinconie modello ‘bellissima cosa che sta quasi per finire’. Come potete evincere dalla setlist qui sotto, tante le canzoni estratte dall’ultimo disco – ben 6 su 16! – segnale che, come da sempre nella loro storia, gli In Flames difficilmente guardano al passato, preferendo concentrarsi sul presente e sul futuro, che ad oggi persiste cocciutamente a rasentare l’incognita. Alla prossima, ragazzi!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Sounds Of A Playground Fading
Where The Dead Ships Dwell
Pinball Map
Trigger
Only For The Weak
Cloud Connected
The Hive
Ropes
Fear Is The Weakness
The Quiet Place
All For Me
The Mirror’s Truth
System
Deliver Us
Take This Life
My Sweet Shadow
DARK FUNERAL
Vent’anni di blasfemia e blastbeat. Questa è la storia dei Dark Funeral, chiamati a tirare il sipario definitivo sul Pain Stage nell’ultimo giorno di festival. Il gruppo, per l’occasione raggiunto dallo storico vocalist Emperor Magus Caligula che proprio qui tenne il suo ultimo concerto, si presenta agli occhi della folla agghindato di tutto punto e avvolto in una spettrale luce bluastra, perfetta per esaltare il black metal gelido e violento che da sempre lo contraddistingue. L’incipit è a dir poco spettacolare: se “The Arrival Of Satan’s Empire” è tutto sommato un’opener prevedibile, lo stesso non si può dire delle seguenti “My Dark Desires” e “Open The Gates”, ripescate dal passato remoto dei Nostri e suonate con la stessa, incalcolabile rabbia degli esordi. I suoni impiegano un po’ per calibrarsi, ma una volta aggiustati l’impatto è notevolissimo, scatenando il più classico degli headbanging all’altezza delle prime file (il pogo, si sa, non è pratica comune ai blackster). Lord Ahriman si conferma la solita fucina di riff, mentre Zornheym al basso e Dominator dietro le pelli (drummer straordinario già visto all’opera con The Wretched End e Aeon) imbastiscono una sezione ritmica lancinante su cui le varie “Vobiscum Satanas” e “Stigmata” esplodono come raffiche di vento infernale, introducendo l’ultima carrellata di sinfonie sataniche previste dalla setlist. “Atrum Regina”, sorta di ‘ballad’ per gli standard del five-piece svedese, “Thus I Have Spoken” e la leggendaria “The Secrets Of The Black Arts” ci traghettano a malincuore verso la conclusione affidata a “My Funeral”, vomitata a pieni polmoni da un Caligula ancora una volta ineccepibile e completamente ‘dentro’ la performance. A costo di ripetersi, non possiamo fare a meno di sottolineare quanto il Nostro sia l’effettivo valore aggiunto dei Dark Funeral e dispiace sapere che non avremo più modo di vederlo all’opera. Gli applausi, compresi quelli di Metalitalia.com, sono tutti per lui. E ora sotto con i Primordial!
(Giacomo Slongo)
Setlist:
The Arrival Of Satan’s Empire
My Dark Desires
Open The Gates
Vobiscum Satanas
Attera Totus Sanctus
Stigmata
The Fire Eternal
Atrum Regina
Thus I Have Spoken
The Secrets Of The Black Arts
My Funeral
PRIMORDIAL
Ultima serata del Summer Breeze, solo il Party Stage rimasto attivo, ultimo concerto da vedere – sì, perchè non ce ne vogliano i conclusivi Long Distance Calling, ma quest’anno la stanchezza ha avuto il sopravvento: cosa di meglio, quindi, di un grandioso spettacolo epico-atmosferico come quello degli irlandesi Primordial? Averill (soprannominato Nemtheanga), MacUiliam, O’Floinn, MacAmlaigh, O’Laoghaire: solo a nominare i cognomi dei membri del gruppo pare inizi a scorrerci nelle vene il sangue verde delle tribù celtiche dei pascoli d’Irlanda, dei clan e delle antiche famiglie. Figuriamoci poi quando la formazione dublinese attacca con “No Grave Deep Enough” i suoi incedere battaglieri ed ipnotici, sospinti dall’interpretazione incredibile di un frontman con il carisma di un popolo intero, di migliaia di uomini in lotta per la libertà! Nel fumo e nelle movenze estatiche di Alan Nemtheanga, l’ampia audience radunatasi sotto il tendone è andata via via in estasi, completamente rapita da una band che, unica fra i loro pari, avvolge, coinvolge e stravolge lo stato d’animo dell’ascoltatore, sollevato dalle stanchezze del presente e fatto viaggiare su piani astrali d’altre dimensioni, quelle pacifiche della calma soddisfazione. Non una virgola sbagliata, non un momento di cedimento, non un passo falso: quasi un’ora di perfezione sonora, che probabilmente non tutti sono in grado di capire e percepire – perchè i Primordial possono anche annoiare, magari quelli che per folk-metal intendono ‘oh, ci guardiamo un concerto con una birra in mano e vai di risate!’; no, i Primordial non chiedono la birra in mano ai loro astanti, ma al massimo qualche corna al cielo e battere le asce appena prima o dopo la battaglia. “Empire Falls” ha chiuso la loro performance, ma saremmo potuti andare avanti tutta la notte cullati dalle loro note. Magia vivida e ancestrale. La fine di un festival come la vittoria di una guerra.
(Marco Gallarati)
Setlist:
No Grave Deep Enough
Gods To The Godless
Bloodied Yet Unbowed
As Rome Burns
The Coffin Ships
Heathen Tribes
Empire Falls
PILLOLE DI SUMMER BREEZE
REVEL IN FLESH
Primo gruppo chiamato ad esibirsi sul minuscolo Camel Stage nella serata di mercoledì, i tedeschi Revel In Flesh intrattengono la platea alla loro maniera, snocciolando l’ABC del death metal svedese con la stessa poca convinzione riscontrata nei due full-length pubblicati dalla connazionale F.D.A. Rekotz. Il quintetto, come molte altre realtà coetanee, si affida in toto ai clichè tipici del genere – dall’andatura caracollante della sezione ritmica, al growling sgraziato del frontman, passando per delle chitarre grassissime e dai suoni a motosega – ma la sua musica non può certo dirsi coinvolgente quanto quella di Bastard Priest o Demonical, anzi! I brani si susseguono goffi, senza colpo ferire, accolti da tiepidi applausi e salvati in corner da una discreta cover di “Subconscious Terror” dei Benediction, apice (si fa per dire) di una performance violenta ma incredibilmente poco comunicativa. Passiamo volentieri oltre.
(Giacomo Slongo)
EXODUS
Gli Exodus salgono sul palco del Party Stage tra Vader e Destruction, vertice americano di un terzetto d’esibizioni che ha trascinato non poco il pubblico nel pogo più selvaggio, tipico dell’enfasi distruttiva di inizio manifestazione. Buona l’esibizione degli orfani di Gary Holt, ormai quasi in pianta stabile negli Slayer e ancora sostituito dal chitarrista Kragen Lum; esibizione che ha ricalcato, in chiave thrash, l’attitudine no-compromise e vecchio stile che già i precedenti Vader ci avevano fatto respirare: poche parole, gran dinamismo, volumi appalla, bolgia infernale, nessuna sorpresa. Accolte da notevoli boati le perle tratte dal capolavoro “Bonded By Blood”, fra le quali la title-track e “Another Lesson In Violence”, proposte in sequenza, non hanno lasciato prigionieri. La stanchezza della giornata – la stessa che, poco dopo, ci ha convinto ad abbandonare proprio gli idoli di casa Destruction al loro destino – ci ha fatto tirare qualche sbadiglio di troppo, per cui non riusciamo certo a definire memorabile la prestazione degli Exodus, ma altresì certo è che la pagnotta l’hanno portata a casa!
(Marco Gallarati)
DYING FETUS
Dying Fetus: un nome, una garanzia. John Gallagher e soci piombano sul Party Stage poco dopo la visionaria performance dei Cult Of Luna e nel giro di trenta secondi fanno piazza pulita del pit grazie al loro death metal ultra-groovy e spaventosamente contagioso. In fin dei conti non c’è da meravigliarsi se consideriamo che i Nostri – dalla pubblicazione dell’ultimo “Reign Supreme” – non si sono praticamente più fermati, imbarcandosi in svariati tour da headliner o di supporto a realtà del calibro di Hatebreed e Six Feet Under. L’affiatamento è insomma ai massimi storici e il trio statunitense fa più danni di un intero battaglione armato, irretendo la platea dal primo all’ultimo minuto a suon di breakdown e riff mutuati dall’hardcore più ferale di Madball e Sick Of It All. Dei suoni praticamente perfetti fanno il resto, trasformando le già letali “Your Treachery Will Die With You” e “Praise The Lord (Opium Of The Masses)” in autentiche bordate fra capo e collo, sorrette dal growling di un Gallagher in grande spolvero dietro al microfono. Gli anni passano, le mode pure, ma i Dying Fetus continuano ad essere sinonimo di qualità pressochè assoluta. Ottimi sotto ogni punto di vista!
(Giacomo Slongo)
HAGGARD
La seconda giornata – ma prima ufficiale – del Summer Breeze 2013 è quasi volta al termine, ma resistiamo stoicamente al sonno e al freddo montante per vedere almeno in parte il set degli Haggard, al cui interno c’è uno spicchio d’Italia, che quest’anno manca clamorosamente da tutto il resto del festival, o quasi: il chitarrista Claudio Quarta e il bassista Giacomo Astorri sono infatti da anni i membri più mobili della formazione gestita dal chitarrista-cantante Asis Nasseri, oggi rappresentata da una quindicina di elementi, la cui maggioranza è costretta ovviamente a stare al proprio posto. Abbiamo assistito con attenzione, e incuriositi, al soundcheck dell’ensemble, un’esperienza interessante anche per capire bene i vari tipi di suoni che emettono strumenti poco noti alla massa metallica, quali ad esempio corno inglese e clarinetto. L’esibizione, da noi visionata fino all’inizio della penultima “Awakening The Centuries”, ha riscosso buonissimi responsi dal folto pubblico tedesco radunatosi sotto il Party Stage. Per chi non conosce bene i brani, è ovvio che districarsi tra le partiture complesse e altalenanti degli Haggard sia parecchio difficile, ma questa band è particolare appunto per questo, unica nel suo genere e nella sua abbondanza, diversa perfino dai Therion, a cui naturalmente si può accostare. Andiamo a letto tranquilli, insomma.
(Marco Gallarati)
TIAMAT
I Tiamat hanno il compito di traghettare le anime del Summer Breeze dagli Anthrax agli headliner di giornata Lamb Of God, gothic metal (ormai) edulcorato schiacciato tra due colossi thrash metal, old-style o modern che sia. Nulla che c’azzecchi, quindi, eppure il pubblico resta piuttosto folto a vedersi la performance degli svedesi, guidati da un praticamente irriconoscibile Johan Edlund, con tanto di pancetta e berrettino da post-ricovero. Lo ricordiamo anni orsono quando saliva sul palco a torso nudo e poteva vantarsi di un fisico praticamente perfetto: ebbene, l’età passa anche per questo proto-poeta del death metal scandinavo, evidentemente. Ben bilanciata è la setlist che ci presenta il quintetto – alle tastiere c’è Joakim Svalberg degli Opeth – con la sola “The Scarred People” estratta dall’ultima opera e con l’immensa “The Sleeping Beauty” ad esser il brano più antico suonato, sebbene le vocals di Edlund siano completamente cambiate, così come l’attitudine e il piglio dei suoi musicisti. “Whatever That Hurts” incanta ancora, però, e forse basta la sua esecuzione per farci sentire appagati e soddisfatti, ma certo non rapiti o incantati, dalla mostruosa dea babilonese Tiamat.
(Marco Gallarati)
CLITEATER
Il terzo e ultimo giorno di concerti si apre all’insegna del death/grind più becero e ignorante. A fornircelo gli olandesi Cliteater, dissacrante quintetto che da circa un decennio si prende gioco dell’immaginario heavy metal storpiandolo a suon di riferimenti sessuali di dubbio gusto (titoli come “Clit ‘Em All” e “Scream Bloody Clit” parlano da soli). Nulla di trascendentale, sia chiaro, ma bisogna ammettere che il songwriting frizzante dei Nostri ha da subito catturato l’attenzione, schietto senza per questo risultare semplicistico o campato per aria. Fra un riff death’n’roll e un altro scippato ai Napalm Death d’annata, la performance si trasforma presto in un party selvaggio, con dozzine di persone intente a pogare, gonfiare preservativi a mo’ di palloncini e a intonare cori da stadio (epico il ‘Bukkake! Bukkake!’ all’altezza di “Cock And Love”), mentre sul palco la band dà tutta l’impressione di divertirsi un mondo. In fin dei conti questa è musica nata per essere suonata dal vivo, al diavolo i sofismi!
(Giacomo Slongo)
ALTRE PHOTOGALLERY
Le altre foto le trovate tra le Gallerie Fotografiche.
STORMBORN (vincitori New Blood Award)