Introduzione a cura di Sara Sostini
Report a cura di Marco Gallarati, Giacomo Slongo e Sara Sostini
Foto di Enrico Dal Boni ed Emanuela Giurano
Estate vuol dire mare, sole, vacanze, relax e…ma neanche per sogno! Per chiunque abbia le orecchie foderate di metallo, l’estate è sinonimo di festival estivi in giro per l’Europa, vere e proprie scorpacciate di musica ed affini secondo le declinazioni (più o meno) estreme del proprio palato. Metalitalia.com (con un invidiabile record di tredici presenze su diciassette edizioni!) come ogni anno fa tappa fissa al Summer Breeze Open Air Festival, oramai annoverato tra i titani degli open air europei. Con un bill che di volta in volta sembra crescere in quantità e – soprattutto – qualità ed un’organizzazione eccellente, sarebbe stato un sacrilegio mancare; quindi, dopo un pernotto a Stoccarda ed un viaggio tranquillo nella Bassa Baviera, eccoci approdare in quel di Dinkelsbuhl sotto una pioggia che (ahinoi!) ci tormenterà per tutta la durata dell’evento, trasformandolo in una delle edizioni più negative, meteorologicamente parlando, a cui abbiamo mai assistito. A livello logistico, troviamo il festival leggermente cambiato rispetto agli altri anni: una nuova entrata proprio di fianco al Main Stage e il Metal Market disposto su tre file, in modo da rendere il flusso continuo di persone più disperso e meno confusionario, permettono di spostarsi in maniera più agevole e veloce tra i palchi principali ed il T-Stage (il tendone un tempo nominato Party Stage, quest’anno intitolato a Michael Trengert, membro dell’organizzazione, nonché boss della divisione europea della Metal Blade Records, scomparso qualche tempo fa); il Camel Stage promosso a “palco ufficiale” per gruppi minori o di nicchia (in precedenza era riservato ad esibizioni al limite del goliardico e dell’ininfluente); servizi igienici aumentati all’interno dell’area festival; con queste modifiche mirate, la location sembra ora assestarsi su canoni rasenti la perfezione, tenendo conto dell’ulteriore, piccolo ampliamento della camping area, ogni edizione sempre più accogliente. Unica nota veramente dolente, il succitato T-Stage: se da un lato la nuova disposizione del palco, perpendicolare all’entrata (anzichè sul fondo), permette un’ottima visuale dei concerti praticamente da qualsiasi punto, dall’altro l’assenza del rivestimento di legno nel pit ha contribuito a trasformare quella che era una zona asciutta e riposante in una palude vischiosa di fango e maleodorante già dopo il primo giorno di tempo incerto e pioggia. A ricompensare questo inatteso passo indietro, però, il bill di quest’anno, troppo ghiotto ed appetitoso per permettere ad un tempo non eccellente di rovinarci l’avventura! Perciò ecco il racconto di questi quattro giorni ricchi di metal nelle sue più varie declinazioni! Come al solito, buona e paziente lettura.
[A questo indirizzo le gallerie delle altre band.]
MERCOLEDI’ 13 AGOSTO – Nuclear Blast Night
BODYFARM
Il primo gruppo che riusciamo a seguire nella giornata inaugurativa di mercoledì è quello dei Bodyfarm, quartetto olandese recentemente accasatosi presso la corte della potente Metal Blade e responsabile di un death metal vecchio stampo à la Asphyx/primi Pestilence, pane per i denti dello spettatore medio tedesco, da sempre appassionato di ritmiche rocciose e parti ignorantissime su cui scapocciare con una birra gelata in mano. A dirla tutta non siamo mai stati fan dei loro dischi, lontani anni luce dal brio e dall’efferatezza di quelli dei coetanei Deserted Fear o Skeletal Remains, ma dobbiamo riconoscere ai Nostri di essersi resi protagonisti di uno show niente male, tanto breve nella durata (poco meno di mezz’ora) quanto trascinante nei fatti. D’altronde certa musica nasce per essere riproposta dal vivo, magari sulle assi di un piccolo palco come possono esserle quelle del Camel Stage, e anche oggi questa regola viene rispettata in toto: complice la buona reattività del cantante/chitarrista Thomas Wouters, sempre pronto ad incitare gli astanti con i suoi ‘Ohi ohi ohi!’ urlati a pieni polmoni, brani soltanto discreti sulla carta come “Tombstone Crusher” e “Slaves Of War” acquistano diverse marce in più, facendo assumere alla setlist le sembianze di un gigantesco caterpillar. La prevedibilità del songwriting passa insomma in secondo piano, il pubblico si diverte come da copione (nel pit viene persino accennato un wall-of-death!) e la formazione orange si congeda tra gli applausi, proprio mentre nel cielo cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di pioggia. Forse è il caso di ripararsi sotto al tendone…
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Unbroken
Frontline Massacre
The Coming Scourge
Tombstone Crusher
The Well Of Decay
Slaves Of War
I Am The War
BLUES PILLS
La Nuclear Blast Night ha preso il via da qualche ora sul T-Stage e noi arriviamo in tempo per un bel tuffo vintage nei lisergici Anni Settanta con i Blues Pills, piccolo fiore all’occhiello della label che dà il nome alla serata. Fresco dell’omonimo album di debutto, il quartetto di indefinibile provenienza (Stati Uniti, Svezia e Francia, tanto per citarne qualche nazione d’origine) si presenta sul palco carichissimo e nei quarantacinque minuti che seguono riesce a scaldare l’atmosfera con del sano rock di vecchia data. Sulle note di “High Class Woman” ci scordiamo del tendone e della Germania, catapultati nelle polverose praterie americane, nelle comuni hippie errabonde lungo strade sinuose come i riff inanellati con maestria da Dorian Sorriaux. Jimi Hendrix, la chitarra di Ritchie Blackmore e l’impronta di Janis Joplin si sentono potentemente sia nella calda e graffiante voce di Elin Larsson sia nelle ritmiche degli altri musicisti. La giovane cantante si muove come un’icona blues dei tempi andati, ipnotizzando la platea e cimentandosi, dopo ottimi pezzi quasi “Astral Plane” e “Devil Man” (contenuti nell’ultimo album ma presenti anche in EP passati), anche in una bella cover di Tony Joe White, “Elements And Things”. Sulle note di “The Time Is Now”, che richiama alla mente l’acido, granitico stoner dei più contemporanei Orange Goblin, i Blues Pills concludono il concerto, salutati dagli entusiastici applausi del pubblico. Figli dei Seventies fino al midollo senza mai scadere nel plagio o nel citazionismo, con una resa live carismatica e briosa: promossi senza indugi!
(Sara Sostini)
Setlist:
High Class Woman
Ain’t No Change
Astralplane
No Hope Left For Me
Dig In
Devil Man
Elements And Things (cover Tony Joe White)
Bliss
Black Smoke
Little Sun
The Time Is Now
GRAND MAGUS
Dopo le buone sensazioni riscontrate durante la performance, non molto in stile Summer Breeze a dire il vero, della mezza-sorpresa Blues Pills, la serata nel T-Stage entra nel vivo con l’esibizione degli svedesi Grand Magus, chiamati, nella Nuclear Blast Night, a suonare per un’ora intera il loro ormai ricco repertorio devoto al classic-epic metal Ottantiano più stoico e ridondante. Gli spettri di Iron Maiden, Manowar e Black Sabbath – giusto per citare le band arci-note del panorama in questione – si aggirano costanti sotto il tendone, mostrando ancora una volta come il terzetto sia tanto bravo nella reinterpretazione quanto vicino allo zero nell’originalità della proposta. Ciò, ovviamente, non ci interessa, né tantomeno interessa al pubblico presente, voglioso di un prologo di festival con i controfiocchi e prontissimo ad inneggiare ad ogni anthem partorito dai Nostri. Con l’ultimo “Triumph And Power” ancora da promuovere a dovere, i Grand Magus non si limitano però ad uno show esclusivamente promozionale, bensì lo infarciscono di canzoni tratte dal loro recente passato, quello meno legato agli stilemi doomy e più orientato verso l’epic tout-court. Ottime le proposizioni, ad esempio, delle cadenzate e ondeggianti “Ravens Guide Our Way” e “Iron Will”, così come la chiosa finale affidata all’evocativa “Hammer Of The North”. Pur non facendo gridare al miracolo uditivo, il trio capitanato dal roccioso frontman JB Christoffersson ha deliziato la platea con uno spettacolo graditissimo e di qualità, baciato dai suoni migliori e più potenti della giornata, lasciandoci, al termine, con un bel sorriso di soddisfazione sulla faccia, pur non essendo chi scrive un fervente appassionato delle sonorità udite.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Conan (intro)
I, The Jury
Sword Of The Ocean
On Hooves Of Gold
Ravens Guide Our Way
Like The Oar Strikes The Water
Iron Will
Steel Versus Steel
Valhalla Rising
Triumph And Power
Hammer Of The North
EREB ALTOR
La notte si fa densa e l’intro di “Fire Meets Ice” chiama a raccolta un discreto pubblico davanti al Camel Stage, per assistere alla pagana calata degli Ereb Altor. Avendoli apprezzati di spalla ai Borknagar la scorsa primavera, decidiamo di procrastinare il ritorno al T-Stage…e non rimaniamo delusi: i quattro svedesi sfornano una prestazione veramente degna di nota, con il trio Mats, Ragnar e Mikael alle asce che si alterna anche nelle parti cantate dando un bell’effetto di epica coralità. Solenni, a tratti quasi sacrali, gli Ereb Altor uniscono l’asperità ruvida del black metal con il cammino pagano dei Bathory: così, se la lenta e riflessiva “By Honour” evoca paesaggi gelidi e vento freddo (abbastanza reale, in verità), “Nifelheim” è un’ode barbara che il pubblico scandisce come solo chi si sente discendente dei più antichi guerrieri norreni sa fare. Sul palco i quattro musicisti non sbagliano una virgola, l’esecuzione dei brani è puntuale ed ancora più atmosferica che su disco e dona all’intero concerto la parvenza di un cerimoniale pagano alla vigilia di una battaglia. La cover di “Twilight Of The Gods” viene accolta, com’è ovvio in questi casi, da tonanti ovazioni e dimostra quanto l’eredità di Quorthon e compagni permei ancora intere generazioni di musicisti. Con “Myrding” gli Ereb Altor si congedano dal Summer Breeze tra scrosci di applausi e corni di birra alzati alla luna, lasciandoci con la sensazione di aver camminato per qualche minuto tra i versi di qualche antica leggenda celtica. La vera chicca dei tre giorni di festival.
(Sara Sostini)
Setlist:
Fire Meets Ice
The Mistress Of Wisdom
By Honour
Nifelheim
Twilight Of The Gods (cover Bathory)
Myrding
UNLEASHED
Con gli Unleashed, presenza costante alle manifestazioni estere, soprattutto quelle svolte nelle lande teutoniche, si va più che sul sicuro! L’impatto dei quattro scandinavi nei confronti dell’audience corposa accumulatasi sotto il tendone è al solito scardinante e positivo: anche a causa di una serata non particolarmente calda, la gente presente in questo mercoledì festivaliero si ammassa di fronte al palco e si lascia amabilmente cullare dal death metal svedese d’annata propinato dalla band, che presenta il solito, immutabile Johnny Hedlund alla leadership totale e carismatica. Non ci sono album da sponsorizzare, quest’anno, visto che l’ultimo vagito dei Nostri è risalente al 2012, “Odalheim”; quindi gli Unleashed vanno a pescare nella loro corposissima discografia con sapiente sagacia, non tralasciando praticamente nulla di quello che si vuole ascoltare da loro e inserendo solo, proveniente dall’ultima fatica, la cataclismica “Fimbulwinter”, eseguita a pieno regime appena dopo il classico “The Longships Are Coming”. La setlist è spietata e tetragona, esattamente come la musica dello storico quartetto di Stoccolma, che ripropone pezzi ormai sentiti e risentiti decine di volte, ma che, a tutti gli effetti, non si stanca mai di riascoltare, soprattutto all’inizio di un evento così imponente e con l’entusiasmo ancora da far ben esplodere, frenato in parte dalla stanchezza accumulata durante il viaggio. “Midvinterblot”, “Hammer Battalion” e l’orgasmo collettivo di “Death Metal Victory” – allungata con i classici ‘cori di vittoria’ – precedono la rasoiata conclusiva a nome “Before The Creation Of Time”, estrapolata dal lontanissimo “Where No Life Dwells” ed ancora oggi dotata di un tiro impressionante. La succitata stanchezza, a questo punto, si impadronisce dei vostri redattori e non permette loro di visionare i Decapitated, ultimi ‘big’ della serata ad esibirsi sul T-Stage. Appuntamento quindi all’indomani, con i mattinieri Aborted e la loro prevista carneficina…
(Marco Gallarati)
Setlist:
Intro
Blood Of Lies
Triumph Of Genocide
The Longships Are Coming
Fimbulwinter
Don’t Want To Be Born
Wir Kapitulieren Niemals
If They Had Eyes
This Is Our World Now
Your Children Will Burn
To Asgaard We Fly
Midvinterblot
Hammer Battalion
Death Metal Victory
Before The Creation Of Time
GIOVEDI’ 14 AGOSTO
ABORTED
Quale modo migliore di cominciare la giornata se non con una sana dose di mazzate death/grind? Chiamati a raccolta per promuovere l’ottimo “The Necrotic Manifesto”, Sven de Caluwé e soci approdano sul Pain Stage quando il nostro orologio segna le dodici spaccate, scatenando nel giro di pochissime battute un’autentica carneficina tra la folla. Che i Nostri siano una delle migliori live band al mondo ormai lo sanno anche i sassi, ma ci sembra giusto ribadirlo: mettete questi cinque macellai nelle condizioni di suonare adeguatamente e non ce ne sarà più per nessuno! Incipit affidato a “Meticulous Invagination”, suoni da subito perfettamente calibrati (anche se in parte dispersi dal forte vento) e reazione pressochè immediata del pubblico, con il primo vero circle-pit di questo Summer Breeze 2014: basta poco agli Aborted per scaldare gli animi e spianare la strada alla setlist, equamente bilanciata fra nuove ‘hit’ e vecchi cavalli di battaglia. Ce n’è per tutti i gusti, dalle recenti “Coffin Upon Coffin” e “Fecal Forgery” alle intramontabili “The Holocaust Incarnate” e “The Saw And The Carnage Done”, con il quintetto rodatissimo dopo mesi di concerti e deciso a non fare prigionieri. ‘Svencho’ si conferma il solito frontman di razza, magnetico nelle movenze e spaventoso dietro al microfono, ma non si può certo dire che il resto della truppa abbia deluso le aspettative, eseguendo senza sbavature le frenetiche e violente trame dei brani; è incredibile come il cantante belga, nonostante gli innumerevoli cambi di line-up, riesca sempre a circondarsi di musicisti tanto preparati! Semplicemente devastanti, dal canto nostro non avremo mai abbastanza degli Aborted.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Meticulous Invagination
Parasitic Flesh Resection
Coronary Reconstruction
Hecatomb
Coffin Upon Coffin
Necrotic Manifesto
Fecal Forgery
Expurgation Euphoria
The Holocaust Incarnate
Sanguine Verses (…Of Extirpation)
The Origin Of Disease
The Saw And The Carnage Done
SKELETONWITCH
Mentre sui palchi principali i cresciuti (fisicamente, s’intende) Hackneyed stanno suonando al posto dei defezionari Of Mice And Men, il programma sotto il tendone, partito con gli Heretoir, prosegue con i thrash-blackster al fulmicotone Skeletonwitch, che vanno ad arroventare un inizio di giornata, a parte gli Aborted, fin troppo moscio. I ragazzi di Athens, Ohio, perfetti nel loro look e nella loro dinamica attitudine per il genere che suonano, non si risparmiano di una virgola e vomitano il loro feroce speed-thrash metal, contornato da tematiche sataniche e violente, sulla folla, non particolarmente esuberante a quest’ora del pomeriggio ma comunque andata in crescendo. Li avevamo seguiti nella precedente calata al Summer Breeze (anno 2011) su uno dei palchi open air, questa volta suonano al semi-coperto: il risultato non cambia di tanto, in quanto le mazzate sono volate lo stesso, grazie a brani diretti, lanciati a tutta birra e che non disdegnano assolutamente un coinvolgente appeal melodico di ottima fattura. Come ogni formazione che si rispetti, con alle spalle già qualche disco e con un tempo a disposizione limitato – tre quarti d’ora, in questo caso – gli Skeletonwitch di Chance Garnette presentano una selezione di brani ben calibrata fra i vari episodi della loro carriera, toccando gli apici di apprezzamento con “Beyond The Permafrost”, “Serpents Unleashed” e “Within My Blood”, mentre da non dimenticare la proposizione del più classicheggiante neo-singolo “Unending, Everliving”, seppur rilasciato a distanza di molto tempo dall’uscita del full d’appartenenza. Performance dunque soddisfacente per la Strega-Scheletro, a testimonianza di un’ottima resa live di una band che, solitamente, è usa non far prigionieri.
(Marco Gallarati)
Setlist:
I Am Of Death (Hell Has Arrived)
From A Cloudless Sky
Burned From Bone
This Horrifying Force (The Desire To Kill)
Crushed Beyond Dust
Beneath Dead Leaves
Serpents Unleashed
Stand Fight And Die
Beyond The Permafrost
Unending, Everliving
Repulsive Salvation
Of Ash And Torment
Within My Blood
More Cruel Than Weak
ELUVEITIE
Cornamuse, violini e cori innestati su una base metal + festival mitteleuropeo: ecco a voi l’equazione perfetta per assicurarsi il pienone, anche alle quattro di pomeriggio e con un tempo estremamente volubile come in questo caso. Si direbbe che la quasi totalità della fauna locale si sia radunata davanti al Main Stage per salutare il ritorno degli Eluveitie in terra tedesca: muoversi tra i palchi è praticamente impossibile, quindi cerchiamo di ottenere una posizione con una discreta visuale dello stage (impresa non semplice data l’affluenza) e ci prepariamo ad assistere all’invasione degli Elvezi, che, facendo della sobrietà del vestiario e della scenografia una delle particolarità che balzano subito all’occhio, partono immediatamente in quarta con la tripletta “Origins”/”The Nameless”/”From Darkness” dall’ultimo album, proprio “Origins”, uscito ad inizio mese, scaldando a dovere gli animi della folla di “kilt e leather” lungocriniti. Il frontman (nonchè polistrumentista) Chrigel Glanzmann svolge egregiamente il proprio ruolo di fomentatore d’animi, mentre i restanti otto membri lo seguono con pari grinta ed entusiasmo: i ritmi cadenzati delle arie più medievaleggianti orchestrati da cornamuse, ghironde, arpe, violini, flauti di varia fattura (che veder suonare dal vivo ha il suo effetto, non lo neghiamo) ben si sposano con un death metal melodico di facile ascolto; al timbro cavernoso di Glanzmann fa da contraltare la voce cristallina della ghirondista Anna Murphy, che trionfa prepotentemente in pezzi come “A Rose For Epona” e “The Call Of The Mountains”, candidata, ci scommettiamo, a diventare uno dei più amati del loro repertorio. Dopo la cadenzata “Havoc”, il classico “Inis Mona” scatena cori e battimani a tempo. Con “The King”, ancora da “Origins”, la tribù elvetica prende dignitosamente congedo. Una band che con il proprio ‘pure fucking folk metal’ ha mietuto e continuerà a mietere successi.
(Sara Sostini)
Setlist:
Origins
The Nameless
From Darkness
Thousandfold
Neverland
A Rose For Epona
Havoc
Inis Mona
The Silver Sister
The Call Of The Mountains
The Siege
The King
ARCH ENEMY
Dalla folla radunatasi nello spiazzo davanti al Main Stage deduciamo che non siamo i soli ad essere curiosi di vedere la nuova formazione del gruppo capitanato (tiranneggiato?) da Michael Amott, dopo il passaggio di testimone del microfono che tanto ha fatto discutere la scorsa primavera. Le prime note di “Yesterday Is Dead And Gone” spingono via di prepotenza qualsiasi tipo di domande e confronti: la voce della blu-crinita Alissa White-Gluz risuona aspra e cavernosa quanto basta per far dimenticare le ultime prestazioni live della ‘matrona’ Angela Gossow. Al di là delle considerazioni etico-morali sulla politica di marketing del gruppo, che lasciamo da parte per chi ne voglia discutere in altra sede, ci limitiamo qui a trattare della prestazione musicale della band in questione: dopo un paio di album ‘crepuscolari’, effettivamente gli Arch Enemy avevano bisogno di trovare il modo di uscire dal baratro di mediocrità in cui erano andati ad impelagarsi, e se la giovane Alissa costituisce – come sembra – una discreta soluzione per riacquistare lustro e dignità, ben venga. Ovviamente non stiamo parlando di chissà quali leggende del panorama metallico ma di un gruppo che ancora una volta ha conquistato la propria fetta di pubblico e celebrità suonando (dignitosamente) bene la propria interpretazione del verbo del death metal, declinandolo con sapienza attraverso le partiture più melodiche con quell’Amott-tocco oramai inconfondibile. E così, con un set scenico ridotto all’essenziale ed una tenuta abbastanza sobria, i cinque guerrafondai anarco-distopici ci conducono in una panoramica che mescola il vecchio al nuovo, con la nuova recluta che, invasatissima, affronta senza apparenti timori di sorta i grandi classici del gruppo (“Ravenous”, “My Apocalypse”), così come i nuovissimi estratti da quel “War Eternal” che porta il suo inconfondibile timbro vocale, pieno e graffiante, già dalla nascita, tra tutte la nuova “As The Pages Burn”. Anche gli altri musicisti sembrano risentire di questa nuova ventata di freschezza e la prestazione complessiva del gruppo è buona (con l’ex-Arsis Nick Cordle al posto un tempo occupato dalla chitarra di Chris Amott), raggiungendo l’acme di consensi con la popolarissima “Nemesis”, che consacra la felina Alissa non a ‘novella Angela’ ma a ‘membro degli Arch Enemy’ a pieni titoli, con i propri tratti distintivi e il proprio modo di stare sul palco (che, scommettiamo, farà girare la testa ad un sacco di esponenti maschili del pubblico). A dimostrazione che dopo aver toccato il fondo si può solo tentare di risalire.
(Sara Sostini)
Setlist:
Khaos Overture
Yesterday Is Dead And Gone
War Eternal
Ravenous
My Apocalypse
You Will Know My Name
Bloodstained Cross
As The Pages Burn
Dead Eyes See No Future
No Gods, No Masters
We Will Rise
Nemesis
Fields Of Desolation
THE OCEAN
Avendo sempre avuto modo di apprezzare il collettivo tedesco in ambienti chiusi ed underground siamo invero curiosi di vedere come se la cavano i ragazzi in un ambiente di caratura diversa come quello del T-Stage. A colpo d’occhio il palco è trasformato in un visionario cosmo oceanico (con tanto di proiettore e pannelli) ed è chiaro che il sentiero intrapreso dal quintetto tedesco, quello di proporre dal vivo l’ultimo “Pelagial” nella sua (quasi) interezza, procede scevro di ripensamenti di sorta. “Epipelagic”, con il suo incedere calmo come le onde di superficie, è l’ideale trampolino di lancio per l’indemoniato Loic Rossetti, che dalle prime note di “Mesopelagic: Into The Uncanny” si scatena, correndo, urlando nel microfono e gettandosi nel pubblico (con un salto di almeno due metri!) nella più fedele tradizione hardcore. Da sempre sbarazzini ed assolutamente indifferenti alle opinioni altrui e avendo dalla loro la complicità dei connazionali, Robin Staps e soci ci regalano quarantacinque minuti intensissimi, non risparmiandosi in contorcimenti fisici e sonori, attirandoci oltre la zona adopelagica, dove le acque scure e dense intrappolano le sinapsi in tentacolari cambi di tempo e dissonanze. A sorpresa, durante “Demersal: Cognitive Dissonance”, sale sul palco Roy Mortensen, cantante degli EpitomE, il quale provvede da subito a far quasi sfigurare le acrobazie di Rossetti, dato che passa più di metà canzone cantando semi-sommerso dal pubblico. La claustrofobica, asfissiante “Benthic: The Origin Of Our Wishes”, suonata quasi in apnea, ci lascia esausti, in debito d’ossigeno, paranoica conclusione dai tratti doomeggianti di un concerto che nella sua viscerale carica emotiva ha il suo inconfondibile punto di forza.
(Sara Sostini)
Setlist:
Epipelagic
Mesopelagic: Into the Uncanny
Bathyalpelagic I: Impasses
Bathyalpelagic II: The Wish In Dreams
Bathyalpelagic III: Disequilibrated
Abyssopelagic I: Boundless Vasts
Hadopelagic II: Let Them Believe
Demersal: Cognitive Dissonance
Benthic: The Origin Of Our Wishes
DOWN
Dal positivo show dei The Ocean, torniamo all’aria aperta per gustarci il primo dei quattro grossi nomi che chiuderanno il giovedì di festival sul Main e sul Pain Stage, i Down. Non si capisce bene cosa stiano facendo e dove stiano puntando i loro fucili, in questi ultimi anni, gli storici southern metaller della Louisiana – che soprattutto oggi rimpiangono ancora le dipartite di Rex Brown prima, per sovvenuti problemi fisici da risanare, e Kirk Windstein poi, con quest’ultimo impegnato a far ben rivivere i suoi stolidi Crowbar – ma il carisma del trio terremotante composto da Phil Anselmo, Pepper Keenan e Jimmy Bower basta e avanza (per ora) a rendere ancora imperdibile una performance del combo in questione, imprevedibile e divertente, quando non spinta troppo in là dalle gigionate di Anselmo, come ogni riuscito scherzo che non si aspetti. La band, completata da Patrick Bruders al basso e da Bobby Landgraf alla chitarra, è schiava dei tempi, delle mimiche e delle spacconate di Phil, ma l’intesa è talmente cementata e la parte da interpretare è talmente chiara ed evidente che ormai non ci si fa quasi più caso. Il debutto “Nola” resta l’apoteosi del southern metal depresso del gruppo e da esso vengono tratte buona parte delle perle disarmanti incastonate nella sua lisergica collana, fra le quali “Lifer” – dedicata al sempre ricordato Dimebag Darrell – e la conclusiva, devastante “Bury Me In Smoke” hanno completamente annichilito la folla di tedeschi; tedeschi vagamente imbesuiti – poveri loro – dai pistolotti sarcastici e strafottenti del buon Filippo, che, tra una microfonata in fronte, un’imitazione irresistibile di Ozzy Osbourne ed una posa imbronciata dietro l’altra, ha preso sanamente per il culo la ‘tipica’ ironia teutonica, intonando, a mo’ di inno, un caustico ‘Germany…the land of humor!’, per poi rivolgersi alla perplessa audience con dei ripetuti ‘fate questo e siete noiosi, fate quell’altro e siete noiosi’, fino a quando non si è visto costretto a dichiarare di essere in vena di scherzi, constatata la quantità di diti medi alzati verso di lui. Restando in tema “Bury Me In Smoke”, va assolutamente segnalato lo strascico prolungato del riff portante a chiudere, che ha visto i Down sostituiti, praticamente nella loro interezza, dai Machine Head in persona, protagonisti l’indomani in veste di headliner: chiaro che non capita tutti i giorni di vedere sullo stesso palco un buon numero di eroi dei Nineties (Anselmo, Keenan, Flynn, Bower, Demmel…) tutti assieme abbracciati! Tralasciamo, per non tediarvi ulteriormente, altri siparietti di Phil, che oltretutto avranno sottratto anche un buon venti minuti all’esibizione musicale così detta, e chiudiamo il trafiletto dicendo che i Down hanno reso onore al loro nome con una prestazione all’altezza, considerando che l’ex-Pantera, se da un lato non è più la bestia assassina di un tempo, dall’altro regge ancora bene con una voce ormai stra-abusata dagli anni. Li rivedremmo sempre volentieri e sempre col sorriso sulle labbra.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Eyes Of The South
We Knew Him Well
Hogshead/Dogshead
Witchtripper
Lifer
Lysergik Funeral Procession
Pillars Of Eternity
Hail The Leaf
Conjure
Stone The Crow
Bury Me In Smoke
SECRETS OF THE MOON
Calano le tenebre e con esse cresce la nostra voglia di sonorità nere e malevole. Così, mentre sul palco principale va in scena lo spettacolo di Phil Anselmo e compagnia sudista, facciamo rotta verso il T-Stage per assistere alla performance dei black metaller Secrets Of The Moon, ormai di casa da queste parti avendo suonato diverse volte nelle passate edizioni del festival. Forte di una carriera ventennale, la band può contare su uno zoccolo duro di fan che ne segue passo passo le gesta e così è anche stasera: la platea radunatasi sotto al tendone non è certo numerosa, ma osserva il quartetto con grandissima devozione, quasi stesse partecipando ad un rituale misterico (idea avvalorata dalla presenza di candelabri e torce infuocate sul palco). “Serpent Messiah”, dall’ultimo “Seven Bells”, viene scelto come brano apripista e nel giro di sette minuti mette subito in chiaro le cose: questo non sarà il classico show black metal tutto blast-beat e tremolo picking. Al contrario, il sound della formazione procede lento, scandito da ritmiche frastagliate e da un guitar-work poco decifrabile a base di riff obliqui e melodie sibilline, trasmettendo più un senso di straniamento che di gelo o malvagità. Musica forse non propriamente adatta alla cornice festaiola del Summer Breeze, ma dal fascino indiscutibile e riproposta senza cedimenti in ogni sua sfaccettatura, come dimostrato dalle trame della monumentale “Carved In Stigmata Wounds”, episodio che congeda i Secrets Of The Moon dopo tre quarti d’ora di spettacolo. In fin dei conti possiamo ritenerci soddisfatti.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Serpent Messiah
A Million Suns
Lucifer Speaks
Nyx
Carved In Stigmata Wounds
BEHEMOTH
Con ancora impressa negli occhi la devastante performance del 2012 (quando Nergal e soci si esibirono in veste di pre-headliner sul palco principale) accorriamo nei pressi del Pain Stage per tributare i giusti onori ai Behemoth, indubbiamente fra i nomi di punta di questa prima giornata di festival. Avendoli reportati più e più volte dall’uscita di “The Satanist” – uno dei dischi dell’anno, a detta di chi scrive – non ci dilungheremo troppo nel descrivere quanto offerto dai Nostri nei circa sessanta minuti a loro disposizione. Vi basti sapere che, come da consuetudine, il quartetto polacco non ha sbagliato una virgola, snocciolando uno dopo l’altro i brani con l’ormai immancabile contorno di pose, discorsi e trovate sceniche infernali, per sommo gaudio dei propri die-hard fan e dei tanti curiosi asserragliati nel pit (perchè diciamolo, oggigiorno ‘fa figo’ ascoltare Behemoth). Non sono quindi mancate all’appello le croci date alle fiamme nell’incipit di “Christians To The Lions”, gli spaventosi intrecci vocali di Orion e Nergal durante “At The Left Hand Ov God”, con il primo che ha quasi rubato la scena al secondo dietro al microfono, e la conclusione atmosferica sulle note di “O Father O Satan O Sun!”, che tra getti di coriandoli, maschere caprine e nubi di fumo ha posto in trionfo la parola ‘fine’ sullo show. Gira che ti rigira la domanda che ci facciamo è sempre la stessa: chi potrà mai fermare l’ascesa di questi titani?
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Blow Your Trumpets Gabriel
Ora Pro Nobis Lucifer
Conquer All
As Above So Below
Slaves Shall Serve
Christians To The Lions
Ov Fire And The Void
Alas, Lord Is Upon Me
At The Left Hand Ov God
Chant For Eschaton 2000
O Father O Satan O Sun!
TESTAMENT
Rifocillati, abbeverati e riposati, sfruttando la contemporaneità dei concerti dei ‘nuovi’ The Haunted e degli headliner Children Of Bodom, che decidiamo di seguire solo parzialmente, ci avviciniamo infine all’ultimo evento della serata, la chiusura del programma del Pain Stage affidata ai Testament. Non ci aspettavamo un granchè di eccezionale dalla band nativa di Oakland – o perlomeno nulla di più del solito bombastico show – e invece ecco Chuck Billy e compari tirare fuori dal cilindro della loro esperienza una prestazione dinamitarda, che ha fatto impallidire Children Of Bodom e Down e lasciato con una spanna di distacco anche la grandeur apocalittico-satanica dei Behemoth. L’abbandono recente di Greg Christian ha fatto tornare al basso quel vecchio volpone di Steve DiGiorgio, che guarda caso è andato ad affiancare Gene Hoglan nel duo di sezione ritmica, che, se ci vogliamo mettere anche la macchina macina-riff rispondente al nome di Eric Peterson, ha trasformato la line-up dei Testament in una delle più ghiotte di tutti i tempi. Chuck Billy e Alex Skolnick completano tale titanico quintetto che, in una sola ora di spettacolo, cala giù diversi assi dal suo mazzo e li spiattella insanguinati tutti sulle zucche dell’audience presente, non enorme, a dire il vero, in quanto sotto il tendone c’è lo spettacolino per giovani bimbi imbastito dagli Eskimo Callboy, sensation vere e proprie qui in Germania. E dunque si parte con “Rise Up” e “The Preacher”, sparate ad un volume esagerato e con dei suoni di gran lunga migliori di chiunque si fosse esibito prima. La performance dei Testament si allunga poi con diversi brani dai due ultimi lavori, quelli del ritorno di Skolnick alla solista, per poi imbarcarsi in un viaggio a ritroso nel tempo iniziato dalla folle e rapida “Into The Pit”, durante la quale viene chiamata sul palco Alissa White-Gluz, in pista qualche ora prima con gli Arch Enemy: misera figura, quella rimediata dalla White-Gluz, ma va precisato che duettare con un grizzly del calibro di Billy non è facile per nessun cantante, maschio o femmina che sia. L’ora vola via in fretta e si arriva alla chiusura di “Over The Wall”, storica apertura dello storico debutto “The Legacy”. C’è spazio, però, per un bis, nonostante questo tipo di soluzioni non siano previste nei festival: e il bis prende forma e corpo nella debordante esecuzione di “D.N.R. (Do Not Resuscitate)” e “3 Days In Darkness”, ovvero il meglio del miglior album dei Testament, “The Gathering”. Scendono l’umidità e il freddo, ma riusciamo ad andarcene a nanna ben scaldati dai fuochi infernali partoriti dai Nostri, ancora una volta schiacciasassi di metallo!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Rise Up
The Preacher
More Than Meets The Eye
Native Blood
Dark Roots Of Earth
Into The Pit
The New Order
Practice What You Preach
Over The Wall
D.N.R. (Do Not Resuscitate)
3 Days In Darkness
VENERDI’ 15 AGOSTO
DEADLOCK
Sotto un cielo mattutino che non promette nulla di buono, eccoci davanti al Pain Stage per il primo gruppo segnato sulla nostra tabella di marcia per il giorno venerdì, i tedeschi Deadlock, tornati a popolare le cronache metal dell’anno corrente con l’uscita della raccolta “The Re-Arrival”. Dalle prime note di “Dark Cell” ci è perfettamente chiaro il motivo del loro successo in patria (e non solo): unendo ad un asprigno death metal (molto) melodico una coppia di complementari voci growl/pulite e frequenti passaggi elettronici si ha la formula perfetta per suonare orecchiabili a qualsiasi tipo di padiglione auricolare. Se a questo si aggiunge la figura femminile alle clean vocals, incarnata dalla minuta Sabine Scherer, la visibilità (nel bene e nel male) è praticamente assicurata, come dimostra la grande partecipazione del pubblico che salta, canta e si dimena seguendo la band, sia nei successi di vecchia data come “The Brave/Agony Applause” che nella nuova “An Ocean’s Monument”. I Deadlock si sentono a casa, sanno di poter contare su questo e ce la mettono tutta per lasciare il segno: il frontman John Gahlert non risparmia incitamenti e corre (come un po’ tutti gli altri) da una parte all’altra del palco, mentre Sabine non sembra risentire molto della propria vistosissima gravidanza e dà fondo alla cristallina voce, anche se in alcuni passaggi ci sembra quasi forzato il suo inserimento, come quello degli spezzoni di musica danzereccia…ma trattasi puramente di gusti personali dato che, ad esempio, l’anthem di “I’m Gone” viene cantato dai presenti come un sol uomo. Gli ultimi due pezzi della scaletta vengono funestati dalla pioggia, onnipresente nemica di questi giorni, ma i tedeschi come si sa hanno tempra d’acciaio e, per nulla disturbati dalle raffiche e dal vento, continuano ad accompagnare con battimani, headbanging e quant’altro la band, che prende congedo con l’accorata “Awakened By Sirens”. Alla fine, i Deadlock o piacciono o finiscono per annoiare facilmente: a noi sono risultati godibili, data la scarsità di alternative proposta in questa fascia d’orario, ma anche assolutamente non prescindibili.
(Sara Sostini)
Setlist:
Dark Cell
An Ocean’s Monument
The Brave/Agony Applause
Dead City Sleepers
Code Of Honor
Earthlings
I’m Gone
Renegade
The Arsenic River
Awakened By Sirens
BENEDICTION
I Benediction non sono più dei ragazzini e si vede, ma la loro grinta non ha nulla da invidiare a quella dei tempi d’oro. Questa breve premessa per inquadrare lo show offerto dalla band inglese nel primo pomeriggio di venerdì, poco dopo l’ennesimo scroscio di pioggia, a cui sembra partecipare la stragrande maggioranza degli avventori death metaller del festival. Tra la folla è tutto un susseguirsi di toppe, sguardi truci e magliette dei Bolt Thrower – storici compagni di merende dei Nostri – mentre sul palco il quartetto sembra intenzionato a farsi perdonare la cancellazione last minute dello scorso anno. Conosciamo bene le capacità del frontman Dave Hunt – avendolo visto più volte all’opera con i lanciatissimi Anaal Nathrakh – ciò nonostante è sempre un piacere lasciarsi investire dai ruggiti del vocalist inglese, che fra le altre cose non manca mai di intrattenere il pubblico con simpatici siparietti nelle pause fra un brano e l’altro (invero non frequentissime). Purtroppo i suoni ‘sfarfallano’ a causa del vento, ma questo non impedisce ai riff della coppia d’asce Darren Brookes/Peter Rew di giungere grassi e potenti alle nostre orecchie, esaltando al massimo il taglio old-school della scaletta: antiche perle del calibro di “Unfound Mortality”, “Jumping At Shadows” e “The Dreams You Dread” si abbattono come macigni sul pit, dando vita ad un massacro che ci risucchia a sé istantaneamente e che stampa sorrisi sulle facce di tutti i presenti. Come resistere al fascino di questi eroi proletari del death metal?
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Nightfear
Nothing On The Inside
Unfound Mortality
They Must Die Screaming
Suffering Feeds Me
The Grotesque
Jumping At Shadows
I Bow To None
The Dreams You Dread
Magnificat
ANNEKE VAN GIERSBERGEN
I J.B.O. – non si può negarlo – stanno catalizzando la stragrande maggioranza del pubblico del Summer Breeze e dunque, mentre si iniziano a vedere facce e capelli sconvolti dalla polvere rosa sparata in aria dal gruppo burlone, noi preferiamo lanciarci sotto la tenda a vedere la Anneke Van Giersbergen solista, di certo la presenza femminile più carismatica di questa edizione del festival (non vorrete forse dirci che Tarja Turunen è la stessa cosa, vero?). Sebbene il genere proposto dalla vocalist olandese sia decisamente lontano da quanto gira di solito, in termini stilistici, qui al Summer Breeze, la sua passata militanza nei The Gathering influisce ancora moltissimo tra i giovani e meno giovani metaller; e perciò, al momento dell’entrata on stage di Anneke, il T-Stage è chiaramente mezzo vuoto, ma comunque popolato da un cospicuo e incuriosito drappello di ascoltatori, che andrà infoltendosi sempre più con il passare del minutaggio. I musicisti che accompagnano la Van Giersbergen, sicuramente bravi e ordinati, finiscono velocemente in secondo piano al cospetto della verve cristallina e della classe pura della nostra eroina, un concentrato di energia positiva, grinta e raffinatezza da far rabbrividire la pelle, nonostante il tepore ed il Sole incerto del giorno di Ferragosto. Chi scrive ammette di non conoscere più di tanto il repertorio solista di Anneke, ma il fascino e l’appeal che traspaiono dai brani e dalla loro interpretazione sono in grado di stregare chiunque sia dotato di almeno un orecchio funzionante. Il top della performance però, manco a dirlo, lo si raggiunge quando la cantante oranje sfodera una doppietta di brani dei The Gathering epoca “Mandylion”: prima è la volta di “In Motion #2”, eseguita in maniera toccante con il solo accompagnamento delle tastiere; poi, con la band al completo, ecco i prodigiosi sei minuti di “Strange Machines” a lasciare di stucco il pubblico presente, grazie ad un’esecuzione perfetta. E, tanto per concludere in bellezza e per non lasciarsi sfuggire niente, la notizia finale della (invero prevedibile) partecipazione di Anneke allo show notturno di Devin Townsend, in programma proprio a poche ore dall’esibizione che vi abbiamo quassù descritto. Uno dei must del festival, a discapito della leggerezza della musica.
(Marco Gallarati)
THE AGONIST
Si prospettano tempi difficili per i The Agonist, chiamati in questo 2014 a sostituire una frontgirl del calibro di Alissa White-Gluz e a dimostrare di essere finalmente maturati come compositori. Per la risposta al secondo quesito c’è ancora tempo – un nuovo album è previsto per il prossimo autunno – mentre per quella al primo, be’…dopo oggi nutriamo più di un dubbio sul futuro del quintetto. La formazione canadese presenta al pubblico del Summer Breeze la cantante Vicky Psarakis, biondina di origini greche, avendo a disposizione uno slot di tutto rispetto sul T-Stage, motivo per cui la calca è considerevole quando ci accingiamo a varcare la soglia del tendone. La pressione a carico della giovane è insomma tanta, forse troppa, e le ci vuole un po’ prima di sciogliersi nelle movenze e negli incitamenti, prendendo in mano le redini della situazione soltanto dopo tre/quattro brani. Il problema comunque è la voce: lungi da noi bocciarla a priori, ma il confronto con quella della sensuale puffetta ora in forze agli Arch Enemy è impietoso, non tanto nei puliti (armonizzati ed eterei a sufficienza) quanto nelle screaming vocals, praticamente inoffensive. In questa maniera le caotiche trame dei brani – da sempre croce per i detrattori e delizia per i fan – risultano ancora più evidenti, in un guazzabuglio di stacchi, contro-stacchi e ripartenze in salsa melo-death/metalcore/math-grind/vattelapesca che a dirla tutta ci lasciano piuttosto interdetti. Il pubblico comunque non sembra essere del nostro stesso avviso e, complice una prova in crescendo da parte dell’intera formazione, fa tremare il terreno a suon di pogo, circle-pit e crowd-surfing, finendo per rompersi le giunture sulle note della conclusiva, immancabile “Business Suits And Combat Boots”.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Disconnect Me
Dance Macabre
Thank You, Pain
Panophobia
Gates Of Horn And Ivory
Ideomotor
Predator And Prayer
…And Their Eulogies Sang Me To Sleep
Business Suits And Combat Boots
CARCASS
Quello dei Carcass verrà ricordato come uno degli show più bizzarri – non in senso positivo e non certo a causa dei musicisti – di questo Summer Breeze 2014. Nuovamente sulla cresta dell’onda dopo un disco di livello come “Surgical Steel” e dopo aver messo d’accordo tutti, scettici e non, grazie a performance live straordinarie, i quattro patologi fanno il loro ingresso sul Main Stage circondati da una scenografia scarna ed essenziale, partendo come d’abitudine sulle note del capolavoro “Buried Dreams”. Nelle intenzioni di Jeff Walker e compagni il brano dovrebbe servire a scaldare gli animi della platea, ma fin dalle primissime battute qualcosa non torna: il pubblico (e parliamo di diverse migliaia di persone) non reagisce minimamente alla ‘botta’, dando a stento segni di vita con un po’ di headbanging all’altezza delle prime file, quasi reputasse noioso, sorpassato o comunque poco interessante il discorso della band. Che i tedeschi preferiscano sonorità death metal più groovy e lineari (vedasi Asphyx, Obituary, Six Feet Under, ecc.) non è certo una novità, ma prima di questa sera non ci saremmo mai aspettati di assistere ad un simile spettacolo: il gruppo è in formissima, la setlist ripercorre in lungo e in largo ogni capitolo della sua discografia (spettacolare il medley che coinvolge il trittico “Genital Grinder”/“Pyosisified (Rotten To The Gore)”/“Exhume To Consume”, così come la rockeggiante “Keep On Rotting In The Free World”), eppure in pochissimi sembrano rendersene conto. Un vero peccato per una realtà storica del valore dei Carcass, la quale ha soltanto avuto la sfortuna di incappare nel pubblico sbagliato. Doppiamente promossi visto il vento sfavorevole della serata.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
1985 (intro)
Buried Dreams
Incarnated Solvent Abuse
Cadaver Pouch Conveyor System
This Mortal Coil
Reek Of Putrefaction
Unfit For Human Consumption
The Granulating Dark Satanic Mills
Genital Grinder/Pyosisified (Rotten To The Gore)/Exhume To Consume
Keep On Rotting In The Free World
Captive Bolt Pistol
Corporal Jigsore Quandary/The Sanguine Article
Heartwork
HYPOCRISY
Davvero ardua, almeno per chi scrive, la scelta da effettuare tra il visionare gli Ahab sotto il tendone oppure gli Hypocrisy sul Pain Stage, a cinque minuti e cinquanta metri di distanza dagli appena terminati Carcass. Avendo già comunque, i doomster tedeschi, la copertura redazionale, si opta per restare all’aperto senza sosta, gustandoci così gli storici death metaller svedesi, che, a memoria, non vediamo dalla performance su suolo italico avvenuta nel 2012 durante il Metalfest Italia e che ancora si trovano in debito, coi loro fan tricolori, di una data (ricordate la cancellazione di quest’inverno del concerto di supporto agli Heaven Shall Burn?). Insomma, di motivi per ammirare nuovamente gli Hypocrisy ce ne sono, anche se, col senno di poi, avremo modo di pentirci in parte della decisione: la band, infatti, pur suonando bene e riscuotendo il solito successo, ha un po’ deluso le attese, presentandosi fredda, poco ciarliera e, cosa più grave, con suoni deficitari almeno per metà esibizione. La partenza affidata a “End Of Disclosure”, singolone-apripista dell’ultimo, omonimo, riuscito lavoro resta decisamente ingarbugliata e ovattata dall’impatto sonoro poco efficace. Si fa peggio con “Valley Of The Damned”: le trame chitarristiche complesse e più veloci della terremotante traccia sono poco udibili, e anche le urla di Peter Tagtgren ci arrivano non bene. Ci si inizia a riprendere un pochetto con le seguenti e mortifere “Fractured Millennium” e “Killing Art”, che confermano l’intelligente alternanza, macchinata dai Nostri, di un brano in mid- o up-tempo con una sfuriata al fulmicotone. Si procede in questo modo, dunque, con la doppietta “The Eye”/”Warpath”, fino a giungere in un battibaleno a “Fire In The Sky”: speravamo, per gli Hypocrisy, nell’utilizzo dei giochi pirotecnici, e il pezzo succitato sarebbe stato perfetto per vedere qualche ‘fuoco nel cielo’; ma si sa, pur avendo l’impianto a disposizione, non tutte le band possono/vogliono utilizzarlo, perciò niente vampate improvvise per Tagtgren e soci. Si resta al freddo per la conclusiva “The Final Chapter “, che porta il quartetto a ritirarsi nel backstage giusto il tempo di far scorrere il file dell’intro “The Gathering”, tra luci, sussurri radiofonici e fumi ad annunciare l’arrivo degli alieni, o meglio…il loro fatale schianto: scocca l’ora, difatti, di “Roswell 47”! Neanche il tempo di riprendersi e schiarire la voce che, finalmente con suoni decenti, viene proposta “Adjusting The Sun”, che ammalia l’audience prima della bella chiosa affidata ad “Eraser”. Come spesso accade, purtroppo, non si riesce ad essere soddisfatti del tutto dopo un live degli Hypocrisy, ma tant’è, un’altra ora di buona musica è trascorsa! E la serata entra nel suo clou!
(Marco Gallarati)
Setlist:
End Of Disclosure
Valley Of The Damned
Fractured Millennium
Killing Art
The Eye
Warpath
Fire In The Sky
The Final Chapter
The Gathering (intro)
Roswell 47
Adjusting The Sun
Eraser
AHAB
Quando abbiamo visto per la prima volta il running order del festival, arrivati agli Ahab abbiamo dovuto rileggere più volte l’orario assegnatogli: abituati a vederli suonare nelle passate edizioni del festival sempre dopo le due di notte, non potevamo credere ai nostri occhi quando abbiamo visto che avrebbero occupato lo slot delle dieci postmeridiane! Certo, in questo modo siamo costretti a sacrificare gli Hypocrisy, ma la passione per il Capitano di Melville ha avuto la meglio. Spentosi l’intro con risacca e ‘tekeli-li!’ di gabbiani in lontananza, le prime, pesantissime note di “The Divinity Of Oceans” ci fanno dimenticare qualsiasi rimpianto di sorta per accavallamenti di orari e simili: la voce gorgogliante di Daniel Droste colpisce con la violenza dell’onda in mare aperto che travolge ed annienta qualsiasi resistenza. E’ incredibile quanto il doom funerario dei Nostri si sposi magnificamente con le profonde acque di cui sono intrise le loro liriche: il basso di Stephan Wandernoth schiocca pesantissimo seguendo il ritmo grasso della batteria e in “Deliverance (Shouting At The Dead)” l’alternanza di voce pulita/growl di Droste raggiunge un’armonia incredibile. “Nickerson’s Theme” echeggia per tutto il tendone con i suoi placidi arpeggi che d’improvviso si trasformano in un maelstrom ribollente, ma non importa, dato che sentire questo pezzo live è rarissimo e quasi non ci fidiamo delle nostre stesse orecchie. Evidentemente i quattro tedeschi questa sera vogliono lasciare il proprio (nutrito) pubblico a bocca aperta, perchè subito dopo ripropongono una cadenzata, tiratissima cover dei connazionali Omega Massif (scioltisi qualche mese fa, cancellando quindi la loro apparizione al festival), una “Wölfe” suonata con una velocità ed una violenza esagerate per i soliti standard doomy del gruppo! Infine, il pezzo che tutti aspettavano, quella “The Hunt” che con il riffing iniziale, delicato e minaccioso come la linea dell’orizzonte davanti alla Pequod, scatena un’ovazione generale. L’estasi della caccia deflagra con l’urlo “whale ahead!” e poi ci sono solo schiuma, relitti e vento mugghiante. A fine concerto scopriamo di aver assistito allo show per il decennale di carriera dei quattro lupi di mare tedeschi; ci auguriamo di poter solcare il livido oceano in loro compagnia ancora per molto, molto tempo.
(Sara Sostini)
Setlist:
The Divinity Of Oceans
Deliverance (Shouting At The Dead)
Nickerson’s Theme
Wölfe (cover Omega Massif)
The Hunt
MACHINE HEAD
Dopo l’exploit dell’anno scorso, con la chiamata degli In Flames, gli organizzatori del Summer Breeze si sono ripetuti quest’anno convocando all’happening germanico uno dei gruppi dei Nineties che, tutt’oggi, vanno per la maggiore su scala mondiale, gli statunitensi Machine Head; Machine Head che, finalmente, si trovano alle prese con del nuovo materiale, musica che andrà a seguire le magie e i successi ottenuti con gli ultimi due lavori in studio, “The Blackening” e “Unto The Locust”: “Bloodstone & Diamonds” è previsto su Nuclear Blast per il 7 novembre ma, nonostante sia quasi ora, la band di Oakland sceglie di non anticipare nulla al monolitico pubblico accorso per gli headliner di giornata, se non le tracce già edite e contenute nel singolo “Killers & Kings”. Con il nuovo bassista Jared MacEachern in sostituzione dello storico Adam Duce, Flynn e soci non si fanno attendere molto dal finale in crescendo degli Hypocrisy e, dopo il doveroso intro atmosferico, è la colossale “Imperium” a deflagrare in tutta la sua potenza: uno dei brani migliori in assoluto scritti dai Machine Head, lanciato a mille contro le migliaia di teste e braccia ondeggianti sotto il palco. I suoni sono già buoni e Robb Flynn stasera pare decisamente gasato. La setlist, come potete vedere qui sotto, è ottimale, con un bel saliscendi lungo tutta la discografia della band, senza neanche tralasciare i due ‘dischi dello scandalo’, “The Burning Red” e “Supercharger”, mai rinnegati dalla formazione ma anche riconosciuti come i meno ispirati della sua carriera, dai quali vengono tratte “The Blood, The Sweat, The Tears” e “Bulldozer”. Proprio al termine della prima, il cielo, ormai buio e insondabile, evidentemente si è ripopolato di nubi temporalesche, e quindi ecco la successiva “Ten Ton Hammer” suonata sotto un breve diluvio di qualche minuto. L’audience si puntella di k-way, poncho e mantelline di svariati colori, ma chiaramente nessuno rifugge dall’area festival, tanto più che Robb introduce “Darkness Within” con una lunga e sentita filippica. Le canzoni dei Machine Head, si sa, sono lunghe e impegnative, soprattutto quelle estratte da “The Blackening”, che paiono davvero le più apprezzate, fors’anche di più dell’accoppiata “Davidian”/“Old” tratta dall’esordio “Burn My Eyes”: “Aesthetics Of Hate”, il pezzo dedicato alla memoria di Dimebag Darrell, e “Halo” non fanno nessun prigioniero e vengono eseguite con un trasporto tangibile. Quasi ingiudicabile, se non con un ‘ha fatto il suo’, la prova di MacEachern, per niente intimorito dalla numerosa ed esigente platea ai suoi piedi, mentre Phil Demmel e Dave McClain sono state le solite macchine di precisione. E’ passata piuttosto inosservata “Killers & Kings”, che, davanti a tutto il repertorio sciorinato dai Machine Head durante la serata, non poteva pretendere più di tanta attenzione; piacevole, invece, l’esecuzione della cover degli Ignite, “Our Darkest Days/Bleeding”, cantata in duetto proprio con Zoli Teglas, vocalist della hardcore band esibitasi nel pomeriggio. Una scenografia imponente ma non esagerata, ottimi giochi di luce, fiammate e spari di fumo hanno completato uno show molto ben orchestrato e gestito da una formazione ormai degna di prendere il posto dei vecchi big della scena metallica mondiale. ‘Let freedom’ ring with a shotgun blast’. E ora li aspettiamo su disco!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Imperium
Beautiful Mourning
Locust
The Blood, The Sweat, The Tears
Ten Ton Hammer
Darkness Within
Bulldozer
Killers & Kings
Davidian
Aesthetics Of Hate
Old
Our Darkest Days/Bleeding (cover Ignite)
Halo
DEVIN TOWNSEND
Dopo le rasoiate chirurgiche dei Carcass, gli atterraggi di navi aliene degli Hypocrisy e i belluini sfoghi di rabbia dei Machine Head, giungiamo quasi a fine giornata con un’insana voglia di pace e tranquillità, fornitaci comunque in chiave metal. E allora…chi meglio del nuovo Devin Townsend, purificato (un bene? Un male? Decidete voi) dagli eccessi industriali degli Strapping Young Lad e rinato a nuova vita con il suo Project, può ritenersi abile e arruolato per questa missione? Già mentre i Machine Head stanno sparando le loro ultime cartucce, basta girare di 60° la testa per gustarsi le ridicole immagini/fotografie che si susseguono sul video-telone del Pain Stage, palco atto ad ospitare il ridotto show dell’istrionico musicista canadese: fermi-immagine talmente surreali e auto-ironici da non poter almeno sorridere davanti alla fantasia impressaci dentro. Grazie ad una band superlativa alle sue dipendenze e alla presenza annunciata e quasi costante di Anneke Van Giersbergen, l’ora di tempo a disposizione per Devin – un’ora peraltro fredda, umida e non molto meteorologicamente piacevole – si rivela ottima ed appagante. Ovviamente non sono presenti molte trovate che solitamente compaiono durante gli spettacoli di Townsend, il pupazzone di Ziltoid per primo, quindi si cerca di far parlare la musica e darle il maggior peso possibile, divagando senza pensieri tra i meandri, ormai quasi indefinibili, della carriera del Genio di Vancouver. I duetti con Anneke sono perfetti, l’intesa fra i due è eccezionale, in quanto non è certamente facile per loro venirsi incontro, abituati come sono a ricevere le principali attenzioni e ad essere costantemente il fulcro dei propri progetti: la Van Giersbergen si mantiene alla destra di Devin, senza mai dare l’impressione di travalicare il suo partner, ma comunque catalizzando diversi sguardi e fornendo presenza di spessore e qualità – come non spellarsi le mani sulla potenza enfatica di “Grace”, difatti? Townsend, invece, adora giocarci assieme e stuzzicarla chiamandola ‘Annie’, come fossero due amici d’infanzia ritrovatisi dopo anni, senza però abbandonare di un passo la sua posizione microfonata e restando in-front-of al pubblico per regalare smorfie, gesti ed espressioni deliranti… La chiosa danzereccia e trascinante di “Bad Devil” ha trasformato la platea infreddolita in una divertita congrega filo-discotecara, per porre fine ad uno degli spettacoli più genuini e allegri che abbiamo seguito quest’anno al Summer Breeze. E anche per Devin, del resto, l’appuntamento con i dischi da studio è molto vicino! Ti aspettiamo, folle.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Seventh Wave
War
Regulator
Deadhead
Numbered!
Supercrush!
Kingdom
Juular
Grace
Bad Devil
INSOMNIUM
Ancora fradici per l’acquazzone scoppiato durante i Machine Head troviamo rifugio nel tendone per un’ora di sano death metal melodico e sognante made in Finland. Il loro nuovo “Shadows Of The Sun” è candidato ad un posto nella Top Ten di fine anno di chi scrive e quindi grande è l’attesa di vedere gli Insomnium in azione sul palco. Sulle schioccanti note di basso di “The Primeval Dark”, i quattro scandinavi fanno il loro ingresso on stage e con “While We Sleep” (dall’ultimo album) danno favolosamente il via ad un concerto il cui ricordo ancora emoziona. Coadiuvata da suoni eccellenti ed in evidente stato di grazia, la band non sbaglia un colpo e dopo “Only One Who Waits”, capace di scatenare con i suoi riff strettissimi un’epidemia di headbanging, l’evergreen “Down With The Sun” costituisce il paradigma del gruppo, con le chitarre epico-malinconiche di Ville Friman e Markus Vanhala che adornano il lavoro di growl del bassista Niilo Sevänen con passaggi ricchi di armonia e groove. Perfettamente inquadrati nel genere che accoglie gente come Dark Tranquillity ed Amorphis, cui pure tante volte sono stati accostati, con canzoni come “Unsung” (dal precedente “One For Sorrow”) o “Ephemeral” gli Insomnium riescono a suonare sempre originali e freschi, a differenza di tanti altri, donando linfa vitale ad un genere che negli anni Duemila è, secondo i trend, un po’ passato di moda. La semi-ballad “The Promethean Song” costituisce il picco più alto dello show (nonostante il cantato pulito di Friman sia leggermente più basso rispetto alla versione in studio), il canto rassegnato dell’Uomo di fronte alla presa di coscienza dei propri limiti. Il finale è affidato alla fulminante doppietta “Drawn To Black”/”Mortal Snare” (da “Above The Weeping World”, 2006) che la platea accoglie con lo stesso calore riservato agli ultimi successi. La crepuscolare “One For Sorrow” è, infine, il sigillo di uno dei concerti più belli ed intensi dell’intero festival.
(Sara Sostini)
Setlist:
The Primeval Dark
While We Sleep
Only One Who Waits
Down With The Sun
Revelation
Unsung
Ephemeral
The Promethean Song
Drawn To Black
Mortal Share
One For Sorrow
SABATO 16 AGOSTO
KAMPFAR
Ai Kampfar spetta l’ingrato compito di esibirsi in pieno giorno sul Pain Stage, senza quindi godere dell’aiuto di ombre e tenebre, ma la loro performance non sembra risentirne più di tanto. Ciò che conta è la musica e per fortuna quella contenuta nei loro dischi è di prima categoria! L’ultimo “Djevelmakt” è stato un vero trionfo di critica e pubblico e non stupisce vedere la band norvegese – guidata come sempre dall’inossidabile Dolk – estremamente carica, convintissima dei propri mezzi e della propria formula a base di black metal epico e solenne. Basta l’iniziale “Mylder” per scaraventarci nel vivo dell’azione, ignorando il Sole che timidamente rischiara l’area concerti per seguire in battaglia il quartetto, sobrio tanto nelle composizioni quanto nelle scenografie e nel vestiario. In barba ai preconcetti che vorrebbero le cosiddette formazioni viking/pagan esibirsi agghindate come pagliacci, i Nostri sfoggiano un look ‘tranquillo’, circondati da drappi sanguigni che richiamano cromaticamente le grafiche degli ultimi album, mentre i suoni sospinti dal vento e dalle casse sono tutt’altro che festaioli o danzerecci. I Kampfar fanno tremendamente sul serio e le loro canzoni, poesie agli antichi popoli del Nord Europa, ci colpiscono al cuore come dardi incandescenti, incalzati dallo screaming del biondocrinito frontman e dai riff intrisi di pathos delle chitarre. Che si tratti di episodi più o meno datati, come “Troll, Død Og Trolldom” o “Our Hounds, Our Legion”, non ha la benchè minima importanza: pelle d’oca e brividi sulla schiena non cessano per un solo istante di manifestarsi. Concerto intensissimo e tra i migliori dell’intera manifestazione.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Mylder
Troll, Død Og Trolldom
Swarm Norvegicus
Vettekult
Ravenheart
Our Hounds, Our Legion
THYRFING
Dal black metal pagano dei norvegesi Kampfar passiamo in men che non si dica al viking metal cadenzato ed epico degli svedesi Thyrfing che, come i loro diretti predecessori su palco, non usufruiscono dell’atmosfera ideale per la loro musica, decisamente più adatta da ascoltare di fronte ad un Sole di mezzanotte infuocato invece che un accrocchio di nuvoloni incerti di primo pomeriggio. La band, ora guidata dallo storico ex-frontman dei Naglfar, Jens Rydén, fra l’altro diventato un bel marcantonio di muscoli e possanza vichinga, esce dalle quinte vestita in pelle nera, a petto nudo e pittata di nero e marrone, in modo da rammentare trucide battaglie tra fanghiglia e cenere: e la musica va chiaramente di pari passo, tra brani in mid-tempo che denotano un’epicità fuori dal comune e sparse accelerazioni un po’ meno incisive e caratterizzanti. I Thyrfing hanno da poco visto l’abbandono del loro tastierista di lunga data, Peter Lof, quindi dal vivo devono ricorrere a delle tastiere campionate che, a causa forse di un volume troppo elevato, stonano un po’ con l’appeal aggressivo e battagliero dei musicisti on stage, che vedono in Rydén un fiero condottiero e un feroce narratore. Tre quarti d’ora vengono messi a disposizione degli scandinavi e i Nostri li sfruttano scegliendo brani lungo quasi tutta la loro discografia, tralasciando solo il primo omonimo e “Farsotstider”: a metà esibizione, quindi, ecco il salto indietro nel tempo con il terzetto di canzoni tratte da “Valdr Galga” e “Urkraft”, rispondenti ai nomi di “Mjolner”, “Sweoland Conqueror” e “Storms Of Asgard”. Poco spazio per l’ultimo nato “De Odeslosa”, ormai datato 2013, rappresentato dall’iniziale “Mot Helgrind” e dalla penultima “Veners Forfall”. Buona/ottima prestazione per i Thyrfing, insomma, una delle formazioni più longeve in campo viking/pagan/black metal, e allo stesso tempo fra le più spesso dimenticate. Bravissimi.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Mot Helgrind
The Voyager
Griftefrid
Mjolner
Sweoland Conqueror
Storms Of Asgard
Veners Forfall
Kaos Aterkomst
IMPERIUM DEKADENZ
Alle 15.45 in punto, la truppa redazionale di Metalitalia.com, in quest’ultimo giorno di Summer Breeze, pianta chiodi e tende sotto il tendone (scusate la ripetizione) del T-Stage e programma una permanenza di qualche oretta: nell’ordine, infatti, si esibiranno Imperium Dekadenz, Rotting Christ, Septicflesh, Impaled Nazarene e Hail Of Bullets; a parte i pazzoidi finlandesi, già visionati al Metalitalia.com Festival di quest’anno subito prima degli At The Gates, si tratta di performance di alto livello da seguire tutte con passione. Si inizia con i tedeschi Imperium Dekadenz, che con gli ultimi lavori, “Procella Vadens” e l’ottimo “Meadows Of Nostalgia”, si sono segnalati fra i gruppi emergenti del black metal melodico-malinconico e atmosferico. Con pochi svolazzi, pochissime smancerie e un’attitudine fieramente, ma non pacchianamente, ‘true’, il duo Horaz-Vespasian, accompagnato on stage dai musicisti live, si presenta al pubblico del festival in sordina, con un’esecuzione buona ma non esaltante di “Der Dolch Im Gewande”. Come tutte le band di casa, anche i Nostri si rivolgono all’audience in lingua madre, limitando di parecchio, per noi poveri analfabeti, la comprensione degli scambi di battute fra un brano e l’altro. Durante uno show degli Imperium Dekadenz, comunque, interessano davvero poco le chiacchiere, molto meglio certamente immergersi nelle melodie crepuscolari delle lunghe tracce, che con “Aue Der Nostalgie” raggiungono quasi l’apice. Gli Imperium Dekadenz, pur non richiamando enormi frotte di metaller, sanno come ipnotizzare gli avventori senza tanti effetti speciali e, oltretutto, suonando in pieno giorno: la potente “Striga” e “Tranen Des Bacchus” hanno terminato, infatti, una performance di tutto rispetto, che sapevamo in partenza non ci avrebbe deluso!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Intro
Der Dolch Im Gewande
Aue Der Nostalgie
Schwarze Walder
Reich Der Fahlen Seelen
Striga
Tranen Des Bacchus
ROTTING CHRIST
Inutile negare l’evidenza: abbiamo aspettato tre giorni quasi solo per il momento in cui, sulle assi del T-Stage, si sarebbero esibite in successione due Divinità del panorama metal ellenico. Ora è il turno degli alfieri del black metal mediterraneo che, sulle note di “χξς” (in sostituzione dell’epica “Returns A King” di Tyler Bates, soundtrack del film “300”), fa il proprio ingresso sul palco. “P’unchaw Kachun-Tuta Kachun” non evoca suggestivi paesaggi nordici e freddi ghiacciai bensì gli aridi rilievi del Peloponneso e la polvere di antiche battaglie; neanche il tempo di respirare ed il quartetto chiama alle armi ed all’immortalità cantata dagli Aedi con quell'”Athanati Este” che ha fatto storia. Sono incredibili l’energia e la potenza sprigionate dagli strumenti della falange capitanata da uno scatenatissimo Sakis Tolis, che tra un riff e l’altro assume pose ora sacerdotali ora belliche. I suoni affilati, duri, aspri della combo d’asce Tolis-Emmanuel-Karzis, sostenuti dalla batteria marziale e tiratissima di Themis Tolis, fa strage nel pit durante l’esecuzione di “Κατά τον δαίμονα εαυτού”. In rapidissima, fulminea successione vengono date in pasto al pubblico, oramai preda di una ferina estasi bacchica, la luciferina “The Sign Of Evil Existence”, “Transform All Suffering Into Plagues” e la cover dei Thou Art Lord “Societas Satanas”, perle del repertorio old-school della band. Il Tartaro si spalanca sotto i nostri piedi e le malefiche note di “In Yumen-Xibalba” ci trascinano come antiche divinità Ctonie nella desolazione infernale. Notiamo come i cambi di formazione degli scorsi anni non abbiano minimamente intaccato le prestazioni dei Rotting Christ ma, anzi, ne abbiano accresciuto il potenziale live, anche a livello di interazione con il pubblico, con Vasilis Karzis e George Emmanuel veri e propri agitatori di folle, nonché ottimi coristi. La selvaggia “Noctis Era” miete vittime nelle prime file, dilaniate dal pogo come Penteo dalle Baccanti. Il dissacrante nome dei Rotting Christ è da sempre garanzia di qualità e questo ennesimo live non fa che confermarlo. Efcharistò.
(Sara Sostini)
Setlist:
χξς
P’unchaw Kachun-Tuta Kachun
Athanati Este
Κατά τον δαίμονα εαυτού
The Sign Of Evil Existence
Transform All Suffering Into Plagues
Societas Satanas (cover Thou Art Lord)
In Yumen-Xibalba
Noctis Era
SEPTICFLESH
Rapido cambio-palco, via i gargoyle e dentro l’esoterismo quasi bionico dell’altra formazione greca, i Septicflesh, condensato in giganteschi pannelli ritraenti la morfologia del Titano che dà il nome alla loro ultima fatica. Chi non li ha mai visti live (ed effettivamente in Italia le occasioni non sono affatto numerose) non può neanche immaginare la carica devastante che abbiano i loro pezzi dal vivo, con uno Spiros Antoniou (in arte Seth Siro Anton) novello Ares, statuario (con il suo costume di scena raffigurante ciclopici fasci di muscoli, declinati variamente anche negli abiti degli altri musicisti) e portatore di violenza. Tutto è curato nei minimi dettagli, dai già citati abiti di scena alla tentacolare asta del microfono del baffuto leader, dalla splendida scenografia (sempre ad opera di quest’ultimo) finanche ai gesti di ciascun musicista. Quarantacinque minuti di cerimoniale mistico-occulto, cominciato solennemente con “The Vampire Of Nazareth” e proseguito con una cadenzata, massacrante “Communion”, che conduce pubblico e musicisti in un parossistico, viscerale vortice di esaltazione. Questi nuovi Septicflesh puntano tutto sulle ultime tre loro fatiche, inanellando uno dopo l’altro veri e propri gioielli di pregiata arte metal-barocca, con la chitarra di Christos Antoniou a cesellare finemente la corazzata batteria di Fotis Bernardo e la cavernosa voce di Seth a chiudere misticamente il cerchio. Essenziali ed al contempo tragici senza mai risultare melodrammatici, i quattro alla loro prima apparizione al Summer Breeze sono dei veri e propri carri armati, non risparmiando neanche un briciolo di energie: le nuove “Order Of Dracul” e “Prototype”, accolte con clamore dal pubblico, dimostrano il divino stato di grazia di questo gruppo, che con il passare degli anni sembra sempre più acquisire ispirazione e vitalità senza incorrere in passi falsi. Certo, chiunque li conosca e li apprezzi avrebbe più che volentieri fatto i salti mortali per sentire dal vivo le parti pulite cantate da Sotiris Vayenas, chitarrista ed autore degli splendidi criptici testi che accompagnano la musica, purtroppo da sempre eminenza grigia del gruppo, dato che la sua presenza live costituisce un fatto più unico che raro. Con una toccante e sentita dedica a Maria ‘Tristessa’ Kolokouri, leader del gruppo black metal greco Astarte, scomparsa poco tempo fa dopo una lunga lotta contro la leucemia, “Anubis” conclude il rituale. Aspettavamo da tanto di poter ammirare i Septicflesh dal vivo e l’attesa è stata amplissimamente ricompensata. Immensi. Colossali. Titanici.
(Sara Sostini)
Setlist:
The Vampire From Nazareth
Communion
A Great Mass Of Death
Order Of Dracul
Pyramid God
Prototype
Persepolis
Anubis
HAIL OF BULLETS
Non conosce ostacoli, né tanto meno limiti alla propria potenza di fuoco, l’armata degli Hail Of Bullets capitanata da Martin van Drunen, il quale è ormai ospite fisso dell’organizzazione del Summer Breeze con i suoi diversi progetti musicali. La fama delle prestazioni live degli olandesi è rinomata e anche questa sera, sul palco del T-Stage, non viene affatto smentita, polverizzando nel giro di quarantacinque minuti il 90% della concorrenza death metal del festival. Sarà per dei suoni ruvidissimi e calibrati alla perfezione, sarà per una voce inconfondibile che trasmette brividi ad ogni passaggio, sarà per una delle migliori miscele old-school dell’ultimo decennio, sta di fatto che al deflagrare dell’opener “Swoop Of The Falcon” non ci vediamo più dall’esaltazione. Impossibile resistere alla carica del brano, che nel frattempo avanza a mo’ di panzer tra la folla stritolando tutto e tutti con i suoi cingoli arroventati: ci lanciamo subito nel più sfrenato e spezzacollo degli headbanging, completamente calati nel mood da demolizione totale della performance e desiderosi di ricevere altre mazzate. Mazzate che non tardano ad arrivare, ovviamente, come dimostrato dalle cataclismatiche “General Winter”, “On Coral Shores” o dal medley “Tokyo Napalm Holocaust”/“Advancing One More”, che tra ritmiche pesantissime, melodie epiche e testi strazianti porta il livello di drammaticità della performance su picchi vertiginosi. Conclusione affidata ad “Ordered Eastward” e tutti a casa: per gli Hail Of Bullets quello di stasera è stato l’ennesimo trionfo.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
Swoop Of The Falcon
Operation Z
General Winter
DG-7
On Coral Shores
Red Wolves Of Stalin
Tokyo Napalm Holocaust/Advancing One More
Ordered Eastward
HEAVEN SHALL BURN
Resuscitiamo finalmente dalla tenda dopo la scorpacciata di musica estrema a cui ci siamo sottoposti mentre nei palchi principali si succedevano i vari Tarja, Mono Inc. e In Extremo. E non appena terminano i Wintersun, eccoci pronti per l’appuntamento con l’headlining show finale del 2014 sul Main Stage: ben due anni di assenza dal Summer Breeze per gli eroi casalinghi Heaven Shall Burn e chiaramente il loro ritorno deve essere di quelli importanti, da veri big dell’heavy metal (sapete bene che, pur non riscuotendo un successo esagerato all’estero, in patria la band è letteralmente idolatrata)! Reduci dallo show di Wacken, gli HSB propongono una scenografia completamente diversa da quella del 2011, quando ebbero a disposizione giganti luci al neon e un design scenografico ultra-moderno; l’impatto visivo del 2014, invece, è tutto all’opposto, con un gran campo di battaglia simulato on stage, con tanto di filo spinato. Fiammate e scariche di fumo bianco al cielo si alterneranno durante tutta l’ora e mezza di concerto della warmachine teutonica, che con l’ultimo “Veto” ha cercato di ri-imboccare un sentiero più melodicamente death, a seguito della staticità compositiva udibile sui precedenti “Iconoclast” e “Invictus”. Si parte non esattamente bene, purtroppo, con l’apertura affidata a “Counterweight”, quasi irriconoscibile a causa di chitarre settate malissimo e suoni complessivamente deficitari. Ci vogliono almeno un altro paio di pezzi, stranamente, affinché la situazione migliori del tutto e si stabilizzi, con una pressante “Combat” che cede il passo ad uno degli highlight della setlist della band, quella “Voice Of The Voiceless” che nel 2008 riuscì a generare un circle-pit di svariati metri quadrati. Marcus Bischoff ha ancora tutta la voce che gli compete e, andando in là con gli anni, ha preso anche a parlare veramente tanto tra una canzone e l’altra: conoscendo l’attitudine e lo spirito hardcore dei ragazzi, così come il loro comportamento politically correct, immaginiamo quali parole possa pronunciare il vocalist arringando la folla, ma anche in questa sede ci teniamo a rimarcare come sarebbe bello se la lingua utilizzata fosse l’inglese, anche solo per qualche battuta. Si fa un breve (ma salutare) salto nel passato – epoca “Whatever It May Take” – con l’accoppiata “The Martyr’s Blood”/”Behind A Wall Of Silence”, quest’ultimo tutt’oggi uno dei brani più acclamati del combo. E’ poi la volta della nuova ed esaltante “Godiva”, prima di far terminare la prima parte di show alla cover di “Black Tears” degli Edge Of Sanity, ormai cavallo di battaglia degli HSB. I quali, ahiloro, non avrebbero in realtà bisogno di ricorrere a questi ‘trucchetti’ per aumentare l’appeal delle loro song; ma fatto sta che adesso esiste anche “Valhalla”, contenuta in “Veto”, a rimpinguare il reparto cover di Maik Weichert e compari, che usano la traccia dei Blind Guardian come ultimo bis disponibile, in mezzo ad un tripudio generale di cori e boati. Corposissimo, comunque, il bis dei Nostri, decollato con il dolce intro “Awoken” ed esploso in volo con l’apocalittica “Endzeit”, cantata a squarciagola da tutti i presenti. Un po’ sottotono “The Disease” e “Trespassing The Shores Of Your World”, mentre ottimo riscontro ha ottenuto la solita “The Weapon They Fear”. Dalla nostra postazione leggermente defilata, ma piuttosto vicina al palco, non abbiamo osservato moltissimo movimento di fan, nonostante le pozze di pit davanti e dietro a noi abbiano avuto il loro bel daffare; qualche crowd-surfer da prendere per gli anfibi e da mandare avanti, ma poi poco più. Ottima performance per gli Heaven Shall Burn, nonostante l’inizio preoccupante: ormai gli ex-tedeschi orientali sono più di una sicurezza e il Main Stage può congedarsi dagli astanti a testa alta!
(Marco Gallarati)
Setlist:
Intro
Counterweight
Land Of The Upright Ones
The Omen
Combat
Voice Of The Voiceless
Hunters Will Be Hunted
The Martyrs’ Blood
Behind A Wall Of Silence
Godiva
Black Tears
Awoken
Endzeit
Die Sturme Rufen Dich
Of No Avail
The Weapon They Fear
The Disease
Trespassing The Shores Of Your World
Valhalla
WATAIN
L’atmosfera di complicità degli headliner Heaven Shall Burn si dissolve in un istante non appena sul Pain Stage vanno in scena i Signori del black metal svedese Watain, attesissimi dalla frangia più estrema e morbosa del pubblico. In molti negli ultimi mesi hanno accusato la band di Uppsala di essersi venduta, di essere scesa a patti con le esigenze di mercato in virtù di un sound che mai quanto nell’ultimo disco – l’eccezionale “The Wild Hunt” – si è concesso a melodie e trame ariose, allontanandosi dal sentiero percorso per anni al fianco del Maligno… Ebbene, sfidiamo tutti costoro a mettere in discussione la pericolosità e la filosofia satanica del quintetto a fronte di una performance come quella di stasera, ennesima dimostrazione del talento che arde nel cuore nero di questi musicisti. Lo storico chitarrista Pelle Forsberg non è presente, costretto in ospedale per un infortunio, e la sua postazione viene momentaneamente occupata dallo spettrale frontman dei Degial H. Death, ma le differenze rispetto allo spettacolo dello scorso marzo a Romagnano Sesia – occasione in cui i Watain ci lasciarono a bocca aperta – finiscono qui: lo stage assume le sembianze di un girone dantesco, con tridenti dati alle fiamme, pannelli ricoperti di simbologie diaboliche e tutto ciò che serve per catapultare la platea all’Inferno, mentre la partenza è ancora una volta affidata a “De Profundis”, brano dalle tinte black/death perfetto per calibrare al meglio i suoni e scaldare la voce del leader maximo Erik Danielsson. Cinque minuti che gelano letteralmente il sangue nelle vene dei presenti, con la formazione scandinava che a questo punto può già reclamare la corona di band migliore del festival. Dite che stiamo esagerando? Noi non crediamo, almeno a giudicare dalla resa del resto della setlist, la cui sola pecca è quella di non attingere dal repertorio necrofilo di “Rabid Death’s Curse” e “Casus Luciferi”, per invece concentrarsi sugli ultimi tre dischi. Poco male comunque, visto che le varie “Stellarvore”, suite che ricorda i Dissection in versione macabra e rallentata, e “The Wild Hunt”, intarsiata di cori e melodie da brividi, non mancano di emozionarci come sempre più difficilmente capita ad un concerto. Arrivederci Summer Breeze, alla prossima.
(Giacomo Slongo)
Setlist:
De Profundis
Black Flames March
Malfeitor
Outlaw
Reaping Death
Stellarvore
The Wild Hunt
BIOHAZARD
E mentre gli angoscianti Watain danno alle fiamme il Pain Stage, nel T-Stage succede tutt’altro grazie alla prima volta in assoluto – se ricordiamo bene – dei Biohazard al Summer Breeze. I newyorchesi di Brooklyn non hanno esattamente bisogno di presentazioni, effettuano un sound-check accurato e si presentano all’appello con quasi un ugual numero di roadie e strumentazione! Billy Graziadei è letteralmente indemoniato, addirittura ci vogliono due personaggi per stargli dietro lungo le sue scorribande su, giù, a destra, a sinistra del palco e fra il pubblico; ad ogni momento pare sul punto di cadere o perdersi il jack della chitarra, ma l’esperienza la sa lunga ed il frontman fornisce uno spettacolo a parte. Danny Schuler alla batteria e il redivivo Bobby Hambel alla seconda chitarra sono due sicurezze, per attitudine, scioltezza e bravura. Il secondo, sebbene molto più statico di Graziadei, dà il suo contributo in sede di presenza scenica esattamente come il ‘nuovo’ Scott Roberts, che si rivela un degnissimo sostituto di Evan Seinfeld sia a livello tecnico-vocale (molto somigliante, del resto, il suo vocalismo con quello dell’iper-tatuato pornoattore), sia come entertainer – al solo pensiero di suonare il basso girando come una trottola per diversi secondi, ci è venuto un blocco cervicale… La setlist, apprezzatissima dai tanti accorsi – anche se non tantissimi per un così importante pezzo di storia del metal alternativo – è stata fenomenale, con brani tratti solo dai primi tre album, l’omonimo, “Urban Discipline” e “State Of The World Address”. Si arriva alla fine con la cover di “We’re Only Gonna Die” dei Bad Religion e, magia, iniziano a salire sul palco decine di fan che assediano letteralmente i musicisti a ridosso dei microfoni e delle spie. Non contenti di aver assistito a ciò, ci tocca ovviamente testimoniare anche alla seguente e monolitica “Punishment”, mentre almeno un centinaio di persone sono sullo stage a saltellare, scapocciare, fare corna e crowd-surfing come non ci fosse un domani. Ed in effetti un domani, per il Summer Breeze 2014, non ci sarà, essendo giunto praticamente alla fine. Epici Biohazard e noi, probabilmente, non potevamo chiudere il festival e questo report in maniera migliore, con un’orgia di arti umani a dimenarsi su di un palco, stregati dal dinamismo e dal coinvolgimento di un combo che ha fatto la Storia.
(Marco Gallarati)
Setlist:
Shades Of Grey
What Makes Us Tick
Urban Discipline
Survival Of The Fittest
Wrong Side Of The Tracks
Down For Life
Tales From The Hard Side
Howard Beach
Black And White And Red All Over
Victory
We’re Only Gonna Die (From Our Own Arrogance) (cover Bad Religion)
Punishment