Introduzione e report a cura di Roberto Guerra
Fotografie copyright del Summer Breeze Open Air
Concludiamo questa estate metallica parlando finalmente della ventunesima edizione del Summer Breeze Open Air: si tratta senza dubbio di un evento tra i più famosi a livello europeo e mondiale per quanto riguarda le sonorità rock e metal a 360 gradi, e ciò si può identificare anche osservando la variegata e sfaccettata line-up, presente in bella vista sui moltissimi manifesti e banner che si sono potuti visualizzare online nelle settimane precedenti; ovviamente senza dimenticare che un festival non è solo musica, ma anche aggregazione e voglia di fare festa in compagnia, bevendo birra e spendendo denaro sonante nei numerosi stand adibiti alla vendita di merchandise vario. Sono ben quattro le giornate in programma, con una prima carrellata che funge quasi da riscaldamento, in attesa dell’inaugurazione dei main stage prevista per il giovedì mattina. In questo Ferragosto di prologo, almeno per quanto riguarda noi, sono le sonorità classiche a destare il maggior interesse, con un paio di realtà recenti, seppur dal sapore old-school, affiancate naturalmente a band di tutto rispetto e con una carriera tutt’altro che breve alle proprie spalle, in grado di far venire l’acquolina in bocca agli estimatori del metal sia estremo che tradizionale. Scritto ciò, ringraziamo l’organizzazione e vi auguriamo una piacevole lettura, ricordandovi che siamo solo all’inizio!
MONUMENT
Sotto la tettoia che ospita il Camel Stage siamo pronti ad inaugurare quest’edizione 2018 del Summer Breeze Open Air in compagnia di una giovane band londinese, dedita a una proposta a base di purissimo metallo britannico di chiara ispirazione maideniana, come ben si può identificare dalla iniziale “Hellhound”, title-track dell’ultimo riuscitissimo album, grazie al quale i Monument hanno decisamente iniziato a entrare nelle grazie di un numero imprecisato di ascoltatori affezionati alle proposte più classiche. Il songwriting, seppur inevitabilmente un po’ derivativo, è infatti curato in maniera certosina, e dal vivo pezzi del calibro di “Carry On”, “Wheels Of Steel” e “Olympus” riescono a convincere e coinvolgere ulteriormente, anche grazie a una presenza scenica scoppiettante e ricca di spunti per favorire l’intrattenimento di un pubblico che, tuttavia, sembra più interessato alle proposte più moderne e inflazionate, piuttosto che a qualcosa di così classico e, a tratti, amarcord. Ciò nonostante, il coinvolgimento non manca e questi cinque leoni lungocriniti appaiono visibilmente divertiti e soddisfatti di quanto realizzato quest’oggi, toccando l’apice verso la fine con le epiche “Attila” e “Lionheart”, prima di salutare e congedarsi con la consapevolezza di aver aperto degnamente le danze a un evento di tale portata. Come diciamo sempre, il classic heavy metal non ci stanca mai e gruppi del genere non possono che essere apprezzati, almeno fin quando tengono concerti così divertenti e adeguatamente ‘tamarri’. Inoltre, invitiamo chiunque sappia dove il cantante Peter Ellis si sia fatto fare quella fantastica giacca a dirlo immediatamente a chi vi sta scrivendo.
THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA
Poche band negli ultimi anni sono riuscite a sorprenderci come il bizzarro progetto melodic rock/AOR messo in piedi da Bjorn Strid e compagni; in particolare gli ultimi due album, editi presso la sempre verde Nuclear Blast Records, sono riusciti davvero a scuotere un mercato che, evidentemente, non si aspettava di poter udire qualcosa di così particolare da dei musicisti divenuti comunque famosi grazie alla loro militanza in band metal anche relativamente estreme. Il sopracitato vocalist fa capolino sul T Stage con addosso un appariscente abito viola, accompagnato da una band altrettanto calata nella parte, sia che si tratti del vestiario, sia per quanto riguarda gli strumenti e le movenze on stage, seppur non manchi quel tocco moderno in grado di rendere ancora più personale la proposta della Night Flight Orchestra. L’apertura con “This Time” viene inizialmente penalizzata da dei suoni non ben equalizzati, che tuttavia migliorano procedendo con le varie “Turn To Miami” e “Living For The Nighttime”, unico estratto dal secondo e poco conosciuto album antecedente il passaggio a Nuclear Blast. Inutile dire che questi poliedrici musicisti riescono davvero a intrattenere al meglio delle loro possibilità, trasportandoci quasi indietro di trent’anni su un aereo pieno di luci scintillanti nella notte, nonostante si sia ancora in pieno pomeriggio. L’accoppiata “Something Mysterious” e “Gemini” viene cantata a gran voce, precedendo la conclusione affidata invece alle più recenti “Lovers In The Rain” e “Paralyzed”, dopo la quale l’entusiasmo e i sorrisi la fanno da padrone, con la consapevolezza di aver assistito a un concerto tanto divertente quanto nostalgico per certi versi, ma non per questo meno attuale. Unica pecca, oltre a dei suoni inizialmente un po’ problematici, un’atmosfera che avrebbe giovato decisamente di un orario più tardo e meno luminoso, in grado di permettere alla band di esprimere tutto il proprio potenziale visivo, oltre che musicale.
KATAKLYSM
Ora passiamo dalle melodie danzabili alla violenza musicale più massiccia e fomentante, in compagnia dei canadesi Kataklysm e del vocalist nostrano Maurizio Iacono. Nonostante faccia ancora relativamente caldo, il moshpit si impossessa immediatamente dei presenti, sollevando un visibile polverone in concomitanza di mazzate musicali come la iniziale “Like Angels Weeping (The Dark)” o le più datate “As I Slither” e “In Shadows & Dust”, il cui titolo ben si adatta a una problematica che sarà identificabile durante gran parte dell’intero evento: per l’appunto, la polvere. La sezione ritmica dei Kataklysm è come sempre una vera e propria garanzia, così come il carisma indiscusso del buon Maurizio dietro al microfono, che ruggisce in growl con tutta la rabbia che ha in corpo fino a un finale che pare giungere anche troppo presto, trattandosi di sole nove canzoni, di cui purtroppo nessuna proveniente dal sottovalutato periodo di fine anni ’90. A parte ciò, non ci sono poi molti difetti da identificare nel concerto dei Kataklysm, che si chiude con la recente “The World Is A Dying Insect” tra gli applausi e le ovazioni di un pubblico che ha già iniziato a procurarsi i primi lividi, come ben si addice a un concerto death metal con le palle. Trattandosi di un genere che non mancherà durante i quattro giorni di festival, siamo certi che ci saranno numerose altre occasioni per buttarsi un po’ nella mischia.
RAM
Nel frattempo è effettivamente giunta la sera, il caldo è finalmente calato e noi abbiamo nuovamente voglia di una sana dose di metallo suonato alla vecchia maniera: in questo caso, mettiamo da parte l’atmosfera tutto sommato solare evocata dai britannici Monument e ci dirigiamo verso un clima più cruento e martellante con gli svedesi Ram. Borchie, catene e pelle nera rappresentano la presentazione principale per un’altra apprezzata realtà old-school, seppur comunque relativamente recente; i cinque defender scandinavi tengono da subito il palco con tutta la tamarraggine e la serietà che da sempre li contraddistinguono, intonando melodie apocalittiche e metalliche su brani veloci come “Flames Of The Tyrants” e “On Wings Of No Return”, senza trascurare estratti più cadenzati e martellanti quali “Usurper” e “Gulag”. A livello esecutivo siamo ancora una volta su livelli piuttosto alti, anche se a volte sembra quasi che l’attitudine, a tratti un po’ stereotipata, dei Ram, in particolare del corpulento vocalist Oscar Carlquist, non si sposi proprio alla perfezione con l’atmosfera più goliardica e variegata di un evento come il Summer Breeze, in cui comunque la voglia di divertirsi e di gustare buona musica, senza curarsi più di tanto del filone di appartenenza, la fa decisamente da padrone. Resta comunque il fatto che, anche a ‘sto giro, il pubblico sembra apprezzare lo show, che viene portato a casa con tutta la professionalità del caso dopo aver stimolato tanto sano headbanging a svariati presenti.
SEPULTURA
Quando si parla dei brasiliani Sepultura, ultimamente, la situazione è sempre bene o male la stessa: la violenza e la voglia di buttarsi nuovamente nella mischia, come dicevamo poco fa, non mancano, anche se permane quel solito senso di amarezza e di incompiuto nel momento in cui si ha a che fare con una scaletta fortemente e inevitabilmente incentrata su una parte della discografia che decisamente non è quella che preferiamo. Con questo non vogliamo gettare fango sulle capacità di Derrick Green come frontman, né su quelle di Andreas Kisser come chitarrista, ma esistono casi in cui è impossibile mettere da parte i gusti personali, anche se è innegabile che ci sia una certa oggettività di fondo nel ritenere l’attuale incarnazione dei Sepultura quasi un’ombra di un passato glorioso. Non per niente la situazione migliora solo verso la fine, grazie all’inserimento in scaletta di inni del calibro di “Desperate Cry” e “Arise”, che rappresentano decisamente i picchi più alti raggiunti dall’esibizione odierna, pur con tutto l’affetto per le varie e immancabili “Refuse/Resist”, “Ratamahatta” e “Roots Bloody Roots”, che nel bene e nel male sono divenute un marchio di fabbrica per la band brasiliana più famosa al mondo. Insomma, poco altro da dire, i Sepultura attuali – ahinoi – sono quello che sono, e purtroppo non riescono a rappresentare altro se non un piacevole pretesto per sfogarsi un po’ nel pogo, senza l’esaltazione necessaria a farci promuovere un concerto che, come al solito, non sa poi di tanto.
WARBRINGER
Decisamente migliore la situazione con gli americani Warbringer, dediti tuttavia a una proposta di genere thrash metal decisamente più influenzata dalle sonorità europee, con quindi la giusta dose di essenza grezza e ulteriormente violenta per la gioia di ogni thrasher presente nel pubblico. La prima metà della setlist è incentrata tutta sull’ultimo violentissimo full-length “Woe To The Vanquished” e sul singolo “Power Unsurpassed”, rilasciato proprio negli stessi giorni del festival e proposto in anteprima davanti a noi fortunati spettatori. La seconda parte dello show pesca invece più indietro, estraendo a ritroso un brano da ciascuno dei primi quattro lavori in studio prodotti dalla band, culminando nel finale con la famosissima e apprezzata “Combat Shock”, durante la quale la nuvola di polvere accumulatasi sotto la tettoia si fa ancora più densa, dando anche più di qualche difficoltà a respirare a svariati presenti nel pubblico, ma non influenzando la performance grintosa di John Kevill e soci, visibilmente divertiti e più che soddisfatti del risultato ottenuto grazie anche a dei suoni rocciosi e ben settati, oltre ovviamente alla ben nota presenza scenica che da sempre arricchisce gli show dei cinque thrasher statunitensi. Un applauso è quindi più che meritato, prima di andare a rifocillarsi prima degli ultimi atti di questa prima giornata di riscaldamento, che tuttavia ci ha già fatto faticare parecchio.
PARADISE LOST
Prima di partire per gli Stati Uniti e il Sud America, i britannici Paradise Lost fanno tappa al Summer Breeze Open Air 2018 per proporre un’oretta lugubre e suggestiva a base del loro noto gothic metal, divenuto popolare negli anni per una folta schiera di ascoltatori, di cui molti già schierati in prossimità del T Stage. L’apertura è affidata alla recente “No Hope In Sight”, seguita a ruota da “Blood And Chaos”, prima di fare un balzo indietro con “Mouth”; in generale, la setlist si compone principalmente di estratti provenienti dal periodo post-2000, anche se non mancano alcune deviazioni negli anni ’90, grazie a “Forever Failure” e al trittico finale a base di “Shadowkings”, “As I Die” e “Say Just Words”. Musicalmente la tipica atmosfera dei Paradise Lost viene evocata magnificamente grazie al contributo di quattro musicisti che sono ancora insieme dopo trent’anni esatti dalla formazione, con in più le sapienti mani di Waltteri Vayrynen dietro le pelli a sorreggere una sezione ritmica perlopiù cadenzata. Nick Holmes fornisce una prova maiuscola al microfono col suo timbro profondo ancora come una volta; il fatto che il sole sia già tramontato permette inoltre alla band di esibirsi col favore delle tenebre, come ben si addice a una proposta così oscura e malinconica. A concerto finito ci dirigiamo nuovamente verso il Camel Stage, senza scordarci che tra pochi giorni il sopracitato frontman sarà di nuovo protagonista, seppur con una veste del tutto diversa e insanguinata.
PILLORIAN
Il progetto guidato dalla mente del buon John Haughm, ex frontman dei ben più famosi Agalloch, esordisce sul Camel Stage, sfoderando da subito tutta l’oscura cattiveria che da sempre contraddistingue il genere trattato. Si inizia sulle note di “Archaen Divinity”, seconda traccia dell’unico full-length “Obsidian Arc”, uscito appena un anno fa sul mercato e accolto con ammirevole entusiasmo da parte di pubblico e critica specializzata, soprattutto per quanto riguarda l’atmosfera macabra perfettamente valorizzata e arricchita da delle fasi in cui l’headbanging prende il sopravvento. Dal vivo, così come su disco, le capacità compositive di John si percepiscono alla perfezione, arricchite dalle sue doti di frontman in grado di interpretare al meglio una setlist piuttosto breve ma anche evocativa e carica di malvagità, soprattutto grazie alle inquietanti melodie partorite dall’accoppiata di chitarre. Gli appassionati di black metal possono davvero godere durante lo show dei Pillorian, che, per quanto non raggiungano i fasti toccati dagli Agalloch negli anni precedenti, è comunque innegabile che siano in grado di incarnare tutto ciò che i fan hanno da sempre apprezzato del musicista statunitense e dei suoi compagni. Ora è tempo di prendersi una pausa, poiché è ormai ben chiaro che fino alle tre di notte non ci sarà spazio per il sonno e la debolezza.
ROSS THE BOSS
Dopo aver staccato per un po’, è arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e sollevare le braccia al cielo, perché sul T Stage sta per piovere acciaio rovente grazie al buon Ross Friedman, alias Ross The Boss! Sui primi rintocchi di “Blood Of The Kings” ci dimentichiamo immediatamente del fatto che siamo svegli da quasi venti ore, e lo stesso accade con le successive “Death Tone”, “The Oath” e “Sign Of The Hammer”. Impossibile nascondere l’amore per i classici intramontabili composti durante il periodo di militanza nei Manowar, e anche per questo non possiamo non provare un leggero senso di amarezza per la scelta degli organizzatori di confinare un artista di tale livello storico a un orario così proibitivo, col conseguente risultato di minare drasticamente l’affluenza da parte degli ascoltatori più stanchi e provati dalla giornata, fra i quali molti hanno preferito andare a dormire piuttosto che rimanere a gustarsi inni come “Blood Of My Enemies”, “Kill With Power” e “Fighting The World”. C’è spazio anche per un paio di estratti dal recente lavoro solista di Ross, anche se le attenzioni sono tutte per i classici, eseguiti con tecnica e professionalità da musicisti del calibro di Mike LePond e Steve Bolognese, senza nulla togliere anche al vocalist Marc Lopes, che tuttavia tende sempre un po’ troppo a imitare il leggendario Eric Adams senza riuscirci, finendo con l’esagerare un pochino con gli acuti durante l’intero arco dell’esibizione. La conclusione dello show e dell’intera giornata di riscaldamento giunge con le immancabili “Battle Hymn” e “Hail And Kill”, dopo le quali possiamo finalmente tornare in tenda a crollare sotto i duri colpi del martello di Morfeo, anche perché domani, come detto nell’introduzione, si comincia a fare sul serio grazie all’inaugurazione del Main Stage rotante che tanto ha fatto discutere sin dallo scorso anno.