Introduzione e report a cura di Roberto Guerra
Fotografie copyright del Summer Breeze Open Air
Proseguiamo con la terza, nonché penultima, giornata di questa edizione 2018 del Summer Breeze Open Air, il quale ha saputo fino ad ora regalarci numerosi momenti di esaltazione, alternati ad altri potenzialmente più noiosi, ma senza far mai mancare la sensazione di trovarsi ad un evento pensato per chiunque non riesca proprio a fare a meno di passare svariati giorni e svariate notti all’aria aperta, col solo scopo di deliziare il proprio palato metallico con un numero imprecisato di esibizioni gustose, senza preoccuparsi più di tanto del filone d’appartenenza delle band in questione. Quest’oggi saranno le sonorità estreme a farla da padrone, con una discreta carrellata di gruppi in procinto di alternarsi tra il T e il Camel Stage, prima di toccare i picchi di pubblico più elevati con due apprezzate realtà moderne intente a calcare il palco principale, sotto al quale, tuttavia, abbiamo deciso di trascorrere meno tempo in favore dei due ‘fratellini’ minori. Inoltre, vi anticipiamo che un’altra novità di questa tornata riguarderà il tempo che, ad una certa ora, diverrà prima più scuro e successivamente piovoso per un determinato lasso di tempo, col conseguente risultato di rinfrescare lievemente l’atmosfera, causando però anche un paio di disagi che non stiamo a citare, per il momento. Buona lettura!
GOATWHORE
E’ mezzogiorno, fa ancora parecchio caldo, si è già provveduto a riempirsi lo stomaco e l’attesa per le prime esibizioni della giornata inizia a farsi tangibile. In prossimità del T Stage, la prima band di cui ci accingiamo a parlare è rappresentata dagli americani Goatwhore, ancora carichi dall’uscita del loro ultimo lavoro “Vengeful Ascension” e prontamente muniti di bracciali in pelle borchiati e stivali, sebbene la temperatura non sia proprio favorevole. Nonostante ciò, la grinta dei nostri quattro ragazzoni, provenienti da New Orleans, e della loro peculiare combinazione di black, death e thrash si fa palpabile sin da subito, anche grazie a dei suoni sempre ben equalizzati e a una scaletta non particolarmente lunga ma comunque carica di spunti per iniziare a scaldare i muscoli in attesa di un proseguimento della giornata all’insegna di moshpit e pratiche varie. Sia che si tratti delle recentissime “Under The Flesh, Into The Soul”, “Chaos Arcane” e “Mankind Will Have No Mercy”, o delle più datate “Collapse In Eternal Worth” e “Apocalyptic Havoc”, la graffiante proposta dei Goatwhore svolge in maniera più che adeguata il proprio compito. Uniche note negative: nessun estratto dal primo periodo di attività della band e una pienezza sonora che avrebbe giovato dell’inserimento di una seconda chitarra in svariate fasi dello show. A parte ciò, la giornata è iniziata ancora una volta piuttosto bene, possiamo procedere!
TOXIC HOLOCAUST
Un altro nome da molti associato al concetto di massacro, nonché di squisita ignoranza musicale, è quello dei Toxic Holocaust e del biondo frontman Joel Grind, noto per essere in grado, insieme ai suoi due soci, di sollevare dei polveroni a base di speed/thrash metal al limite della legalità, riuscendo nel compito con risultati spesso maggiori rispetto a svariate altre realtà affini, nonostante i soli tre componenti on stage. Ebbene, neanche il tempo di pensarlo, che subito si scatena il pandemonio in concomitanza delle furiose “War Is Hell”, “Wild Dogs” e “In The Name Of Science”, sulle quali il sopracitato vocalist rilascia tutta la collera possibile e immaginabile, sostenuto dai riff taglienti di Charlie Belmore e da quel rullo compressore che è Nikki Rage dietro alle pelli. Nonostante l’inevitabile monotonia della proposta, che adoriamo comunque così com’è, non manca la varietà nella scaletta odierna, con numerosi richiami a quel capolavoro di violenza che è tutt’ora “An Overdose Of Death…”, così come al recente “Chemistry Of Consciousness” e persino al classico “Evil Never Dies”. L’Olocausto Tossico trova la sua conclusione sulle note delle immancabili “Nuke The Cross” e “Bitch”, permettendoci di respirare e di contare i lividi in attesa della prossima dose di legnate metalliche e, nel caso specifico, brutali grazie ai connazionali Misery Index. Prima di passare oltre, però, vogliamo ricordare ai Toxic Holocaust che sono ben cinque anni che aspettiamo un nuovo album, e dopo esserci divertiti così tanto durante il loro concerto è inevitabile che l’attesa si faccia ancora più pressante.
MISERY INDEX
Iniziamo a tingere la terra di rosso grazie al death metal, con contaminazioni di matrice grindcore, ad opera dei Misery Index, sorretti da una formazione ancora ben salda e stabile da più di otto anni, ossia da quando il buon John “Sparky” Voyles ha ceduto il posto alla chitarra a Darin Morris. Considerando il genere in questione, è inevitabile che la fame di violenza dei presenti non possa che incrementarsi al pensiero di potersi nutrire grazie a brani aggressivi e brutali come la iniziale “Embracing Extinction”, la classica “The Great Depression” oppure l’oscura “Ghosts Of Catalonia”. Le tematiche cui ruotano attorno i testi urlati da Jason Netherton e, soprattutto, Mark Kloeppel sono ben note a tutti gli estimatori di musica estrema, e anche a ‘sto giro quest’ultimo non perde occasione di ruggire mentre macina riff e sfuriate di sorta, contribuendo a sorreggere una sezione ritmica potenzialmente demolitiva, con in più il sempre ben distinguibile contributo di Adam Jarvis alla batteria. Forse si nota qualche lieve incertezza in un paio di momenti isolati, rendendo così la prova dei Misery Index leggermente meno convincente rispetto alle due precedenti, ma si tratta tutto sommato di piccolezze, non in grado di scalfire la qualità generale di un running order che fino ad ora è stato in grado di fomentarci senza commettere effettivi passi falsi. Stando così le cose è evidente che, a breve, i Tankard dovranno impegnarsi parecchio per mantenere alti i livelli raggiunti fino ad ora.
TANKARD
Dopo averne parlato un paio di mesi fa in occasione del report dedicato al Rock Fest di Barcellona, è nuovamente giunto il momento di fare un pieno di birra e thrash metal coi teutonici Tankard, prima band non americana della giornata a calcare il palco del T Stage. L’ultima volta apprezzammo certamente la totalità dell’esibizione ad opera di Anders Geremia & Co., anche se fu inevitabile non lamentarsi di un volume della chitarra decisamente troppo basso e non in grado di trasmettere il giusto feeling che ci si aspetta da un concerto del suddetto genere musicale. Questa volta l’andazzo sembra essere ben altro, il che ci permette di godere dell’esecuzione di inni al gusto di birra come “The Morning After”, “Zombie Attack” e “Chemical Invasion”, senza dimenticarci dell’ultimo album “One Foot In The Grave”, la cui title-track occupa la posizione di opener. La setlist appare pressoché identica a quella risalente alla volta precedente, anche se la miglior gestione del comparto sonoro rende decisamente più godibile uno show durante il quale non è possibile non gettarsi, di nuovo, nel pogo, stando ovviamente attenti a non rovesciare l’immancabile bicchiere di birra tenuto saldo in mano; anche la simpatia di Anders e compagni è sempre presente ed efficace, il che non può che essere ancora una volta un valore aggiunto. “A Girl Called Cerveza” e “(Empty) Tankard” chiudono uno show decisamente troppo corto rispetto alla mole di pezzi attesi presenti nel repertorio della band di Francoforte, e anche per questo rimaniamo in attesa di un loro concerto in veste da headliner dalle nostre parti.
NIGHT IN GALES
Dedichiamo una parentesi di stampo decisamente più melodico al Camel Stage e, per l’esattezza, ai Night In Gales da Colonia: si tratta di una band che, in più di vent’anni di carriera, non è mai stata particolarmente in grado di riscuotere un numero eccessivamente elevato di consensi da parte di critica e pubblico, fatta ovviamente eccezione per il magistrale disco di esordio “Towards The Twilight”, divenuto negli anni un vero e proprio album di culto per gli estimatori delle sonorità melodic death metal. Tuttavia, essere smentiti può davvero far piacere ogni tanto: dopo sette anni di silenzio, infatti, la band è tornata alcuni mesi fa sul mercato con un nuovo lavoro dall’altisonante titolo di “The Last Sunsets”, accolto molto positivamente anche sulle nostre pagine, ispirato totalmente al sopracitato esordio e con di nuovo alla voce il buon Christian Muller, sostituito a suo tempo da Björn Gooßes prima dell’uscita del primo disco. Dopo questa premessa, lo show dei Night In Gales si presenta decisamente come una piacevole sorpresa: a partire da un inizio affidato al primo ep con la omonima “Sylphlike”, prima di dedicare l’intera scaletta al primo e all’ultimo album di cui si è parlato fino a poco fa, col conseguente risultato di non sfociare praticamente mai in un punto morto, riuscendo a sorprenderci con sette brani che sembrano quasi provenire dal medesimo disco, nonostante gli oltre vent’anni di distanza intercorsi. Christian Muller dispone ancora di tutta la voce di cui necessita, e come lui l’intera band si presenta nuovamente in forma e visibilmente emozionata al pensiero del nuovo capitolo aperto di recente, collegato direttamente a un periodo passato, ma ancora così sentito. Fidatevi di noi, date un ascolto a questi due album e, se capita l’occasione, investite una serata per vedere i Night In Gales dal vivo, poiché potreste rimanere piacevolmente colpiti.
DYING FETUS
Le nuvole iniziano a intravedersi all’orizzonte, mentre la violenza musicale più brutale e tecnica si appresta a rendersi nuovamente protagonista della nostra permanenza al Summer Breeze Open Air 2018. I Dying Fetus rappresentano una vera e propria garanzia se si parla di capacità esecutive e compositive, abbinate a un utilizzo sapiente della brutalità e a dei concerti ritenuti, da molti appassionati, tra i migliori del filone d’appartenenza. Anche in questo caso sono solo tre i musicisti presenti on stage, eppure basta il loro personale contributo a fornire una prova carica di impatto e violenza in grado di bissare senza particolari difficoltà quanto fatto in precedenza dai colleghi Misery Index. L’accoppiata iniziale a base di “Wrong One To Fuck With” e “Panic Amongst The Herd”, così come altri due estratti eseguiti in seguito, provengono dall’ultimo album, anche se notiamo con piacere che John Gallagher e soci non hanno intenzione di risparmiare nessuno, retrocedendo anche di quasi due decenni con le varie “Praise The Lord (Opium Of The Masses)”, “Grotesque Impalement” e la conclusiva “Kill Your Mother, Rape Your Dog”, al termine della quale la pioggia ha ormai già iniziato ad abbattersi sulla location, costringendoci a ripararci in prossimità del Camel Stage, dove a breve sarà possibile fare un giretto dalle parti dell’Estremo Oriente in compagnia di un’altra realtà melodica e tamarra. Nel frattempo, facciamo un sentito applauso ai Dying Fetus, che hanno proseguito più che degnamente la trafila di band dedite al devasto più totale.
GYZE
Parlando nuovamente di melodic death metal, passiamo ora a una giovane promessa proveniente dalla terra del Sol Levante: i giapponesi Gyze non dovrebbero suonare particolarmente nuovi ad un appassionato italiano del genere, anche perché ricordiamo che il loro primo album “Fascinating Violence” uscì a suo tempo per Coroner Records, che come molti sapranno ha sede in Piemonte. Per chi non li conoscesse, possiamo etichettare la loro proposta come un’ottima e tamarra commistione di power e melodic death metal, adeguatamente infarcita di sfoggi di tecnica, sprazzi di epicità e richiami alla cultura nipponica; in sostanza, apparentemente la classica band giapponese di ispirazione europea. Ciò potrebbe decisamente fare la gioia degli estimatori di determinate sonorità eseguite con l’ausilio di certi stilemi, e con un inizio così sfolgorante come quello attuale, sulle note di “Dragon Calling”, non potrebbe essere altrimenti: il carismatico e femmineo Ryoji ruggisce come un drago, mentre le sue dita viaggiano sulla chitarra alla velocità della luce, sostenuto da una sezione ritmica serratissima e con di fronte un pubblico già visibilmente fomentato. La setlist in questo caso è ancora più breve di quelle analizzate fino ad ora, e pesca interamente dalla recente mini-raccolta “The Rising Dragon”, di cui viene eseguita anche la title-track, e dal primo album menzionato all’inizio del trafiletto, con una conclusione interamente ad esso dedicata a base di “Final Revenge” e “Desire”. In sostanza, si tratta sicuramente, dal vivo come su disco, di una proposta che non potrà piacere a tutti per via della sua vena eccessiva e dal retrogusto quasi ‘nerd’, ma è indubbio che questi tre ragazzi abbiano capacità a iosa, e il discreto successo che stanno ottenendo in tutto il mondo ne è ulteriore dimostrazione; ci auguriamo che possano anche fungere da esempio per tutti gli appassionati che ancora conoscono poco il metallo proveniente dal Giappone, una terra musicalmente ben più produttiva di quello che si potrebbe pensare. Provare per credere!
DORO
Finalmente si torna a parlare di heavy metal, anche se per relativamente poco tempo e con qualche lieve magagna iniziale: la pioggia apparentemente incessante ha evidentemente arrecato qualche piccolo intoppo all’impianto audio del Main Stage, come si può dedurre dal problematico inizio concerto ad opera della bionda metal queen Doro Pesch. Dopo alcuni tentativi falliti, finalmente lo show parte con l’aggressivo trittico targato Warlock composto da “Earthshaker Rock”, “I Rule The Ruins” e “Burning The Witches”, seguite dalla recente “Raise Your Fist In The Air” e da un altro classico come “East Meets West”; la bella vocalist gestisce le difficoltà iniziali con tutta la professionalità e la serenità necessarie, tanto da farci chiedere se non si debbano proprio a lei e al suo sorriso il miglioramento del tempo e la scomparsa della pioggia, abbinati come sempre alla peculiare grinta d’acciaio che da sempre contraddistingue una delle metal vocalist più iconiche della storia. Oltre alle solite e immancabili “Fur Immer”, “We Are The Metalheads” e “Hellbound”, vengono inseriti due estratti dall’album appena uscito “Forever Warriors, Forever United”, di cui uno alla prima esecuzione dal vivo in assoluto, e parliamo di “All For Metal” e della ignorantissima “Bastardos”. A livello esecutivo la ‘dolce’ e vulcanica Doro quest’oggi non sbaglia un colpo, e col suo timbro riesce ancora ad interpretare con tutta la ferocia necessaria una setlist ricca di classici, affiancata naturalmente alla chitarra dal nostro Luca Princiotta e dal buon Tommy Bolan, ex chitarrista dei Warlock di cui avevamo già parlato in occasione del report dedicato al Wacken Open Air. Dopo la sempre gradita, seppur ormai un po’ inflazionata, cover di “Breakin’ The Law” e con ancora in corso i cori sul finale di “All We Are”, ci fiondiamo immediatamente al T Stage in modo da giungere in tempo per lo show degli At The Gates, senza però dimenticarci di mandare un bacione a Doro, ringraziandola per la solita ora di grande heavy metal e per aver reso meno grigio e umido il tempo in vista della serata.
AT THE GATES
Con la title-track del nuovo album “To Drink From The Night Itself” inizia il trapanante show ad opera di una delle band simbolo del death metal svedese, nonché una delle prime realtà ritenute appartenenti al cosiddetto filone melodic death. Da che esistono, gli At The Gates si sono quasi sempre distinti per delle capacità di intrattenimento dal vivo a dir poco invidiabili, e anche questa volta sembra non abbiano alcuna intenzione di smentirsi, proponendo un’ora abbondante a base di smitragliate e momenti più oscuri suddivisi tra il sopracitato ultimo lavoro e i due illustri predecessori diretti, ovvero “At War With Reality” e l’immenso e immortale “Slaughter Of The Soul”; nulla purtroppo dallo splendido esordio “The Red In The Sky Is Ours”, da molti ancora ritenuto il miglior album mai prodotto dalla band di Goteborg. Tuttavia non ci sentiamo di strafare con le critiche in merito, soprattutto tenendo conto del devastante spettacolo tenuto egregiamente da Tomas ‘Tompa’ Lindberg e dai suoi ben noti compagni di band, ognuno col proprio curriculum corposo e ricco di partecipazioni a numerosi progetti di qualità, tra cui i mostruosi The Haunted, in cui militano Jonas Bjorler e Adrian Erlandsson; anche il nuovo ingresso alla sei corde Jonas Stalhammar si dimostra perfettamente a suo agio, sfoggiando inoltre delle doti che nulla hanno da invidiare a quelle del più navigato collega Martin Larsson. Inutile inoltre far presente che tra moshpit, circle-pit e crowdsurfing ci sia di che da sudare mentre questi cinque pazzoidi svedesi macinano note e riff on stage, portando il pubblico a dare il massimo in concomitanza della leggendaria “Blinded By Fear”, seguita poi dalla conclusiva “The Night Eternal” e da un meritato quantitativo di ovazioni per quella che a fine giornata si potrebbe annoverare tra le esibizioni migliori dell’intero festival fino ad ora. Tra poco staremo a vedere se dei colleghi connazionali, sul Main Stage, saranno in grado di esaltarci alla stessa maniera.
ARCH ENEMY
Anche degli Arch Enemy avevamo già parlato alcune settimane fa in occasione del report dedicato al Wacken Open Air, promuovendo per giunta lo show soprattutto per via della sua energia e dei suoni quasi perfetti, in grado di valorizzare oltremodo un’esibizione incentrata, come è ormai consuetudine, principalmente sugli ultimi controversi lavori, di cui noi per primi non ci sentiamo assolutamente di salvare tutto; tuttavia è innegabile che, quando gli Arch Enemy suonano dal vivo, sia impossibile ascoltarli con le stesse orecchie o guardarli con gli stessi occhi. In questa occasione, quindi, possiamo dire lo stesso? Assolutamente sì, nonostante un’assenza pesante come quella del mitico Jeff Loomis alla sei corde, sostituito per l’occasione dal giovane e talentuoso Joey Concepcion, che qualcuno conoscerà per i suoi video presenti su YouTube, il cui stile chitarristico, nonché compositivo, ricorda molto quello adottato appunto dagli stessi Arch Enemy e da band affini; il suo tocco forse non sarà lo stesso del buon Jeff, ma bisogna ammettere che il ragazzo si difende piuttosto bene. La scelta dei brani è pressoché invariata, così come la perfetta esecuzione di questi ultimi, enfatizzati nuovamente da un’impeccabile equalizzazione dei suoni, che risultano in questo modo ben definiti e dotati del giusto impatto; ciò è identificabile negli estratti recenti, tra cui le ovvie “War Eternal”, “You Will Know My Name”, “The Eagle Flies Alone” o la aggressiva “As The Pages Burn”, tanto quanto in brani più vecchia scuola risalenti al periodo in cui la bionda Angela Gossow ringhiava dietro al microfono: sulle varie “Ravenous”, “Dead Bury Their Dead” e “My Apocalypse” la bella Alissa fornisce una prova comunque notevole, anche se si continuano ad avvertire il feeling e l’approccio differenti rispetto a chi l’ha preceduta. Terminata la conclusione con “Nemesis” e la strumentale “Fields Of Desolation”, il nostro pensiero è bene o male lo stesso di sempre: dal vivo gli Arch Enemy spaccano, e pure tanto! Indubbiamente molti brani, soprattutto tra quelli più recenti, non sono equiparabili a quanto composto in svariate occasioni passate da Michael Amott e compari, noi stessi riteniamo alcuni degli ultimi estratti al limite del mediocre, ma resta comunque il fatto che la qualità non manca, così come la capacità di tenere dei concerti pazzeschi, soprattutto su dei palchi così grandi e importanti.
SATYRICON
Che l’accoppiata composta da Satyr e Frost si sia resa più volte protagonista di alcune particolari controversie da parte di critica e pubblico è cosa ben nota, soprattutto tenendo conto di quella sorta di contrapposizione inevitabile tra la loro voglia di osare, durante la lavorazione di un nuovo album, e il risultato conseguente spesso piuttosto altalenante. L’ultimo lavoro “Deep Calleth Upon Deep”, nonostante l’accoglienza piuttosto tiepida riscontrata anche sulle nostre pagine, si è dimostrato comunque relativamente ricco di potenziale, come si può tranquillamente dedurre da una sorta di apprezzamento generale da parte degli estimatori, fra cui molti lo hanno addirittura etichettato come il miglior disco dei Satyricon dai tempi di “Volcano”, che già a suo tempo ricordiamo fece discutere non poco, come anche il suo bizzarro predecessore. In sede live il discorso può essere similare: partendo da una scaletta a tratti eccessivamente incentrata sulle produzioni risalenti agli ultimi dodici anni, fino a giungere ad una resa generale dal sapore leggermente amaro. Per carità, non ci sentiamo assolutamente di eccedere con le critiche, poiché ormai è ben nota la via intrapresa dalla band norvegese, che ha indubbiamente trovato la sua dimensione nonostante un leggero malcontento da parte dei puristi, i quali hanno probabilmente avuto modo di godere una sola volta durante l’esibizione odierna, in concomitanza dell’esecuzione della lugubre “Mother North”, unico estratto proveniente dal periodo anni ’90 della band. Non ritenendoci parte della suddetta categoria, noi stessi abbiamo avuto modo di apprezzare lo show in diversi momenti, pur riconoscendo una qualità generale dei brani presenti in scaletta non proprio costante, nonché appunto una leggera assenza di grinta e capacità di coinvolgimento; tuttavia, ripensando ad alcune volte passate, vogliamo essere fiduciosi si sia trattato di un’occasione un po’ intasata, anche se rimaniamo dell’idea che un passato tanto glorioso andrebbe valorizzato un po’ di più.
TURISAS
Altra band che si è trovata più volte al centro di numerosi dibattiti, soprattutto dopo l’uscita dell’ambiguo album “2013”, omonimo per giunta dell’anno stesso di uscita. Nonostante ciò i Turisas, guidati come sempre da Mathias Nygard, hanno continuato comunque la propria permanenza all’interno dei cuori di una folta schiera di estimatori, di cui molti si sono radunati in prossimità del Main Stage con tanto di bandiere e cianfrusaglie varie, nonostante l’orario decisamente un po’ proibitivo dopo una giornata così faticosa. Lo scorso anno l’apprezzato secondo album “The Varangian Way” ha spento le sue prime dieci candeline, ed era quindi plausibile che la band avesse tutta l’intenzione di porvi omaggio, collocandone ben quattro estratti nella breve scaletta (cinque, se contiamo anche la conclusiva cover di “Rasputin”), composta per il resto dalla iniziale “The March Of The Varangian Guard”, dalla tutto sommato recente “We Ride Together” e dalle immancabili “Battle Metal” e “Stand Up And Fight”. A condire il tutto è stato inserito anche un piacevole assolo di violino ad opera di Olli Vanska, che tuttavia ci ha dato una leggera sensazione di riempitivo, soprattutto tenendo conto delle numerose canzoni che si sarebbero potute eseguire al suo posto; un desiderio reso ancora più concreto da una resa inaspettatamente maiuscola da parte di tutta la band, che ha evidentemente ancora tutte le carte in regola per riuscire a coinvolgere e, potenzialmente, sorprendere gli ascoltatori più scettici. Dopo questa oretta di divertimento notturno possiamo finalmente considerare terminata anche questa penultima giornata di festival, nonché una delle più corpose in assoluto, andando quindi a dormire dopo l’immancabile ultima bevuta con gli amici; non prima però di aver rivolto un pensiero ai Turisas stessi, per i quali vale un discorso simile a quanto detto alla fine del trafiletto sui Toxic Holocaust: a distanza di cinque anni, ce lo volete dare un nuovo album o no!?