06/06/2019 - SWEDEN ROCK FESTIVAL 2019 – 1° giorno @ Norje - Solvesborg (Svezia)

Pubblicato il 25/06/2019 da

Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Karolina Vohnsen (Amon Amarth, Blaze Bayley), Sebastian Akerman (Def Leppard),  Josefin Larsson (Krokus, Powerwolf, Tenacious D) e Stefan Johansson (Arch Enemy, Slayer, The Wild!)

Nella ricchissima offerta festivaliera europea, c’è un evento ormai storico che non avevamo ancor avuto occasione di raccontare: lo Sweden Rock Festival. Nata nel lontano 1992, la manifestazione si tiene poco fuori Sölvesborg, nel sud della Svezia, e rappresenta una delle eccellenze tra i maggiori festival del mondo, complice la splendida cornice delle campagne scandinave e, soprattutto, un grado di attenzione e organizzazione che rasenta la perfezione. I ragazzi dello Sweden Rock lavorano ogni anno non solo per fornire una vasta gamma di concerti al proprio pubblico, ma anche perchè tutti i partecipanti vivano le quattro giornate sentendosi al sicuro, supportati al meglio sotto ogni aspetto e circondati da un generale senso di aiuto reciproco. “Per favore, siate rispettosi e prendetevi cura gli uni degli altri durante il festival”. Questo messaggio, proiettato sui maxischermi nei momenti di pausa tra i vari concerti, ne è un esempio, a cui si sommano una miriade di dettagli che, sommati tra loro, fanno la differenza: dalla raccolta minuziosa dei rifiuti da parte di legioni di addetti, fino al supporto per le persone disabili, passando per la security che distribuisce costantemente acqua alle persone nei pressi delle transenne. I cinque palchi sono perfettamente distribuiti nell’ampia area in modo da non interferire nelle varie esibizioni in contemporanea, e la vendita dei biglietti, sempre oculata, permette al festival di essere sempre al completo ma concedendo a ciascuno il giusto spazio vitale, senza rischiare il pericolo della calca selvaggia. Se a questo si aggiunge un’offerta ricchissima di stand, tra cibi provenienti da tutto il mondo, dischi, gadget, e perfino sex toys e palloncini colorati, diventa chiaro come lo Sweden Rock Festival sia una sorta di Paradiso per coloro che vogliono trascorrere quattro giorni all’insegna dell’hard rock e dell’heavy metal. Noi di Metalitalia.com abbiamo presenziato alle ultime tre giornate del festival: buona lettura!

 

 

THE WILD!
Il nostro Sweden Rock parte nel migliore dei modi alle ore 11.30 della mattina, sotto un cielo terso e azzurro che fa da contrasto all’infuocata performance dei canadesi The Wild!. Il quartetto sale sul 4Sound Stage, uno dei palchi minori per dimensione, quando sono ancora pochi coloro che hanno varcato la soglia dell’area concerti e i più sono impegnati a girellare tra le decine di stand. Il chitarrista/cantante Dylan Villain, con la sua camicia scarlatta, occhiali da sole e sigaretta, non si fa scoraggiare e, ottimamente accompagnato dai suoi tre colleghi, mette in piedi uno spettacolo di puro rock, coinvolgente ed energico come si conviene. Abbondanti iniezioni di AC/DC pompano carburante in una macchina che odora di strada, che ringhia come un pitbull e che strizza l’occhio tanto al punk quanto al blues. A fare la differenza, però, c’è l’attitudine sul palco, davvero convincente e sorprendente: come solo chi ha talento sa fare, i The Wild! prendono l’esigua platea a la stendono con una gragnola di colpi che non danno tregua. Canzoni come “Ready To Roll”, “Banger” e “Straight To Hell” giocano sul sicuro in un contesto come questo e la band sa di avere le capacità per portare a casa il risultato. Il pubblico incuriosito inizia ad avvicinarsi e ad infoltirsi, godendosi la performance dei quattro, che tengono il palco con sfacciata sicurezza: le mosse giuste al punto giusto, qualche passo coordinato nei momenti più catchy, una buona interazione col pubblico e un brindisi con una bottiglia di birra tracannata ‘alla Joey DeMaio’, in onore del pubblico. Bravi!

 

BLAZE BAYLEY
Fa un po’ specie vedere il buon Blaze Bayley relegato agli show della mattinata all’interno del festival, ancora di più di fronte ad una scaletta che celebra i venticinque anni dall’ingresso del cantante in una certa band che risponde al nome di Iron Maiden. Come già annunciato, infatti, Blaze ha deciso di inaugurare con lo spettacolo dello Sweden Rock una serie di date all’insegna delle canzoni della Vergine di Ferro. Album come “The X Factor” o “Virtual XI” non saranno tra i vertici della produzione maideniana, ma sono stati rivalutati con il passare del tempo (soprattutto il primo) e non stupisce sentire la platea, già sostanziosa nonostante l’orario, cantare ogni singola canzone. Blaze, da parte sua, mette in piedi uno spettacolo assolutamente degno, optando per una scaletta intelligente, che non lo mette eccessivamente in difficoltà da un punto di vista vocale e che alterna episodi diventati ormai dei classici, come “Man On The Edge”, “Futureal” o “Sign Of The Cross”, ad altri meno valorizzati durante la sua permanenza nei Maiden, come “Virus”, “Judgement Of Heaven” o la conclusiva “Como Estais Amigos”. La band che accompagna il cantante è solida e rodata (ricordiamo che questi ragazzi suonano assieme anche senza Blaze con il nome di Absolva) e riescono a riprodurre le partiture di Harris e soci con il giusto equilibrio tra fedeltà e personalizzazione. Blaze appare fisicamente appesantito ma sempre carico, felice di poter valorizzare il periodo della sua vita che gli ha dato notorietà, senza risultare mai arrogante. Si concede giusto una frecciatina nel presentare “The Clansman”, sottolineando con forza quel ‘I am the Clansman’… riferendosi forse ad un ben più noto cantante che l’ha riportata in scena proprio in questi anni (e, Blaze, ci spiace, la tua sarà l’originale, ma Dickinson la canta da dio…). Abbiamo però apprezzato tantissimo una scelta anomala, e vogliamo chiudere il report proprio con questa: non senza una certa dose di spericolatezza, il buon Blaze decide di inserire nel concerto anche il brano più controverso della sua carriera, quella “The Angel & The Gambler” che rappresenta forse il punto più basso della storia dei Maiden. Lo fa arrangiandola in maniera più rocciosa, diretta, con le chitarre robuste in evidenza e senza le infinite lungaggini dei suoi nove minuti di durata. Il risultato è degno di nota e la mossa si rivela intelligente: riarrangiare un pezzo molto amato dei Maiden avrebbe messo in difficoltà la band nel confronto con dei giganti; riprendere in mano invece un pezzo brutto, provando a farlo funzionare partendo dagli sbagli del passato, è stato un bel modo per mettersi in gioco anche in questo contesto vagamente nostalgico. Ottimo lavoro!

 

POWERWOLF
Terminata la buonissima esibizione di Blaze, ci rifocilliamo velocemente bazzicando la marea di bancarelle di street food, giusto in tempo per prepararci, anima e corpo, alla messa heavy metal celebrata dai Powerwolf. Chi vi scrive ricorda ancora le prime esibizioni della band in Italia, durante il tour di supporto al loro primo disco, aprendo per i Gamma Ray: da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e i Powerwolf sono ormai una realtà solida, di successo e di conseguenza anche parecchio criticata. La formazione guidata da Attila Dorn troverebbe la sua dimensione ideale con il buio e il giusto gioco di luci, ma nonostante il sole a picco, la performance dei tedeschi è stata coinvolgente e teatrale al punto giusto. Dietro le spalle del gruppo giganteggia la copertina dell’acclamato “The Sacrament Of Sin”, mentre le tastiere di Falk Maria Schlegel sono abbellite da un tamarrissimo piedistallo a forma di aquila dalle ali spiegate. La formazione sale sul palco sulle note di “Lupus Daemonis” e si butta a capofitto nella potente “Fire And Forgive”. L’attenzione del pubblico si divide, puntando lo sguardo ora sul frontman, carismatico e coinvolgente, ora sul folle tastierista, che passa una buona fetta del tempo correndo qua e là per il palco, con la sua divisa sacerdotale e la stola nera a sventolare, mentre incita e carica il pubblico visibilmente soddisfatto. La scaletta del concerto ripropone quasi nella sua interezza lo spettacolo visto nel tour da headliner: i Powerwolf, infatti, pur suonando alle 14.30, hanno a disposizione ben 75 minuti di tempo, più che sufficienti per realizzare uno show quasi completo. Molti episodi, ovviamente, sono tratti dall’ultimo album di inediti: brani come “Demon’s Are A Girl’s Best Friend”, “Killers With The Cross” o “Stossgebet” fanno saltare il pubblico, che viene costantemente invitato a partecipare con cori e canti. La proposta dei Powerwolf è sfacciata, divertente, con il giusto equilibrio tra le atmosfere ecclesiastico/orrorifiche (“Armata Strigoi”, “Werewolves Of Armenia”) e quell’approccio cazzaro che diverte in brani come “Sanctified By Dynamite” o “Resurrection By Erection”, che vede qualcuno del pubblico sventolare anche qualche fallo di gomma. Con la conclusiva “We Drink Your Blood”, Attila sigilla la fine della sua ‘heavy metal mass’: il pubblico è felice, andiamo in pace.

 

KROKUS
‘The Krok is back to rock!’. Con queste parole l’irriducibile Marc Storace introduce la performance della leggendaria formazione elvetica. I Krokus sono impegnati in quello che, stando alle dichiarazioni della band, sarà l’ultimo loro tour, che arriva in seguito alla pubblicazione di “Big Rocks”, un album di cover in cui vengono rilette alcune delle più belle pagine della storia del rock. E in effetti nel corso del concerto trovano spazio alcuni classici come “American Woman” dei The Guess Who, un accenno a “Pinball Wizard” degli Who (posta alla fine di “Long Stick Goes Boom”) e, soprattutto, l’inno rock di Neil Young, “Rockin’ In The Free World”, accolta con palpabile entusiasmo dal pubblico, che canta con trasporto. Questo, però, non è il concerto di una coverband di lusso, ma di una formazione nata nel lontano 1974, che ha scritto in prima persona alcune splendide pagine di questo genere. Così il pubblico dello Sweden Rock può gustarsi inni coinvolgenti come “Rock ’N’ Roll Tonight”, la conclusiva “Heatstroke” e soprattutto due pezzi da novanta come “Live For The Action” e “Bedside Radio”, che scatenano la platea, facendo saltare e ballare tutti i fan della band svizzera. Tra i brani relativamente più recenti, si fanno notare “Hellraiser”, che viaggia dritta come un treno, e la stregata “Hoodoo Woman”, con le sue pennellate di blues sulfureo figlio del Mississippi più che delle Alpi. Da sempre condannati a passare per ‘la versione svizzera degli AC/DC’, che rimangono inequivocabilmente la loro fonte di ispirazione primaria, i Krokus rimangono una di quelle realtà che meritano il massimo rispetto, con una carriera che farebbe invidia a chiunque. Se davvero, dopo quarantacinque anni di attività, è arrivato il momento di far calare il sipario sulla storia di tale formazione, questo Sweden Rock è stata una splendida occasione per goderci una band, sì ingrigita, ma ancora in piena forma.

 

ARCH ENEMY
Sono passati pochi giorni dall’esibizione degli Arch Enemy al Metalitalia.com Festival, ma decidiamo comunque di assistere anche alla loro performance sul palco dello Sweden Rock, sebbene dalle retrovie, in attesa della maratona finale fino a notte inoltrata. La data da headliner al Live Club è stata la prima del tour estivo europeo, di conseguenza la scenografia e la struttura dello spettacolo sono sovrapponibili a quanto abbiamo già potuto apprezzare nella data italiana. Molto diversa, invece, la cornice del concerto: da una parte Alissa e compagni sono costretti a rinunciare all’atmosfera delle luci, ritrovandosi a suonare in pieno giorno; dall’altra, però, guadagnano uno spazio di manovra enorme, suonando sul Rock Stage, il secondo palco in ordine di grandezza della manifestazione scandinava. Il palco immenso diventa quindi una struttura mastodontica, con la batteria rialzata, che viene sovrastata prima da un esoterico fondale che raffigura una mano con al centro un occhio, che verrà poi sostituito da scene apocalittiche ispirate (o forse addirittura tratte) da un quadro di Bosch. La band di Michael Amott non si fa intimidire dalla folla che, ormai, ha raggiunto le cinque cifre, e si butta nell’energica riproposizione del suo death metal melodico: lo Sweden Rock non è un festival dedicato alla musica estrema, ma gli Arch Enemy hanno dalla loro una massiccia dose di melodia, che permette al pubblico di apprezzarne la proposta. Come sempre, poi, a catalizzare l’attenzione dei presenti c’è l’esplosiva performance di Alissa White-Gluz, che sfrutta al meglio lo spazio del palco, correndo, saltando e urlando senza tregua dentro al microfono. Anche in questo caso, con settantacinque minuti a loro disposizione, gli Arch Enemy possono concedersi di riproporre quasi per intero il loro show, replicando la scaletta del 1° giugno con giusto un paio di tagli: vengono sacrificate “The Race”, “Dead Bury Their Dead” e l’accoppiata “Avalanche” / “Snow Bound”, che avevamo potuto ascoltare prima della conclusiva “Nemesis”. Gli attuali Arch Enemy non saranno i più sopraffini autori in termini di scrittura, ma anche in questa occasione hanno dimostrato di saper tenere degli show energici e tecnicamente ineccepibili.

 

AMON AMARTH
L’esibizione degli Amon Amarth nel festival svedese permette loro di trovarsi nelle migliori condizioni possibili: la durata concessa dall’organizzazione è esattamente uguale a quella di formazioni storiche come Def Leppard o Slayer; il palco è il più grande di tutti, quello chiamato Festival Stage, la scenografia è completa sotto ogni aspetto, dalla consueta batteria poggiata sul gigantesco elmo vichingo, fino ad un uso abbondante di fiammate ed effetti speciali. Insomma, davvero la formazione svedese non poteva chiedere di più e, per essere all’altezza delle aspettative, risponde con uno spettacolo di altissimo livello. I suoni sono tra i migliori dell’intera giornata (fermo restando che, in generale, la qualità audio è sempre vicina all’ottimo in tutti e cinque i palchi) e la band tira dritta come un’armata di guerrieri inferociti, travolgendo e calpestando chiunque gli si pari davanti. L’apertura è affidata a “The Pursuit Of Vikings”, seguita a ruota da un altro colpo possente come “Deceiver Of The Gods”; Johan Hegg, barba lunga e corno di birra alla cintura, ruggisce nel microfono, mentre narra di battaglie, mostri e divinità; il pubblico partecipa numeroso e con trasporto tanto che nel pit, dove ci troviamo anche noi, un’intera sua fetta si rende protagonista di una divertente scenetta: seduti per terra, in fila, come se fossero dei vogatori sul ponte di un drakkar, una cinquantina di neo-vichinghi iniziano a mimare il gesto del remare, seguendo il tempo guerresco scandito dai musicisti sul palco. Durante “The Way Of Vikings” fanno la prima comparsa due guerrieri che si lanciano in una serrata riproposizione di un combattimento, tra colpi di asce e il percuotere di scudi di legno, mentre la band prosegue a sciorinare il suo repertorio epico e battagliero. Ovviamente trovano spazio anche degli estratti dal più recente album in studio, “Berserker”, tra cui citiamo la possente “Crack The Sky” e “Raven’s Flight”, che si inseriscono tra episodi storici come “As Like Falls” o “Guardians Of Asgaard”. Il tempo di uno ‘skåll’ con “Raise Your Horns” e lo spettacolo si avvia alla sua maestosa conclusione con la celeberrima “Twilight Of The Thunder God”, in cui Johan brandisce il martello Mjolnir, per combattere contro Jormungand, il gigantesco serpente che decreterà la fine di Thor durante il Ragnarok. Il fumo della battaglia non si è ancora diradato, che subito ci catapultiamo dalla parte opposta dell’arena, dove si cambia completamente atmosfera.

 

TENACIOUS D
Si potrebbe fare l’errore di considerare i Tenacious D come un semplice divertissement di una star milionaria di Hollywood, invece lo spettacolo messo in piedi da Jack Black e Kyle Gass è solido, convincente e, soprattutto, pieno di belle canzoni. Folli, assurde, politicamente scorrette, e spesso irresistibili. I Tenacious D salgono sul palco dello Sweden Rock e danno il via ad un breve riassunto del loro ultimo album, “Post-Apocalypto”: Jack Black regge in una mano una sfera luminosa e inizia la narrazione delle avventure dell’eroico duo, sempre impegnato a combattere per la salvezza del mondo a colpi di rock ed heavy metal. A fare da sfondo alla performance la sagoma di un curioso castello, con torri di forma fallica ed un portone centrale che rimanda direttamente ad un altro piacevole ‘luogo di ingresso’; ad accompagnare i due artisti, invece, un classico trio di chitarra, basso e batteria, che supportano i testi demenziali cantati da Jack Black. Il concerto ripercorre tutta la carriera musicale dei due: “Rize Of The Phoenix” fa scapocciare tutti i presenti, mentre Jack Black si scatena sul palco; “Sax-A-Boom” fa ballare la platea, con il cantante a ’suonare’ il suo strambo sassofono-giocattolo; mentre “Roadie” viene dedicata a tutti coloro che lavorano dietro le quinte per permettere alla musica dal vivo di esistere. Ovviamente trovano spazio anche gli episodi tratti dalla colonna sonora di “The Pick Of Destiny”, da “Kickapoo”, con un pensiero rivolto a Ronnie James Dio, fino alla resa dei conti finale di “Beelzeboss”, fino al brano manifesto “The Metal”. Divertenti i siparietti messi in piedi, come quando i due fingono di litigare, sciogliendo la band in diretta sul palco, con Kyle Gass che abbandona il concerto per rientrare solo dopo l’accorata dedica di “Dude (I Totally Miss You)”. Il momento più strambo, però, arriva proprio sul finale: Jack Black dedica a tutte le donne del pubblico la delicata “Fuck Her Gently”, con coppie di innamorati che si stringono, guardandosi negli occhi, mentre tutti cantano versi tipo ‘I’ll fucking fuck you discreetly’. A questo punto non ci resta davvero che aspettare il promesso seguito di “The Pick Of Destiny” e vedere quali altre follie sapranno regalarci i Tenacious D!

 

DEF LEPPARD
È finalmente calato il buio nella campagna di Sölvesborg, condizione fondamentale per godere a pieno di uno spettacolo totale come quello offerto dalla più americana delle band inglesi. I Def Leppard fanno il loro ingresso sul palco dello Sweden Rock e partono subito con un pezzo da novanta come “Rocket”. Alle spalle della band un enorme maxi-schermo si accende di mille luci, trasportandoci dalle coste scandinave fino a Sunset Strip, tra luci al neon e insegne di locali notturni. Joe Elliott è un frontman di razza, carismatico e ancora dotato di una buona vocalità; Phil Collen e Vivian Campbell due chitarristi di gran classe, dotati di un gusto e di una storia invidiabili; e poi abbiamo una sezione ritmica rodatissima, che vede Rick Savage portare avanti con fierezza quello stile eccessivo e scintillante fatto di capelli cotonati e movenze sexy; e Rick Allen a picchiare con il suo unico braccio, manifesto vivente di cosa voglia dire andare avanti a dispetto delle avversità, anche le più insormontabili, uscendone da vincitore assoluto. Se anche lo spettacolo visivo del palco dei Def Leppard non fosse già meritevole dei soldi del biglietto, ci pensano le canzoni a ricordarci il perché del successo di questa longeva ed inarrestabile band: la musica dei Def Leppard è viscerale, travolgente, riesce a coinvolgere anche chi non conosce a menadito i pezzi, perché possiede quell’incredibile gusto melodico dei maestri del genere. La scaletta è praticamente perfetta e racchiude al suo interno la summa di tutta la carriera del gruppo: brani come “Animal”, “Let’s Get Rocked”, “Armageddon It” e “Rock On” fanno cantare e saltare il pubblico, che dimentica la stanchezza della lunga giornata. Allo stesso modo, trovano spazio alcuni episodi romantici ed intimi, come “When Love & Hate Collide” o la splendida “Two Steps Behind”, dove il calore delle chitarre acustiche sostituisce il suono robusto dell’elettrica. L’ora e mezza del concerto scorre via veloce, con il pubblico che invoca la band, una hit dopo l’altra, ma è ovviamente sul finale che i Def Leppard sparano le loro cartucce più famose e conosciute: prima “Pour Some Sugar On Me” e poi un’accoppiata di bis da urlo, quale “Rock Of Ages”, cantata a squarciagola da tutti i presenti, e “Photograph”, che chiude l’esibizione. Elliott e compagni ringraziano sentitamente il pubblico, grati di poter essere ancora così amati e seguiti, dando ufficialmente il via al nuovo tour europeo che, al momento della pubblicazione di questo articolo, sarà finalmente sbarcato anche in Italia al Mediolanum Forum di Assago. Immortali!

 

SLAYER
Il lungo tour d’addio degli Slayer, dopo aver messo a ferro e fuoco le arene al chiuso, passa nella sua dimensione open air, con una serie di date estive che, per molti Paesi, potrebbero rappresentare l’ultima occasione per vedere all’opera Kerry King e compagni. Per chi ha già assistito ad una delle date del Final World Tour, l’aspetto visivo non rappresenta una sorpresa, ma è davvero un piacere poter vedere nuovamente gli Slayer esibirsi con una produzione maestosa, degna della loro caratura. Poche le modifiche, da quel punto di vista: il fuoco domina ancora la scena, ora alzandosi in muraglie, avvolgendo tra le fiamme il logo con l’aquila, ora levandosi al cielo in colonne di fuoco, o a forma di croce rovesciata; cambiano invece i fondali, che sostituiscono la grafica dell’ultimo album, “Repentless”, con un paesaggio infernale, suggestivo e terrificante, con al centro un teschio gigantesco. L’effetto visivo, coadiuvato dal giusto gioco di luci, è innegabilmente suggestivo, ma ciò che fa davvero precipitare la platea nelle profondità sulfuree e brucianti dell’Abisso è la musica dei quattro: un continuo, incessante e violento massacro che prende ciò che resta degli stanchi spettatori e lo riduce semplicemente a brandelli. Un concerto degli Slayer è un’esperienza viscerale, intensissima, che tocca corde istintive e primordiali: non è musica da analizzare con la mente, ma un’esperienza capace di riportare alla luce il lato selvaggio e feroce dell’animo umano. I quattro suonano con un’urgenza espressiva palpabile, fisica: Kerry King, monolito ed imperturbabile, macina riff senza pietà, supportato dal talento di Gary Holt; Paul Bostaph picchia senza sosta, magari senza raggiungere la perfezione di Dave Lombardo, ma risultando sempre solido e affidabile; e, infine, Tom Araya, che urla e percuote il suo basso con quell’energia di chi sa che deve dare il massimo, perchè non ci saranno altri giri di giostra (il tempo potrà smentirci – e, in fondo, lo speriamo – ma al momento proprio Araya è quello più convinto circa la fine della storia degli Slayer). La scaletta del concerto, rispetto a quanto ascoltato nella data autunnale a Milano, è stata parzialmente rimaneggiata, andando a ripescare brani come “Temptation” e “Born Of Fire” da “Seasons In The Abyss”, o “Evil Has No Boundaries”, che torna ad affiancarsi a classici immancabili come “Hell Awaits”, “Dead Skin Mask”, “South Of Heaven” e la fragorosa apocalisse finale di “Angel Of Death”. Al termine del concerti, tre quarti della formazione si eclissa velocemente dietro le quinte; al centro del palco rimane solo lui, Tom Araya, in silenzio, intento ad assorbire le acclamazioni dei suoi fan, pronto a custodire un’altra immagine di questa folla urlante che invoca il nome di una delle band più amate e rispettate dell’intero universo heavy metal. Niente da dire, ci mancherete.

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