07/06/2019 - SWEDEN ROCK FESTIVAL 2019 – 2° giorno @ Norje - Solvesborg (Svezia)

Pubblicato il 26/06/2019 da

Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Karolina Vohnsen (Axel Rudi Pell), Sebastian Akerman (Magnum), Maria Johansson (Candlemass, Kiss), Josefin Larsson (Gorgoroth, The Night Flight Orchestra, ZZ Top) e Stefan Johansson (Disturbed)

Dopo una partenza intensa e costellata di ottimi concerti, ecco il report della seconda giornata dello Sweden Rock Festival. Qui trovate invece il report della prima giornata. Il tempo è splendido, esattamente come il primo giorno, e il pubblico appare più numeroso già dalle prime ore del mattino, complice forse la presenza nel cartellone del nome di maggiore richiamo, i Kiss, con il loro End Of The Road Tour. Buona lettura!

 

 

THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA
La nostra seconda giornata dello Sweden Rock Festival si apre con l’esibizione dei The Night Flight Orchestra. Sempre a cavallo tra lo stiloso e il kitsch, come solo il rock sa essere, Björn Strid e i suoi compagni entrano in scena con dei completi bianchi, un look da “La Febbre Del Sabato Sera”, e due coriste, anch’esse inguainate in abiti bianchi da sexy hostess. Un immaginario sopra le righe, così come la proposta della band, che rivisita in maniera eccellente la tradizione dell’hard rock e dell’AOR, senza mai risultare banale o semplicemente derivativa. Merito di un manipolo di musicisti di razza, che conoscono benissimo la materia e che sanno piegarla alle loro esigenze, guidati da un cantante carismatico, abile nel tenere il palco con credibilità, tanto quando ringhia nel microfono dei Soilwork quanto in un contesto patinato e glamour come questo. La formazione scandinava apre le danze con “Sometimes The World Ain’t Enough” e, da lì in poi, il concerto si trasforma in una lezione di classe: il turbinio incalzante di “Midnight Flyer”, il viaggio interstellare di “Gemini”, l’incedere sinuoso di “Something Mysterious”, fino alle contaminazioni disco/funk di “Paralyzed”. “1998” viene preceduta da un elegante intermezzo pianistico, durante il quale una delle hostess porge a Bjorn un drink, che il cantante sorseggia con voluto atteggiamento da star, e poi di nuovo una corsa finale, con “This Time”, “Lovers In The Rain” e “West Ruth Ave”. Ormai lontani dall’essere una semplice valvola di sfogo per dei musicisti dediti al metal estremo, i The Night Flight Orchestra hanno raggiunto una maturità e una credibilità invidiabili e anche dal vivo l’hanno dimostrato senza alcuna incertezza.

 

MAGNUM
La seconda esibizione della giornata vede Bob Catley e i suoi Magnum presentare al pubblico dello Sweden Rock una performance elegante e di classe. Il biondo cantante sale sul palco e, veterano di mille concerti, apre le danze con “Wild Swan”, tratta da “Wings Of Heaven”, seguita immediatamente da “Sacred Blood, ‘Divine’ Lies”. La proposta dei Magnum, come è noto, è un AOR di ampio respiro, con composizioni che puntano al ricreare atmosfere magiche e fiabesche, di ispirazione progressive. Le composizioni del gruppo non puntano sull’impatto diretto del rock sanguigno, ma lavorano sulla lunga distanza valorizzando gli arrangiamenti, con le tastiere in bella evidenza e la voce calda di Catley a fare da stella polare. Il concerto prosegue con una bella selezione di brani, spesso lunghi e articolati, che riempiono l’ora abbondante a disposizione in un soffio: “Lost On The Road Of Eternity”, l’emozionante “Crazy Old Mothers”, l’epica “How Far Jerusalem”, fino alla maestosa “Don’t Wake The Lion (Too Old To Die Young)”. La performance di tutti i musicisti è di altissimo livello, naturalmente, ma il pubblico appare meno coinvolto rispetto ad altri concerti visti durante la manifestazione. A mente fredda, possiamo provare a dare una spiegazione partendo proprio dall’essenza della musica dei Magnum, che non trova la sua espressione ideale in un contesto festivaliero (per quanto curatissimo): il pubblico eterogeneo, composto anche da una buona fetta di persone che non conoscono la proposta della band britannica, non riesce ad entrare immediatamente nelle loro atmosfere incantate. E non gioca a favore dei Magnum nemmeno la posizione dello show: svoltosi in pieno pomeriggio, sul palco principale del festival che, però, è già in gran parte occupato dalla mastodontica scenografia dei Kiss, il concerto di Bob Catley e compagni non può vantare alcun aspetto scenografico, nemmeno un fondale a tema (usato praticamente da tutti), che viene invece sostituito dal logo gigantesco dello Sweden Rock. Certo, si tratta di dettagli secondari, rispetto alla musica, ma siamo certi che in un contesto più raccolto, con la giusta atmosfera, il medesimo concerto sarebbe stato più coinvolgente ed immersivo. Speriamo di poter rivedere la band al più presto nel 2020, in uno show da headliner, a seguito della pubblicazione del prossimo album in studio (già in lavorazione).

 

AXEL RUDI PELL
Chi vi scrive attendeva con una certa impazienza l’esibizione di Axel Rudi Pell, artista magari non tra i più innovativi, ma forte di una carriera ormai trentennale, solida, coerente e costellata di grandi canzoni. Sul palco dello Sweden Rock, il buon Axel si presenta con una formazione ormai rodatissima, che vede dietro le pelli un personaggio del calibro di Bobby Rondinelli e alla voce l’inossidabile Johnny Gioeli, che da più di vent’anni presta la voce alle composizioni del chitarrista tedesco. Il concerto non inizia esattamente sotto i migliori auspici: durante il brano di apertura, “The Wild And The Young”, si palesano una serie di problemi tecnici alla chitarra di Axel, che è costretto a ritirarsi velocemente dietro le quinte per un cambio di strumento al volo, mentre il resto della band porta avanti la canzone. Servono almeno un paio di brani prima di riuscire a venire a capo della questione, mentre Gioeli sdrammatizza col pubblico sulla bellezza dei festival, dove non sai mai cosa può accadere. A parte questo piccolo incidente, il concerto fila via liscio, con una bella manciata di canzoni che coprono tutta la carriera del biondo chitarrista: citiamo ad esempio la maestosa “Mystica”, energiche perle di hard rock vecchia scuola come “Eternal Prisoner” o “Rock The Nation”, oppure il pregevole medley composto da “The Masquerade Ball” e “Casbah”. Ottima la performance da parte di tutti gli strumentisti, ma la palma di migliore sul palco va nettamente a Johnny Gioeli, frontman dall’atteggiamento umile ma dotato di un’ugola invidiabile, che gli permette di esibirsi nel suo repertorio con la naturalezza di chi sembra sia riuscito a fermare il tempo (Gioeli è giovane rispetto a tanti colleghi, ma ha comunque già passato la cinquantina!). Divertente anche il momento delle presentazioni, dove il cantante, dopo aver introdotto il resto della band, si è auto-introdotto fieramente con il suo nome italiano completo (all’anagrafe, Giovanni Giuseppe Baptista Gioeli). Un’ottima esibizione che si inserisce tranquillamente tra le migliori dell’intera giornata.

 

CANDLEMASS
L’ultima volta in cui abbiamo visto all’opera i Candlemass è stato nel 2018, durante il Metalitalia.com Festival. In quell’occasione eravamo stati tra i primi a poter rivedere sul palco il cantante Johan Längquist, rientrato in formazione dopo il lontano “Epicus Doomicus Metallicus”. In quest’ultimo anno i Candlemass hanno dato alle stampe un nuovo album in studio ed eravamo curiosi di vedere l’evoluzione della band dopo una prima fase di comprensibile rodaggio. Il sole picchia senza sosta, ma la musica della storica compagine doom ha il potere di ammantare tutto di nero, fin dalle prime note dell’iniziale “The Well Of Souls”. La formazione risulta oggi più sciolta e ci fa particolarmente piacere vedere sul palco anche il mastermind Leif Edling, in una delle rare apparizioni dal vivo a seguito di un brutto problema di salute che l’ha tenuto fermo (almeno per quanto riguarda i concerti) per qualche anno. Längquist appare ormai ben inserito nel contesto della band e, finalmente, possiamo ascoltarlo cantare il materiale dei Candlemass nella sua interezza. Se, infatti, le canzoni dell’album di debutto rappresentano ancora una fetta consistente della performance, i Candlemass ci regalano anche qualche estratto cantato originariamente da Messiah Marcolin, come “Bewitched”, “Dark Are The Veils Of Death”, “Mirror Mirror” e “Dark Reflections”. Längquist affronta questo materiale rendendolo suo, non cercando di emulare lo stile epico e squillante del suo celebre predecessore in abito da frate, optando invece per un approccio più sporco e roco, che comunque ben si adatta alle atmosfere della band. Convincenti anche i due estratti da “The Door To Doom”, con una particolare menzione per l’abissale “Astorolus – The Great Octopus”, mentre il finale è ovviamente affidato alla devastante “Solitude”. Ed è proprio su questo brano immortale che ci ritroviamo a rivolgere una critica sentita ad una performance finora ineccepibile: i Candlemass fanno salire sul palco una performer di burlesque, che si cimenta in uno spogliarello mentre la band suona il suo brano più celebre. Ora, abitualmente non avremmo nulla di cui lamentarci di fronte ad una donna semi-nuda, ma la cosa è apparsa totalmente fuori contesto, soprattutto se avvicinata ad una composizione che celebra l’assenza, il dolore, la solitudine, il declino e l’abbandono. Non sappiamo se questo è stato semplicemente un episodio isolato o se questa formula entrerà in pianta stabile nello show del gruppo: noi ci auguriamo di no, con la convinzione che una band come i Candlemass non necessiti altro che la sua musica per dar vita ad un concerto indimenticabile.

ZZ TOP
Due aste del microfono che sembrano i tubi di scappamento dei mastodontici tir americani, una batteria essenziale e un ammasso di amplificatori gialli e verdi: non serve altro ad una band storica come gli ZZ Top per incendiare la platea del festival svedese. La storia del Rock è costellata di immagini iconiche e le barbe lunghe di Billy Gibbons e Dusty Hill sono una di queste. Il trio statunitense non è immune al passare del tempo e i cinquant’anni di carriera raggiunti si vedono sulle facce barbute dei due, ma lo spirito… quello è immortale, così come immortale è il rock/blues che il trio continua a portare avanti con fierezza. Gli ZZ Top, in pochissime battute, prendono il pubblico dello Sweden Rock e lo scaraventano al di là dell’oceano, nelle distese aride degli stati del Sud. Voci al tabacco, chitarre calde, la cui fiamma viene ravvivata ad ogni crocicchio di strada dal Diavolo, e il ritmo pulsante come il sangue che scorre nelle vene. Impossibile chiedere di meglio. Nella scaletta diciassette pezzi, l’intero show da headliner senza alcun taglio: si parte con “Got Me Under Pressure”, la cover di “I Thank You” di Sam & Dave, e poi via un pezzo dietro l’altro, da “My Head’s In Mississippi” a “Just Got Paid” fino alle hit più note del trio. “Gimme All Your Lovin'” fa ballare la platea sorridente, così come l’immortale “Sharp Dressed Man”. Su “Legs” i due musicisti colgono l’occasione per sfoderare i loro famosi strumenti ricoperti di peluche bianco, tra le ovazioni del pubblico, ma l’apoteosi arriva sui bis: Dusty Hill si volta verso Gibbons e gli chiede di suonargli quel ‘motivetto’, quella canzone là, com’è che faceva? Ovviamente si tratta della leggendaria “La Grange”, la canzone più celebrata del trio e il pubblico risponde come si conviene di fronte ad un pezzo entrato ormai nella leggenda. Un altro grande singolo del passato, “Tush”, e poi lo show si chiude con la cara vecchia “Jailhouse Rock” di Elvis, per ricordare a tutti quanti come, in fondo, tutto sia cominciato da lì, dalla rivoluzione degli anni Cinquanta, dalla ribellione verso le convenzioni sociali, rappresentate nel corso dei decenni nei modi più disparati, dalle mosse di un bacino sulla TV nazionale, alle barbe incolte di due rocker del sud, fino alle più sanguinose aberrazioni della musica estrema.

 

DISTURBED
L’esibizione dei Disturbed, assieme a quella dei Kiss, è quella che vede il maggior afflusso di audience, grazie ad una carriera a misura di grande pubblico, capace di piazzare più di un singolo di successo nei piani alti delle classifiche. La band sale sul palco con la luce del sole che lentamente inizia ad abbassarsi, dando un taglio dorato a tutta l’area concerti; David Draiman, con il suo look a là Matrix, attacca con “Are You Ready”, iniziando a scaldare ed incitare la platea sterminata. Le ritmiche nervose dei Disturbed graffiano e la resa della band dal vivo è assolutamente positiva, con brani che si susseguono attraversando tutta la carriera della formazione statunitense. “Stupify” e “Voices” tornano al passato più lontano della band e la prima, in particolare, viene introdotta da Draiman con un discorso su come la musica sia in grado di unire, abbattendo barriere di tipo religioso, politico o di preferenza sessuale. Chi vi scrive non è solito bazzicare le sonorità care ai Disturbed, ma questo non ci impedisce di apprezzare il lavoro di una band compatta e di un frontman innegabilmente carismatico. Draiman parla molto e lo fa con invidiabile arte oratoria: particolarmente intensa “A Reason To Fight”, in cui il cantante, dopo aver ricordato i tanti artisti che ci hanno lasciato (da Chris Cornell a Chester Bennington, fino a Robin Williams e Keith Flint) chiede a tutti noi presenti di alzare la mano se almeno una volta nella vita ci fossimo trovati ad affrontare, in prima persona o attraverso un amico o un parente, problemi legati alla depressione o alla dipendenza. L’immagine di un mare di mani alzate, in silenzio, è servito più di mille parole. ‘Guardatevi intorno. Amici miei, non siete soli’. Un momento toccante che ci pare aver emozionato gli artisti sul palco per primi. Lo spettacolo prosegue alternando brani graffianti a delicate ballad, come “Hold On To Memories” o la celeberrima cover di “The Sound Of Silence”, dove migliaia di cellulari si sollevano per riprendere questa fortunatissima rilettura. Sempre a proposito di cover, anche “Land Of Confusion” dei Genesis trova il suo spazio, mentre tra i brani originali citiamo assolutamente il trittico finale, composto da “The Light”, “Stricken” e, naturalmente, “Down With The Sickness”, che fa calare il sipario su un concerto meritevole della sua posizione nel ricco bill dello Sweden Rock.

 

KISS
You wanted the best, you got the best! Sono decenni, ormai, che i Kiss aprono con questa frase i loro concerti, e come dargli torto di fronte ad uno spettacolo come quello offerto sul palco dello Sweden Rock? L’esibizione del quartetto è innegabilmente l’evento non solo della giornata, ma dell’intera manifestazione: tutta l’area che si dispiega di fronte all’enorme Festival Stage è gremita di persone che vogliono assistere, forse per l’ultima volta, al pirotecnico show dei Kiss. E la band risponde dando il meglio di sè, con uno spettacolo mastodontico, faraonico, che non rinuncia a nulla nella sua collocazione all’interno del festival: questa è la giornata dei Kiss, tutti gli altri possono solo adeguarsi (vedi i Dream Theater, che hanno dovuto ridurre il loro set a causa dello sforamento dello show di Stanley e compagni). L’inizio del concerto è semplicemente da infarto, con la band che cala da piattaforme poste nella parte alta del palco, in un tripudio di colori e scintille: “Detroit Rock City” e “Shout It Out Loud” sono due pezzi leggendari, ma una band come i Kiss può permettersi di suonarli così, in apertura, una via l’altra, perché alle loro spalle hanno un ventaglio di hit sterminato. Il concerto prosegue e il pubblico viene costantemente investito da un assalto sensoriale, fatto di fuochi d’artificio, fiammate, costumi sgargianti e schermi luminosi che proiettano immagini e filmati. C’è proprio tutto quello che ci si potrebbe aspettare da un ultimo grandioso tour di addio: il groove di “I Love It Loud”; la sfacciata sensualità di “Lick It Up”; Gene che sputa fuoco su “War Machine”; Eric Singer che picchia giù duro, mentre la sua batteria sale verso il cielo in “100,000 Years”; Tommy Thayer che spara razzi dalla chitarra su “Cold Gin”; ancora Gene Simmons che, illuminato da sinistre luci verdi, con la sua faccia indemoniata vomita sangue prima di lanciarsi nell’epica “God Of Thunder”; fino al circo stroboscopico e colorato di “Psycho Circus”. Non abbiamo ancora citato Paul Stanley, che giganteggia con le sue mosse, incitando senza sosta il pubblico, fino a prendersi un momento di protagonismo assoluto: grazie ad una sorta di carrucola, Paul vola letteralmente sopra le teste del pubblico, fino a raggiungere un piccolo palco rialzato, dal quale si lancia, tra le ovazioni del pubblico, nell’esecuzione di due altri grandi classici, “Love Gun” e l’immancabile “I Was Made For Lovin’ You”. Dopo un altro brano immortale come “Black Diamond”, arriva il momento dei bis: si parte con la delicata “Beth”, il brano simbolo di Peter Criss, cantato e suonato da Eric Singer al pianoforte. La canzone, inutile sottolinearlo, è un capolavoro, però ci ha fatto specie vedere una riproposizione di questo tipo, privata del suo protagonista originale, sebbene Eric sia stato credibilissimo anche in questo ruolo. Il resto, invece, è tutto una festa, con “Crazy Crazy Nights” e, ovviamente, “Rock And Roll All Nite” che chiude il concerto in un delirio di esplosioni e fuochi d’artificio che illuminano la notte svedese sempre più umida e nebbiosa. Abbiamo voluto il meglio e abbiamo ricevuto il meglio. Se davvero questo sarà il capitolo conclusivo della storia dei Kiss, non avremmo potuto avere finale migliore.

 

GORGOROTH
Prima di chiudere anche questa seconda giornata, decidiamo, come per gli Slayer, di dare sfogo alla violenza sonora più bieca, optando per lo show dei Gorgoroth sul 4Sound Stage. A causa del prolungamento del concerto dei Kiss oltre l’orario previsto, arriviamo sotto il palco con lo show dei norvegesi in pieno svolgimento. Vista la grandezza della manifestazione, eravamo convinti che la band di Infernus avrebbe portato on stage una produzione visivamente importante, come quella già mostrata in altri contesti simili. I Gorgoroth, invece, si presentano con un palco scarno ed essenziale, adornato solo da un fondale che riprende la copertina di “Instinctus Bestialis”, l’ultimo album in studio, risalente ormai al 2015. Anche dal punto di vista della scaletta non ci sono grosse sorprese, con la band a riproporre in maniera più o meno fedele la stessa selezione di canzoni portata in scena negli ultimi tour. L’esecuzione è spietata ed incalzante, un assalto sonoro votato alla distruzione e alla violenza cieca: brani mefistofelici come “Revelation Of Doom”, “Cleansing Fire” o l’accoppiata formata da “Destroyer” ed “Incipit Satan” sibilano incandescenti, mentre i musicisti si prodigano nel lasciare solo macerie e rovine. Le luci del palco non abbandonano mai il rosso intenso del sangue, mentre lampi epilettici di luce bianca illuminano brevemente le sagome minacciose sul palco, tra cui spicca quella del frontman Hoest, curvo e piegato su sè stesso, dalle movenze bestiali e sconnesse. Non suonano a lungo, i Gorgoroth, ma il loro è un assalto frontale, continuo e serrato, che però in qualche occasione sembra procedere un po’ per inerzia, in maniera fredda e distaccata. Al termine dello show, quindi, la sensazione è quella di aver assistito ad un concerto efficace, violento ed estremo, ma tutto sommato non indimenticabile.

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