08/06/2019 - SWEDEN ROCK FESTIVAL 2019 – 3° giorno @ Norje - Solvesborg (Svezia)

Pubblicato il 27/06/2019 da

Report a cura di Carlo Paleari
Fotografie di Karolina Vohnsen (Hammerfall), Sebastian Akerman (Blue Coupe), Maria Johansson (UFO) e Josefin Larsson (Rainbow, Saxon, Styx)

Sarebbe stato troppo riuscire a passare indenni i tre giorni di festival senza nemmeno un episodio di maltempo e, infatti, l’inizio della nostra terza giornata di festival viene funestato da un violento nubifragio che costringe l’organizzazione ad interrompere i concerti, mettendo al riparo persone ed attrezzatura. Per fortuna, però, la cosa si risolve in breve tempo e nessuno show viene cancellato. Aspettiamo che il cielo si apra e ritorni il Sole e, finalmente, ripartiamo con la cronaca dello Sweden Rock Festival!

 

STYX
Il nostro primo concerto odierno vede salire sul palco una formazione storica dell’AOR statunitense, gli Styx, che non avevamo mai avuto occasione di vedere dal vivo. Non sapevamo, quindi, cosa aspettarci, soprattutto in un contesto come quello di un festival, ma bastano le primissime battute di “Gone Gone Gone” per capire come gli Styx siano oggi in una forma strepitosa. Il cantante Lawrence Gowan non sta fermo un attimo, ora passeggiando per l’enorme palco, ora girando intorno al piedistallo rotante delle sue tastiere; il resto della band non è da meno, con una particolare menzione per Tommy Shaw, chitarrista e seconda voce ineccepibile in ogni frangente. Il ruolo da protagonista delle tastiere dà un tocco di classe vintage alla proposta, ma non ne diminuisce la forza e l’impatto, che rimane assolutamente in linea con le numerose formazioni hard & heavy che si alternano sui cinque palchi del festival. Tra i momenti più riusciti citiamo la cangiante “The Grand Illusion”; “Lady”, introdotta magnificamente dal pianoforte di Gowan; e la trascinante “Rockin’ The Paradise”. Su “Fooling Yourself (The Angry Young Man)”, invece, fa la sua prima apparizione il bassista originale e membro fondatore degli Styx, Chuck Panozzo, che continua a seguire la band pur senza presenziare per l’intera durata dei concerti (ricordiamo che Panozzo è sieropositivo). Il concerto prosegue tra atmosfere fantascientifiche e mirabili momenti melodici, concedendosi anche un breve omaggio a Freddie Mercury con un accenno alla parte operistica di “Bohemian Rhapsody”, cantata ovviamente da tutta la platea parola per parola. Impossibile non citare anche la lunga “Come Sail Away”, uno dei vertici della produzione della band americana; la splendida “Renegade”, posta in chiusura, e naturalmente la celeberrima “Mr. Roboto”, resa splendidamente da Gowan e compagni. Senza se e senza ma, uno dei migliori show dell’intero festival. ‘Domo arigato’, ragazzi!

 

U.F.O.
Sembra incredibile dirlo, ma gli U.F.O. di Phil Mogg festeggiano proprio quest’anno i cinquant’anni di attività, una carriera passata tra pezzi leggendari, concerti indimenticabili e litigi con il vecchio compare Michael Schenker. Nonostante tutto, però, gli U.F.O. sono ancora qui, anche se orfani di una colonna portante come Paul Raymond, deceduto lo scorso aprile. La band, elegantissima, sale sul palco e attacca immediatamente con “Mother Mary”: la formazione, che ormai ruota fondamentalmente intorno all’irriducibile Phil Mogg, vede al basso il giovane Rob De Luca, alla batteria lo storico Andy Parker (rientrato in pianta stabile dal 2005 con l’album “The Monkey Puzzle”) e il virtuoso Vinnie Moore alla chitarra solista, erede ormai del posto che fu di Schenker da più di quindici anni. A sostituire Raymond, invece, è tornato Neil Carter, chitarrista e tastierista che aveva fatto parte degli U.F.O. nei primi anni Ottanta. Il concerto messo in piedi dalla formazione inglese è energico e potente, con la band a riprodurre in maniera efficace le numerose hit composte nel corso dei decenni. D’altra parte, quando si ha nel proprio armamentario brani come “We Belong To The Night”, “Lights Out”, “Only You Can Rock Me”, “Love To Love” o “Too Hot To Handle”, diventa davvero facile sfiorare l’eccellenza. Ottimo il rientro di Carter, che si è inserito perfettamente nella sua doppia veste di chitarrista e tastierista, e anche Vinnie Moore, che avevamo avuto occasione di vedere in diverse occasioni con gli U.F.O., appare particolarmente in palla. Certo, a parere di chi vi scrive, lo stile del chitarrista americano non è quello che più calza a pennello ad una formazione come gli U.F.O., ma con quindici anni di onorata carriera alle spalle, Vinnie si è guadagnato sul campo tutto il diritto di considerare suo quel posto. Dispiace, invece, non aver avuto l’occasione di veder salire sul palco Pete Way, presente nella stessa giornata con la sua band solista, per un’ospitata a sorpresa… ci speravamo, onestamente. Il finale del concerto, come di consueto, vede la band riproporre tre pezzi leggendari: prima “Rock Bottom”, allungata per dare spazio alle scorribande soliste di Moore (e qui, per chi ha avuto modo di sentire dal vivo le versione di Michael Schenker, la differenza si sente eccome!); la leggendaria “Doctor Doctor”, accolta da un vero e proprio boato; fino a “Shoot Shoot” che chiude degnamente uno show di tutto rispetto. Un’ultima nota finale: quella dello Sweden Rock è una delle primissime date dal vivo per gli U.F.O. dalla scomparsa di Paul Raymond: se la memoria non ci inganna, non ci sembra che l’amico e compagno di viaggio di tanti anni sia stato nominato o ricordato nel corso del concerto. È vero, il lutto è un fatto privato e ciascuno ha diritto di viverlo come meglio crede, ma un breve ricordo, condiviso con i fan del gruppo sarebbe stato, a nostro parere, un bel gesto.

 

SAXON
Una certezza incrollabile. Ecco cos’è oggi uno show dei Saxon, una garanzia assoluta di qualità e coerenza metallica, vissuta sulla propria pelle per quarant’anni, a dispetto delle mode e dello scorrere del tempo. Se in altre occasioni ci siamo domandati, prima dell’inizio del concerto, a cosa saremmo andati incontro, con i Saxon lo sappiamo: un tuono heavy metal, ruote d’acciaio, potere e gloria, cuoio e jeans. Biff Byford e compagni aprono le danze e mettono subito le cose in chiaro con un trittico da infarto, formato da “Wheels Of Steel”, “Strong Arm Of The Law” e “Denim And Leather”. Rispetto all’ultima data della band inglese a cui abbiamo assistito, in quel di Trezzo sull’Adda, i Saxon si concentrano meno sul loro album più recente, “Thunderbolt”, limitandosi a suonare la title-track ed il tributo a Lemmy, “They Played Rock And Roll”. Grande spazio, invece, viene dato ai classici della band che vengono sciorinati con la sicurezza di chi ha passato la vita intera sul palco. La platea rumoreggia soddisfatta, con particolare entusiasmo su alcuni pezzi da novanta come “And The Bands Played On”, dedicata proprio al mondo dei festival; la rocciosa “Dogs Of War”, fino all’epica “Crusader” che infiamma la platea prima dei bis finali. La performance dei musicisti sul palco è ineccepibile, con un Biff sempre magnetico e carismatico, la lunga chioma al vento e la voce immediatamente riconoscibile. Il pubblico risponde con entusiasmo ed il cantante ne approfitta per ricordare come la Svezia sia da sempre, per i Saxon, una specie di seconda casa: ‘ci sono solo due posti al mondo dove abbiamo fatto sempre sold-out, fin dall’inizio, l’Inghilterra e la Svezia!’, ricorda Biff. Il concerto dei Saxon dura in totale un’ora e mezza: resta quindi ancora un po’ di spazio e, neanche a dirlo, gli inglesi hanno ancora parecchie carte da giocare. Tre canzoni e ciascuna di esse è un monumento in musica al concetto stesso di heavy metal: “Motorcycle Man”, “Heavy Metal Thunder” e, naturalmente, “Princess Of The Night”, che scatena il pubblico ancora affamato di chitarre e motori rombanti. I Saxon, dunque, si congedano tra gli applausi, forti dell’ennesima performance da capogiro: altre formazioni storiche hanno raggiunto maggiore successo commerciale agli occhi del grande pubblico, ma i Saxon devono aver scoperto la fonte dell’eterna giovinezza. Immortali!

 

HAMMERFALL
Dire che gli HammerFall in questa giornata giochino in casa è dir poco! Abituati a vederli suonare di fronte ad un migliaio o poco più di persone, gli svedesi in patria possono vantare una platea vastissima, che non ha nulla da invidiare a quella di tanti altri nomi più blasonati che hanno calcato il palco della manifestazione. E, d’altra parte, come potrebbe essere altrimenti di fronte ad un nuovo singolo intitolato “(We Make) Sweden Rock”? Il palco, enorme, è decorato con la grafica del prossimo album in studio, “Dominion”, in uscita ad agosto, e la band si catapulta on stage attaccando il concerto con “Legion”, seguita a ruota da “Hammer High”. Chi vi scrive non è un fan accanito degli HammerFall, pur seguendoli, di fatto, fin dal debutto, ma è innegabile come, in questa occasione, la band di Joacim Cans sia autrice di uno show degno della posizione di co-headliner. Oscar Dronjak con i capelli biondi e la tamarrissima chitarra-martello imperversa sul palco, mentre il cantante incita costantemente il pubblico, che canta a squarciagola i ritornelli immediati e melodici tipici della band. Finalmente dotati di una produzione all’altezza, non mancano momenti visivamente imponenti, come le alte fiammate durante “Blood Bound”; mentre nel corso di “Riders On The Storm” Joacim scende giù dal palco per avvicinarsi alle prime file, stabilendo quel contatto ‘da concerto nei club’ che non poteva avere sul maestoso palco dello Sweden Rock. Il set principale si chiude con la vecchia “Let The Hammer Fall”, che permette al vocalist di giocare col pubblico in un sing-along epico. Tocca quindi ai bis, che si aprono con “Templars Of Steel”, per poi lasciare finalmente spazio al primo album, spesso stranamente bistrattato dagli HammerFall in sede live, grazie a “The Dragon Lies Bleeding”, che travolge la platea con il suo power metal lanciato dritto come un treno. Ancora due brani, prima di chiudere, e si tratta del già citato nuovo singolo “(We Make) Sweden Rock”, brano in verità non indimenticabile, che però in questa occasione funziona grazie alla cornice perfetta; e naturalmente “Hearts On Fire”, una canzone che rappresenta una sorta di manifesto nella discografia degli HammerFall e che fa cantare tutti i presenti.

 

RITCHIE BLACKMORE’S RAINBOW
Pur essendo centellinate le apparizioni dal vivo di Ritchie Blackmore, non è la prima volta che vediamo dal vivo questa nuova incarnazione dei Rainbow. Eravamo presenti anche a Birmingham nel 2016, nell’ultima delle tre date che, almeno stando alle dichiarazioni di quell’anno, avrebbero segnato un’occasione unica ed irripetibile per vedere Blackmore imbracciare nuovamente la sua Stratocaster. Pur senza fare dei veri e propri tour, invece, i concerti dei Rainbow sono proseguiti anche negli anni successivi, sbarcando nel ruolo di headliner anche allo Sweden Rock. Rispetto ai Def Leppard e, ancora di più, ai Kiss, il pubblico appare più contenuto come numero, ma non è meno palpabile l’aspettativa nei confronti di un personaggio che ha scritto la storia del Rock. Fedele alla sua natura bizzosa e burbera, Ritchie Blackmore e la sua band salgono sul palco in ritardo di circa dieci minuti, un’eternità in una manifestazione che ha spaccato il minuto in tutti i concerti visti. Finalmente le note di “Over The Rainbow” si diffondono nell’aria ed è “Spotlight Kid” ad aprire le danze, permettendoci fin da subito di fare qualche considerazione. La sezione ritmica formata da Bob Curiano e David Keith appare oggi più affiatata, ma ancora siamo ben lontani dal livello auspicabile per il materiale dei Rainbow; mentre Jens Johansson è un grande professionista, ma si conferma un tastierista prestato all’organo Hammond, che suona con il coinvolgimento di un turnista. Stratosferico, invece, Ronnie Romero, sempre più a suo agio nel ruolo che fu di maestri come Ronnie James Dio, Ian Gillan e Joe Lynn Turner. E Ritchie? Ecco, se nella data di Birmingham avevamo tirato un sospiro di sollievo, rispetto alle disastrose prime date teutoniche, questa sera ci ritroviamo tristemente a dover constatare di aver beccato una delle giornate no del chitarrista. Va detto, Blackmore soffre ormai da anni di artrite reumatoide, cosa che compromette l’agilità delle sue dita, ma qui non si tratta di velocità: Blackmore è uno di quei chitarristi dal tocco magico, capace di suonare due note in croce e renderle poesia, quando è in forma. Man mano che il concerto prosegue, invece, ci ritroviamo ad ascoltare una performance sciatta, con assoli appena abbozzati, buttati lì perché la canzone lo richiede. Anche da un punto di vista scenico Blackmore sta in disparte, nelle retrovie, rendendo quasi difficile vederlo anche per chi, come il sottoscritto, si trova nelle prime dieci file. La scaletta non regala sorprese: solo tredici brani, che prediligono il materiale più catchy della band, come “Since You Been Gone”, “I Surrender”, “Long Live Rock ’n’ Roll” o “All Night Long”. Parecchie le incursioni nel mondo dei Deep Purple, con “Perfect Strangers”, “Mistreated”, “Burn”, “Black Night” e, ovviamente, “Smoke On The Water”; così come immancabile la classica rivisitazione elettrica della “Nona Sinfonia” di Beethoven con “Difficult To Cure”, allungata per lasciare spazio agli interventi solisti dei vari musicisti. Unico vero momento da brividi, la splendida “Stargazer”, un pezzo che, anche se non suonato al top della forma, è talmente fuori scala da risultare sempre magnifico. Dispiace dirlo, ma i Rainbow di oggi sono solo l’ombra del loro glorioso passato e il pubblico può solo sperare di riuscire a scorgere qualche lampo della leggenda: allo Sweden Rock, purtroppo, ne abbiamo visti molto pochi.

 

BLUE COUPE
Nei nostri programmi, avevamo pensato di concludere questa tre giorni con il concerto dei Behemoth, previsto sul Rock Stage. Sfortunatamente la band di Nergal è stata costretta a rinunciare a causa di problemi legati al volo, pertanto ci ritroviamo a valutare anche l’ipotesi di chiudere così questa splendida avventura. Ci stiamo avviando verso l’uscita della sterminata area concerti, quando dal 4Sound Stage percepiamo le prime note di una delle canzoni più belle mai scritte nella storia del Rock, “Astronomy” dei Blue Öyster Cult. Attratti modello canto delle sirene, ci ritroviamo quindi sotto il palco dei Blue Coupe, formazione che, ricordiamo, è composta da due storici ex-membri dei Blue Öyster Cult (i fratelli Joe e Albert Bouchard) e dal bassista Dennis Dunaway, una delle colonne portanti della Alice Cooper Band. Inizialmente avevamo pensato di saltare questo concerto, perché avevamo la sensazione che potesse trasformarsi nella classica esibizione da coverband di lusso. In parte è stato così, perché la scaletta a cui abbiamo assistito è stata composta solo da brani dei Blue Öyster Cult e di Alice Cooper, ma, diciamocelo, di fronte ad un catalogo del genere, come si fa a non esaltarsi come dei bambini? I Blue Öyster Cult mancano da tanto tempo in Italia, pertanto la possibilità di ascoltare dal vivo brani come “Hot Rails To Hell”, “Godzilla” o la leggendaria “(Don’t Fear) The Reaper” è cosa rara ed estremamente gradita. Al tempo stesso, fa piacere anche poter godere di una selezione di classici di Alice Cooper che, certo, vengono privati del suo interprete originale, ma in compenso spesso vengono rilette con un arrangiamento figlio degli anni Settanta che, nella band muscolare e metallica dell’Alice Cooper odierno, si è perso. Ulteriore chicca, l’arrivo sul palco di Ryan Roxie, chitarrista dello zio Alice fin dal 1996, che per due terzi del concerto affianca alla seconda chitarra Joe Bouchard, dando ulteriore energia e potenza alla performance. Tra classici intramontabili come “School’s Out”, “No More Mr. Nice Guy”, “I’m Eighteen” e una graditissima gemma come l’oscura “Black Juju” riportata alla luce, il concerto si conclude nell’entusiasmo generale. C’è spazio per un unico encore e la band sceglie di regalarci una possente versione di “Born To Be Wild” degli Steppenwolf, che rappresentava anche uno dei cardini delle esibizioni dei Blue Öyster Cult. Che dire? Per fortuna siamo passati nelle vicinanze del palco giusto al momento giusto: sarebbe stato un delitto perdersi un concerto di questa levatura, conclusione perfetta di una tre giorni intensissima, che speriamo di poter ripetere l’anno prossimo.

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