Report a cura di Carlo Paleari
Foto ufficiali di Konny Petterson (Accept, Volbeat), Maria Johansson (Alestorm, Hardcore Superstar), Karolina Vohnsen (Bombus, D-A-D), Jacob Olsson (Opeth, Rage), Sebastian Akerman (In Flames, Tiamat) e Stefan Johansson (Saxon)
Lo Sweden Rock Festival si è costruito un nome negli anni come festival accogliente, vivibile e adatto a tutte le esigenze. Organizzazione perfetta, un clima da sogno che, salvo maltempo, è ideale per stare tutto il giorno all’aperto, e soprattutto un equilibrio perfetto tra un’offerta vastissima e al tempo stesso la possibilità di accedere a spettacoli e servizi senza essere mai afflitti dalla ressa o da code interminabili. Proprio per questo, non stupisce vedere nel pubblico anche bambini, rigorosamente muniti di cuffie (obbligatorie), che condividono questa esperienza assieme ai genitori, oppure gruppi di avventori che si organizzano con delle sedie per dei picnic a suon di heavy metal. Dopo la splendida esperienza del 2019, abbiamo deciso di tornare nella verde campagna svedese, ritrovando la stessa splendida atmosfera che ci aveva colpito la prima volta. Come già tre anni fa, abbiamo rinunciato al giorno di apertura, da sempre quello meno ricco, ma abbiamo comunque trascorso tre giorni intensi rimbalzando tra i cinque palchi dello Sweden Rock e cercando di recuperare tutto il tempo perduto che questi due anni di stop ci hanno sottratto. Ecco dunque il nostro resoconto, buona lettura.
GIOVEDÌ 9 GIUGNO
Come di consueto, i cancelli dello Sweden Rock si aprono mentre dalle casse viene sparata a tutto volume “For Those About To Rock (We Salute You)” degli AC/DC, un benvenuto capace di mandare subito in fibrillazione il pubblico che velocemente inizia a riversarsi nell’area concerti. Giusto il tempo di acclimatarci con un rapido giro tra i numerosi stand e ci avviamo ad assistere al primo concerto della giornata. I TEN YEARS AFTER sono un pezzo di storia della musica e fa impressione pensare come questa band abbia calcato più di cinquant’anni fa il palco storico di Woodstock (per quanto con una formazione rimaneggiata). D’altra parte il rock blues del quartetto è uno di quei generi senza tempo, capace di essere apprezzato da più generazioni, e il pubblico dello Sweden Rock reagisce con calore al concerto: la band da parte sua si rende protagonista di uno show energico e di gran classe, in cui moltissimo spazio viene lasciato al dialogo strumentale, alle jam e alle improvvisazioni. Ottima l’intesa tra il tastierista Chick Churchill, uno dei membri originali, ed il cantante/chitarrista Marcus Bonfanti, il componente più giovane, in forze dal 2014: se il primo, infatti, colpisce per la sua pulizia e la capacità di creare linee melodiche efficacissime, il secondo risulta invece più grezzo e dirompente, aggiungendo freschezza alla performance del gruppo. Non mancano brani storici come “Love Like A Man” e “Good Morning Little Schoolgirl”, che rappresentano alcuni dei momenti migliori assieme alla cover di Al Kooper, “I Can’t Keep From Crying Sometimes”. L’ora a disposizione della band si avvia verso la conclusione e la band di vede costretta a tagliare un pezzo, per fare spazio a “Choo Choo Mama” che conclude una performance di alto livello.
Ci spostiamo quindi rapidamente in prossimità del palco principale, il ‘Festival Stage’, che ci accoglie con una scena surreale: il palco, infatti, è dominato da una mastodontica paperella gialla gonfiabile, mentre alle sue spalle fa capolino l’immagine di un coccodrillo che sorseggia un drink con occhiali da sole e camicia hawaiana. Niente di cui stupirsi, trattandosi di un concerto degli ALESTORM, una formazione che ci ha abituato alle più assurde follie alcoliche. La band si presenta sul palco vestita in maniera improbabile e subito si lancia in una coinvolgente versione di “Keelhauled”, seguita a ruota da “Treasure Chest Party Quest”. Il cantante Cristopher Bowes incita il pubblico, imbracciando la sua fedele keytar e ne approfitta anche per scherzare con la platea svedese, chiedendo a tutti di alzare il dito medio in direzione dei cugini scandinavi, celebrati in “The Sunk’n Norwegian”. C’è spazio per un paio di nuovi brani, “Magellan’s Expedition” e “P.A.R.T.Y.”, mentre il resto della scaletta è una bella raccolta di inni da osteria piratesca: da “Drink” a “Tortuga”, passando per le celeberrime “Fucked with An Anchor” e la conclusiva “Shit Boat (No Fans)”. La reazione del pubblico alla performance degli inglesi è assolutamente positiva, per coinvolgimento e partecipazione: fa quasi impressione vedere una distesa di persone degne di un headliner per un’esibizione avvenuta all’una del pomeriggio, quando normalmente una fetta del pubblico preferisce aggirarsi tra le decine e decine di banchetti di street food in attesa delle esibizioni più attese del tardo pomeriggio e della sera. Eppure gli Alestorm hanno il pregio di essere riusciti a creare una formula vincente: sarà il fascino bambinesco dell’immaginario dei pirati, sarà la totale assenza di serietà e quella autoironia che li rende immediatamente simpatici, fatto sta che il pubblico li ha accolti nel migliore dei modi, con un calore che la band ha saputo ricambiare canzone dopo canzone.
Chiusa la parentesi marinaresca, ci ributtiamo subito nella bolgia con un po’ di sana violenza. Non avevamo ancora avuto modo di vedere i SODOM nella loro nuova formazione a quattro, che vede il rientro dello storico chitarrista Frank ‘Blackfire’ Gosdzik, e l’impatto si conferma devastante. La band teutonica inizia a martellare la platea a suon di mitragliate thrash, alternando pezzi recenti come “Glock ‘n’ Roll”, “Sodom & Gomorrah” e “Caligula”, a dei grandi classici come “Agent Orange”, “The Saw Is The Law”, “Outbreak Of Evil” o “Nuclear Winter”. Questo nuovo assetto di guerra sembra essere massiccio e inarrestabile come non mai e anche il buon Tom Angelripper appare particolarmente divertito e soddisfatto della performance. Come da tradizione non può mancare l’abbaiare ringhiante di “Surfin’ Bird”, così come l’omaggio, sempre sentito, a Lemmy con la sua “Iron Fist”, cantata rigorosamente con il microfono rialzato. Divertente anche il siparietto causato da uno spettatore accompagnato da una bambola gonfiabile maschile dal grosso membro eretto: Tom, infatti, avendola intravista nel pubblico, dopo aver chiesto cosa fosse, ha chiesto al proprietario di lanciarla sul palco ed un paio di pezzi sono stati quindi eseguiti con questo inaspettato ospite, accolto tra risate ed ovazioni prima di essere rispedito in una specie di assurdo stage diving al suo legittimo proprietario. Chiude lo show l’immancabile “Bombenhagel”, a porre il sigillo su uno dei migliori show dei Sodom a cui abbiamo avuto il piacere di assistere.
Ci spostiamo quindi in uno dei palchi minori, perchè non vogliamo perderci la performance degli ORPHANED LAND, che avrebbero dovuto festeggiare anche in Italia il loro trentesimo anniversario, prima che la pandemia bloccasse tutto. La band israeliana ci fa fare un salto dall’altra parte del mondo, abbandonando la frescura estiva del sud della Svezia in favore dell’esotico calore dell’Oriente. Nei sessanta minuti a loro disposizione, gli Orphaned Land attraversano tutta la loro carriera, con una particolare predilezione per il loro album più recente, “Unsung Prophets & Dead Messiahs”, e per il seminale “Mabool”. Il cantante Kobi Farhi sottolinea come abbiano avuto poche opportunità di suonare in Svezia nella loro storia e sono dunque diverse le occasioni in cui il frontman sembra quasi voler spiegare alla platea la propria proposta e la filosofia che la anima. Ad esempio racconta come, al contrario della Svezia, che è una delle terre con una tradizione di pace tra le più longeve nel mondo occidentale, Isreale viva ancora quotidianamente la guerra e le contrapposizioni religiose: gli Orphaned Land, invece, vogliono unire, creando legami tra popoli e culture diverse, uniti dalla musica. Queste parole introducono “All Is One”, ma ci preme anche citare le ottime esecuzioni di “Ocean Land”, l’esotica “Sapari” ed “In Thy Never Ending Way”, in cui tutto il pubblico viene coinvolto nei cori, guidati da Farhi. Un po’ penalizzata la grandeur orchestrale degli ultimi Orphaned Land, sopperita in parte dall’uso di basi preregistrate, che però vengono quasi totalmente sovrastate nel mix complessivo, ma a parte questo la performance della band è di assoluto valore, come dimostra l’esecuzione da brividi della conclusiva “Norra el Norra”, canzone simbolo della band israeliana che sicuramente si è guadagnata qualche nuovo fan dopo questa incursione nello Sweden Rock.
Restiamo in territori progressive spostandoci sul Rock Stage, il secondo palco in ordine di grandezza, per l’esibizione di DEVIN TOWNSEND. Non c’è scenografia ad accompagnare il genio canadese, il palco è completamente nero, con una batteria minimale posta al centro: Devin entra accompagnato da tre soli musicisti (seconda chitarra, basso e batteria) e attacca subito con “Failure”. A fare da contrappeso a tanto minimalismo, ovviamente, c’è il muro sonoro creato da Devin e dalla sua band: ce ne accorgiamo in un crescendo che parte con le scariche elettriche di “Kingdom”, prosegue con l’andamento marziale di “By Your Command”, per esplodere definitivamente in “Aftermath”, episodio estrapolato direttamente dalla carriera degli Strapping Young Lad. Canzone dopo canzone ci rendiamo conto come la scaletta sia fondamentalmente la stessa del tour appena concluso a supporto dei Dream Theater, per cui possiamo gustarci un paio di classici del passato, come “Regulator” e “Deadhead”, ma il vero apice arriva con “Deep Peace”: Devin è perfetto, vocalmente ineccepibile e di una precisione assoluta come chitarrista. Il lungo assolo di questo capolavoro viene eseguito in modo magistrale, con il pubblico in religioso silenzio. Devin Townsend, però, è un artista troppo eclettico e un suo concerto è sempre soggetto a cambi repentini di atmosfere, per cui non ci stupiamo di passare dalla poesia di questo brano alla follia di “March Of The Poozers”, che ci catapulta nuovamente nel mondo fantascientifico di Ziltoid. Devin come sempre scherza col pubblico, lo prende in giro, e il suo carisma è innegabile; terminata la scaletta che ci aspettavamo, ci accorgiamo che c’è ancora un po’ di tempo a disposizione ed infatti arriva una sorpresa finale: si tratta di “Love?”, il secondo estratto dal repertorio degli Strapping Young Lad, che chiude l’ennesima esibizione spettacolare di questo incredibile artista.
Lo stesso minimalismo non è certo presente sul palco degli ACCEPT, su cui campeggia una enorme riproduzione della copertina del loro ultimo album. E proprio da questo si parte con “Zombie Apocalypse”, per dare il via ad un concerto di altissimo livello fatto di grandi classici e metallo rovente: gli Accept sono in una posizione abbastanza alta in scaletta, quindi hanno a disposizione un’ora e mezza di tempo, più che sufficiente per mettere in piedi un concerto intero, senza necessità di tagli o aggiustamenti. Il pubblico quindi può godersi una perfetta selezione di brani che comprende sia diversi estratti dal nuovo corso della band, quello iniziato con l’ingresso in formazione del cantante Mark Tornillo, sia una splendida selezione di classici intramontabili, come “Restless And Wild”, “Princess Of The Dawn”, “Fast As A Shark” o “Balls To The Wall”. La band appare in forma e si lancia nella più tradizionale rappresentazione del metallo classico: le tre chitarre spesso si affiancano per ondeggiare a tempo, gambe aperte e flying V puntate al cielo; Tornillo intanto incita il pubblico e si lancia in urla al vetriolo. Wolf Hoffmann è statuario, avvolto di pelle e borchie e ci delizia con riff fumanti ed assoli, con qualche citazione classica, come nel caso della celeberrima “Für Elise” di Beethoven, inserita come da tradizione nell’assolo di “Metal Heart”. Le ultime prove in studio degli Accept sono un po’ sbiadite e ben lontane dal fuoco dei tempi d’oro con Udo Dirkschneider, eppure dal vivo la formazione tedesca è ancora una garanzia, rendendosi sempre protagonista di spettacoli potenti e coinvolgenti.
Dopo una performance di questo livello non è semplice pensare di fare di meglio, ma se c’è una band che sa tenere in mano il pubblico, trascinandolo in una grande festa, quelli sono proprio i DROPKICK MURPHYS. La band sale sul palco e ci accorgiamo che manca Al Barr: sarà poi la seconda voce del gruppo, Ken Casey, a spiegarci come a causa di un imprevisto famigliare, il compagno abbia dovuto rinunciare alla serata. La band, però, non si fa fermare da questo incidente di percorso e si butta a testa bassa in uno show carichissimo. Quasi senza pause vengono sparati brani come “The Boys Are Back”, “The State Of Massachusetts”, “Johnny, I Hardly Knew Ya” e la sempre coinvolgente “Smash Shit Up”. Il pubblico appare molto coinvolto, la band non sta ferma un attimo, suonando con foga e punteggiando le canzoni di cori e momenti esaltanti e anche il buon Casey riesce a compensare l’assenza di Al Barr mettendoci il doppio dell’entusiasmo. Anche loro hanno a disposizione un’ora e mezza di tempo, quindi ancora una volta possiamo gustarci uno show completo, che vede la band ripercorrere la sua intera carriera, presentandoci anche un’anteprima di un nuovo brano, intitolato “99”, che sarà incluso in un nuovo album in uscita a settembre. Ancora una manciata di brani, tra cui l’immancabile “Rose Tattoo” e ovviamente lo show non può finire senza quella “I’m Shipping Up To Boston” che ha portato la band alla notorietà del grande pubblico. E’ proprio su questo brano che il coinvolgimento dell’audience raggiunge il suo apice, con l’intera platea che si unisce al coro della band, in una grande festa folk.
Lo Sweden Rock è noto per essere un festival indirizzato ad un pubblico vecchia scuola: sui suoi palchi solitamente troviamo i grandi nomi dell’hard rock, del metal classico, certo anche molte cose diverse, in modo da dare un assaggio di tutto, ma storicamente gli headliner si sono sempre mossi in questi territori. Quest’anno gli organizzatori hanno scelto qualcosa di diverso: tolti i Guns N’ Roses, di cui parleremo più avanti, gli altri due headliner sono dei nomi meno convenzionali nel contesto di questo festival. Così in un’estate che vede in tour, ad esempio, Iron Maiden e Judas Priest, lo Sweden Rock sceglie di puntare sui VOLBEAT come primo headliner. Chi vi scrive non appartiene alla schiera dei numerosi fan della band: non per malanimo o pregiudizio, semplicemente il sottoscritto non ha mai avuto occasione di approfondire la loro discografia, pur vedendo crescere la loro popolarità di anno in anno. Il bello di questi enormi festival, però, è anche questo: avere occasione di scoprire cose nuove o testare dal vivo per la prima volta band sfiorate solo con pochi ascolti. Coi Volbeat è andata più o meno così, quindi speriamo che il lettore non ce ne voglia se questo che scriviamo è più simile ad una prima impressione che il parere di un esperto. Partiamo dall’impatto visivo davvero eccellente: con una formazione piuttosto scarna ed un palco enorme, i Volbeat sfruttano al meglio i numerosi maxischermi, proiettando immagini, luci e colori che rendono la performance una gioia anche per gli occhi. L’apertura è affidata a “The Devil’s Bleeding Crown”, seguita a ruota da “Pelvis On Fire”, perfetto esempio di quella capacità della band di sintetizzare rockabilly e metal in un mix che funziona dannatamente bene. Irresistibile anche “Lola Montez”, un brano dalla perfetta linea melodica, catchy e coinvolgente. Un velocissimo omaggio a Johnny Cash con l’accenno a “Ring Of Fire” ed è poi lo stesso Michael Poulsen a dichiarare l’importanza del ‘man in black’ nella storia dei Volbeat: “C’è una canzone che abbiamo rub… ehm, volevo dire, per la quale ci siamo ispirati a Johnny Cash!”, scherza il cantante, prima di eseguire “Sad Man’s Tongue”, che effettivamente sembra una versione metallizzata di “Folsom Prison Blues”. I Volbeat sparano una cartuccia dopo l’altra, ora picchiando un po’ più forte, come in “Evelyn”, ora divertendosi con pezzi più rock ‘n’ roll, come “Wait A Minute Girl”, in cui compare un sassofonista che sarebbe potuto essere un membro onorario degli ZZ Top vista la lunga barba. Ci preme, infine, citare il sentito omaggio a Lars-Goran Petrov degli Entombed, che la band ha voluto ricordare prima di eseguire “Becoming”. Due ore piene, suonate con energia, che hanno saputo intrattenere il pubblico e che, come nel nostro caso, hanno sicuramente convinto anche coloro che vi hanno assistito senza conoscere bene le canzoni e la storia dei Volbeat. Forse è il caso di recuperare.
E’ ormai arrivata la mezzanotte e la temperatura inizia a scendere, pur senza essere veramente rigida: in programma avremmo ancora i Nightwish, pronti ad esibirsi fino all’una e mezza di notte, ma il festival è ancora lungo. Ci abbandoniamo alla stanchezza e rimandiamo alla prossima occasione.
VENERDÌ 10 GIUGNO
Puntuali all’apertura dei cancelli facciamo il nostro ingresso nell’area, pronti per affrontare la seconda giornata di festival. L’ingresso principale è molto vicino ad uno dei palchi più piccoli del festival, il Silja Stage, che solitamente ospita il primo concerto della giornata, alle 11.30. L’orario e la posizione a ridosso dell’apertura potrebbe sembrare controproducente per una band, ma la cosa va vista sotto diversi punti di vista: a quell’ora, infatti, non c’è ‘concorrenza’ e le centinaia e centinaia di persone entrate, spesso ne approfittano per guardare questo primo concerto mattutino, anche magari senza conoscerne i protagonisti. E’ quello che ci capita di fare con i FEJD, formazione folk metal svedese, che riesce ad evocare delle belle atmosfere, grazie all’utilizzo della lingua svedese nei testi e l’ausilio di strumenti antichi, tra tutti la moraharpa, uno strumento ad archetto che non avevamo mai visto suonare. La proposta della band non è estrema e il cantato pulito, con melodie dal sapore antico, che verosimilmente raccontano di leggende e miti dell’antica Svezia. Gli inserti prettamente folk ci sono sembrati i più efficaci, mentre i riff di chitarra, così come la voce, avrebbero potuto essere un po’ incisivi. Tutto sommato, comunque, una buona performance, che rivedremmo volentieri, magari al buio e con l’ausilio delle luci a creare la giusta atmosfera.
Uno dei concerti più attesi dal sottoscritto in questa edizione dello Sweden Rock era senza dubbio quello dei BOMBUS e la formazione svedese non ci ha delusi, regalandoci una prova di altissimo livello. Questi ragazzi riescono ad unire metallo classico, stoner, echi doom e l’eredità dei Motorhead in una formula dal tiro pazzesco. Dodici pezzi sparati dalle casse del palco direttamente nello stomaco degli astanti, che con grande soddisfazione si lascia maltrattare dalla voce al vetriolo di Feffe Berglund. La presenza di tre chitarre crea un notevole muro sonoro e sono numerosi i momenti di pura esaltazione: citiamo ad esempio la potente “Master The Reality”, la devastante “Deadweight” o “Abomination Rock ‘n’ Roll”. Sebbene lo show dei Bombus fosse previsto ad un orario non felicissimo, a mezzogiorno, il pubblico è già numeroso e partecipe, confermando l’interesse per una delle formazioni più interessanti del panorama (già ricchissimo) della Svezia. Senza dubbio una delle migliori esibizioni dell’intero festival.
E’ molto difficile avere tempi morti in un evento delle dimensioni dello Sweden Rock, vuoi per la durata generalmente elevata delle esibizioni, vuoi per l’estrema varietà ed abbondanza dell’offerta, eppure al termine dell’esibizione dei Bombus ci troviamo a girare senza una meta specifica. Decidiamo, quindi, di fermarci sotto il palco degli AMARANTHE, una band che non rientra negli ascolti abituali di chi vi scrive, ma che eravamo comunque curiosi di ascoltare: sfortunatamente nulla di quello che abbiamo ascoltato ha fatto sì che ci venisse voglia di approfondire ulteriormente la conoscenza della band di Elyze Reid. Consapevoli di attirarci le ire dei numerosi fan, quello a cui abbiamo assistito è uno show pomposo, in cui tutto viene frullato e sparato a mille: tre cantanti che fanno a gara a chi urla di più, basi ed elettronica soverchianti, riff tamarrissimi, giochi pirotecnici, il tutto a nascondere canzoni piuttosto inconsistenti. Poco male, non a tutti può piacere qualunque cosa, per cui voltiamo pagina e passiamo a qualcosa di diverso. Sul Festival Stage, infatti, lo staff dello Sweden Rock ha appena montato un luna park in miniatura, con pedane, un arco punteggiato di luci ed una giostra rotante al centro. Tocca ai D-A-D salire sul palco e l’atmosfera si incendia grazie ad una performance di altissimo livello: si parte con “Riskin’ It All” ed è subito evidente come la band sia assolutamente in palla. Jesper Binzer al centro guida le danze dividendosi tra chitarra e voce, Jacob Binzer, cilindro in testa, regala assoli di gran gusto, mentre il bassista Stig Pedersen ci delizierà per tutto lo show con il suo carisma e la sua collezione di assurdi bassi a due corde, che comprendono quello trasparente, quello ‘al contrario’, con il corpo a forma di paletta gigante e viceversa, per arrivare a quello a forma di razzo. Ultimo, ma non meno importante, il componente più giovane, Laust Sonne, indiavolato nel suo completo fucsia, con la batteria posizionata sulla giostra rotante al centro. La band si lancia in una buona selezione di brani tra passato e presente, spesso allungando le canzoni in modo da dare spazio al dialogo tra gli strumenti e all’interazione con il pubblico: l’esperienza di decenni passati sui palchi di tutto il mondo si vede tutta e il pubblico reagisce di conseguenza. Ad un certo punto, durante l’esecuzione di “Everything Glows”, Jesper scende dal palco direttamente i mezzo alla gente nelle prime file, mentre il resto della band continua a suonare sulla giostra rotante. Tra gli altri highlight della performance non possiamo non citare la splendida “Sleeping My Day Away”, la delicata parentesi acustica di “Laugh ‘n’ A 1/2”, per concludere con il lunghissimo blues di “I Won’t Cut My Hair”, portata avanti ad oltranza in una jam di altissimo livello.
Ancora carichi per la performance del gruppo danese, ci spostiamo sotto il secondo palco per l’esibizione degli OPETH. Mikael Åkerfeldt e la band salgono sul palco e attaccano subito con “Hjärtat Vet Vad Handen Gör”, un episodio dal loro più recente album in studio: l’esecuzione è come sempre perfetta, grazie ad una coesione e ad una capacità strumentale impressionante. Gli Opeth hanno a disposizione settantacinque minuti per la loro esibizione e – vista la durata media delle loro canzoni – sappiamo che non potremo aspettarci una selezione troppo vasta. Si prosegue quindi con il primo brano del vecchio corso e si tratta di “Ghost Of Perdition”, accolta con grande entusiasmo, che si alterna con un alto episodio della svolta prog rock, “Cusp Of Eternity”. Appare evidente come la band cerchi il più possibile di far coesistere i diversi aspetti della propria musica, anche se purtroppo sempre più spesso questo va a discapito della prima parte della discografia della band: così possiamo gustarci alcuni degli episodi migliori realizzati negli ultimi vent’anni, come “Sorceress”, un brano che ci convince sempre di più, la poetica “In My Time Of Need” da quel gioiello di “Damnation”, oppure la lunga e devastante “Deliverance”. Chi fosse invece più legato agli esordi della band, deve accontentarsi della sempre splendida “The Leper Affinity”. Non si leggano però queste righe come una critica: gli Opeth oggi sono questo e non avrebbe senso assistere ad un loro concerto sperando di ascoltare soprattutto canzoni del passato; piuttosto, se proprio dobbiamo muovere loro una critica, quella che abbiamo ascoltato è stata una scaletta un po’ scontata, con una selezione di brani che abbiamo già avuto modo di ascoltare molte volte e che avrebbe potuto essere più interessante con qualche ripescaggio più sfizioso. Musicalmente, invece, nulla da eccepire, una prova di grande impatto, punteggiata come sempre dalle battute di Åkerfeldt, che questa volta non possiamo seguire, non avendo nessuna conoscenza della lingua svedese.
Eravamo indecisi sul seguire o no l’esibizione dei SAXON, una band che abbiamo avuto modo di vedere dal vivo parecchie volte, ma alla fine l’affetto per Biff e compagni ha prevalso e quindi ci avviciniamo nuovamente al Festival Stage. I Saxon si erano esibiti sullo stesso palco nel 2019 per promuovere “Thunderbolt” e lo show di oggi sembra catapultarci esattamente a tre anni fa. Il tempo sembra essersi fermato, sia per la scenografia e il backdrop, che sono esattamente quelli visti nel 2019, sia per la band che deve aver trovato una qualche formula per l’immortalità, risultando come sempre efficacissimi ed inossidabili. La scaletta è una carrellata di classici che comincia con “Motorcycle Man” e attraversa “Wheels Of Steel”, “Heavy Metal Thunder”, “Strong Arm Of The Law”, “Denim And Leather” e tanti altri. Trova spazio un omaggio a Lemmy con il brano “They Played Rock ‘n’ Roll”, così come una dedica per la popolazione ucraina colpita dalla guerra durante “Broken Heroes”, mentre stranamente non viene eseguito alcun brano dall’ultima fatica in studio, “Carpe Diem”. Biff è un frontman carismatico e sa tenere in mano la platea, raccontando aneddoti del passato, o guidandoli in una gara tra lato destro e lato sinistro del palco, mentre il resto della band lo supporta come una macchina perfettamente oliata. Come già successo in passato, ad un certo punto il cantante prende la scaletta, la straccia e lascia al pubblico la scelta del prossimo brano: qualcuno dalla platea invoca a gran voce “Crusader”, che prontamente viene eseguita tra le urla del pubblico. C’è ancora spazio per un paio di canzoni e naturalmente non possono mancare “747 (Strangers In The Night)” e “Princess Of The Night”. I Saxon saranno anche sempre uguali a loro stessi, ma finché continueranno a fare concerti di questa fattura, non avremo certo di che lamentarci.
Il sole inizia ad abbassarsi nel lungo pomeriggio svedese e abbiamo ancora tempo per un altro concerto prima degli headliner: scegliamo ROSS THE BOSS, pregustando già una scaletta a base di classici dei Manowar. Le nostre aspettative non vengono affatto deluse, si parte con “Blood Of The Kings” e la sensazione non è affatto quella di trovarci di fronte ad una sbiadita cover band, ma al contrario una band capace in tutto e per tutto di tenere testa agli originali. Ross The Boss è ancora perfettamente in grado di sostenere le sue parti di chitarra e il suo peso nell’economia dei Manowar fa sì che lui abbia tutto il diritto di portare in scena questo repertorio. Il cantante Mark Lopes è perfetto nel cantare le parti di Eric Adams, mentre nel ruolo di Joey DeMaio troviamo una vecchia conoscenza: si tratta di Dirk Schlachter (Gamma Ray), che non sapevamo facesse parte della band e che ci è parso molto efficace anche in questa veste. E che dire del repertorio? Gli album con Ross sono senza dubbio anche i migliori della storia dei Manowar e quindi trovarsi dal vivo a cantare a squarciagola inni immortali come “Sign Of The Hammer”, “Thor (The Powerhead)”, “Black Wind, Fire And Steel” o “Kill With Power” è sempre un’esperienza di grande soddisfazione. Insomma, una band di livello, una scaletta da infarto, serve altro? Beh, c’è un’ultima sorpresa per il pubblico dello Sweden Rock: su due brani, infatti, appare in veste di ospite Snowy Shaw, il portentoso polistrumentista grande fan dei Manowar (tanto da mostrarci con grande orgoglio il suo tatuaggio con il martello alato), che ha affiancato Lopes alla voce in “Blood Of My Enemies” e nella epicissima “Battle Hymn”. Shaw appare veramente entusiasta e carichissimo, e sembra davvero di vedere un fan che ha appena esaudito uno dei suoi sogni: soprattutto, però, la sua performance non è stata affatto seconda rispetto a quella di Lopes, dimostrando di essere efficace e credibile anche nel repertorio di Eric Adams. Complimenti, davvero. Insomma, questa seconda vita di Ross The Boss sarà pure un’operazione nostalgica, fatta per bilanciare degli album solisti magari non sempre eccellenti, eppure ci siamo divertiti davvero come dei bambini.
Prima di passare al racconto di quanto fatto dagli headliner del secondo giorno, vale la pena scoprire subito le carte: chi vi scrive ha seguito con interesse la carriera degli IN FLAMES più o meno fino a “Clayman”, senza mai trovare grande interesse nella proposta della band svedese degli anni successivi. Nella memoria del sottoscritto, avevamo lasciato una band potente, tagliente, melodica, con diverse personalità, e invece oggi quello che ci troviamo è una band completamente diversa, con un apparato tecnico molto più grande, ma trasformata in una sorta di progetto solista contornato di turnisti pagati per stare in disparte e fare il loro senza troppo rumore. Se i Volbeat avevano riempito l’enorme palco dello Sweden Rock di ledwall e maxischermi, gli In Flames optano per un setup più minimale, con delle pedane metalliche a sostenere la postazione di batteria e tastiere e senza altri orpelli se non un maestoso impianto luci. Lo spettacolo della band inizia con un po’ di ritardo (una cosa inusuale in un festival che spacca sempre il minuto) per via di un problema di documenti capitato al chitarrista Chris Broderick, il quale era convinto di non avere bisogno del passaporto per attraversare il confine tra Danimarca e Svezia. Questo però non ha intaccato dal durata del concerto, che ha potuto constare di ben venti canzoni, tra cui l’inedito “State Of Slow Decay”. Pochi i momenti di vera gioia per un fan della vecchia guardia, con giusto la storica “Behind Space”, “Graveland”, “The Hive”, “Colony” e un paio di episodi da “Clayman”. Tutto il resto, invece è stato un compendio del nuovo corso degli In Flames. Anders Fridén è sicuramente la star dello show, mentre il resto della band, Bjorn Gelotte incluso, ci è parso piuttosto statico. Suoni e sonorità potenti, senza dubbio, una prova tecnica senza sbavature, eppure alla fine non possiamo dirci soddisfatti: alle nostre orecchie il concerto è parso eccessivamente monotono, freddo e asettico. Non è certo la prima volta che gli In Flames si trovano di fronte ad una platea così vasta, ma francamente non ci sembra che la formazione svedese abbia le potenzialità per diventare una band da stadio, trovando forse la sua condizione ideale in un contesto più raccolto. Peccato.
Pur trovandoci nel sud della Svezia, fa una certa impressione in estate vedere ancora una luce lontana passate le 23.30 e ancora di più vedere i primi chiarori spuntare ad est poco dopo le due di notte. In pratica, nella notte svedese di giugno, ci sono giusto due ore di vero e totale buio. Non stupisce, quindi, la scelta di far cadere l’esibizione dei MERCYFUL FATE esattamente in questo lasso di tempo, come se qualunque barlume di luce potesse in qualche modo contaminare la messa nera del Re Diamante. Pur non essendo formalmente gli headliner della giornata, sono molti coloro che attendono con ansia questo momento, avendo atteso per più di vent’anni questa reunion: fortunatamente le aspettative sono state mantenute alla grande e anche il pubblico dello Sweden Rock ha potuto contare sullo show completo dei Mercyful Fate, con scenografia e tutto il resto. Quando il telo con il logo della band viene calato ci troviamo di fronte ad un mausoleo marmoreo costellato di simboli satanici, dalla gigantesca croce rovesciata fino al capro incastonato nel pentacolo rovesciato con gli occhi accesi di rosso. Il concerto inizia con “The Oath” e subito dopo anche noi possiamo ascoltare la nuova “The Jackal Of Salzburg”, con i suoi dieci minuti di durata, che ci è parso un brano dal potenziale interessante, per quando forse un po’ prolisso in questa sua forma. Da lì in poi è un classico dietro l’altro, suonato in maniera perfetta da una band di fuoriclasse e cantati in maniera eccellente da un King Diamond vocalmente in forma strepitosa. La sezione ritmica di Bjarne T. Holm e Joey Vera picchia senza sosta, mentre la coppia di chitarristi, Mike Wead ed Hank Shermann, macina riff e assoli taglienti. King Diamond non sfoggia la sua classica divisa con abiti neri e tuba – quest’ultima arriverà giusto sul finale – ma indossa invece una serie di abiti sacerdotali, prima in rosso e poi in nero, con in testa ora una maschera a forma di teschio di ariete, ora una sorta di corona nera. L’effetto è forse un filo troppo kitsch, ma tutto sommato anche questo si armonizza bene in uno spettacolo sempre a cavallo tra concerto e pièce teatrale macabra. Quando le note di “Satan’s Fall” si spengono è ormai notte fonda, la temperatura si è sensibilmente abbassata, ma le ultime braci dell’Inferno continuano a bruciare. Il Re è tornato, ora lo aspettiamo con ansia al nostro Rock The Castle.
SABATO 11 GIUGNO
Dopo l’intensa giornata appena trascorsa, con la stanchezza che inizia a farsi sentire, il programma della terza giornata è un po’ meno fitto, ciononostante decidiamo comunque di fare una capatina al Silje Stage per vedere il primo concerto in cartellone. Si tratta degli ARTILLERY, storica formazione thrash metal danese, che ci dà una bella svegliata picchiando a più non posso di prima mattina. Quarantacinque minuti tirati e potenti che il pubblico, ancora poco numeroso, si gusta con interesse e trasporto. Uno show senza fronzoli, ben suonato, energico, su cui spiccano alcuni episodi particolarmente efficaci, come “Turn Up The Rage”, “Bombfoot”, “In Thrash We Trust” e “Khomaniac”. Non riusciamo però a guardare per intero l’esibizione degli Artillery a causa di una sovrapposizione con lo show di una band a cui chi scrive è particolarmente legato. Si tratta dei TIAMAT di Johan Edlund e ci si spezza il cuore al pensiero di vederli così, in un palco secondario sotto il sole delle dodici. Il frontman, d’altra parte, non è in forma da tempo e sappiamo già di non poterci aspettare quelle esibizioni meravigliose a cui abbiamo assistito negli anni Novanta. Posizionati sotto il palco, vediamo la band entrare sulle note di “Wildhoney”, che terrà banco per le prime canzoni, con l’esecuzione di “Whatever That Hurts” e “The Ar”. Johan Edlund fa il suo ingresso con in testa un cappello di paglia e una camicia verde hawaiana: è strano fare il confronto con la rockstar oscura del passato, ma per certi versi è meglio così, piuttosto che diventare una macchietta di se stessi. Notiamo anche con piacere il fatto che Edlund imbracci una chitarra, strumento che aveva abbandonato nei momenti di massimo declino. Il cantante è in condizioni leggermente migliori del solito e questa prima parte non delude le aspettative (comunque basse). Questo però non è uno di quei concerti totalmente incentrati su “Wildhoney” e “Clouds” e così dopo tanti anni abbiamo modo di riascoltare “Divided” (terribile, totalmente stonata), “Cold Seed”, “Cain”, la malinconica “Wings Of Heaven”, fino a quel gioiellino catchy e irresistibile di “Vote For Love”. Il vero colpo al cuore, invece, è “Phantasma Deluxe”, una canzone di una bellezza straziante che anche così, suonata e cantata in maniera sgangherata riesce a raccogliere su di sè una tale carica di decadenza, di triste ed inesorabile declino, da riuscire ad esprimere una propria beffarda bellezza. Il finale, invece, ritorna sul materiale classico della band, con “The Sleeping Beauty” e ovviamente “Gaia”. Ci è difficile dare un giudizio a questo concerto: la performance è stata debole, una pallida ombra di un passato ormai definitivamente scomparso, eppure siamo stati contenti di esserci stati, perchè comunque abbiamo assistito a un momento che ci ha mosso qualcosa dentro.
Appena terminato lo show dei Tiamat, ci fiondiamo dall’altra parte dell’area per almeno una parte del concerto dei SORCERER. La band svedese è una delle migliori realtà in ambito doom e li abbiamo seguiti con attenzione nelle ultime loro uscite discografiche. Purtroppo l’esibizione è già iniziata e ci perdiamo le prime canzoni, tra cui la splendida “Hammer Of The WItches”, ma il resto è eccellente e ci fa molto piacere vedere come i Sorcerer siano molto solidi anche dal vivo. La lunghe composizioni avanzano con incedere epico e potente, portando avanti quella tradizione doom figlia dei Candlemass che continua a regalarci grandi soddisfazioni. Tutta la band appare carica e felice di potersi esibire in un festival di questa portata, per quanto sul palco più piccolo, quello dedicato alle formazioni più underground. Il cantante Anders Engberg è un ottimo frontman, e la band lo supporta con un muro di suono di grande livello: ascoltiamo una devastante versione di “Lamenting Of The Innocence”, “Sirens”, “Unbearable Sorrow” e via via sempre più indietro, arrivando fino a “The Sorcerer”, un brano che ci riporta fino agli esordi negli anni Novanta. Una grande conferma, quindi, che speriamo di rivedere presto anche in Italia, magari in un tour vero e proprio da headliner.
Ci prendiamo finalmente una pausa per girellare con calma e riposarci un po’ nel food quarter e nel wine garden, per arrivare con calma al concerto dei RAGE di Peavy Wagner, che ancora una volta ha ricostruito la sua formazione, tornando ad organizzarla come quartetto. Una scelta che, per quanto abbiamo potuto vedere, si è rivelata vincente: i tre musicisti che accompagnano oggi il cantante/bassista forse non avranno la personalità di Terrana, Smolski, Schmidt o altri musicisti del passato dei Rage, ma l’alchimia è buona e il concerto scorre via liscio. La scaletta è ben bilanciata tra presente e passato: un paio di estratti dall’ultima fatica in studio e poi via via si va a scavare tra le tante gemme della lunga carriera di Peavy. Quasi senza pause i Rage ci mitragliano con brani come “Black In Mind”, “Shadow Out Of Time”, “End Of All Days”, “Don’t Fear The Winter”, per concludere come di consueto con l’immancabile “Higher Than The Sky”. Peavy, sempre più mastodontico, con il suo basso a tracolla coinvolge il pubblico, sorride molto e sembra essere molto contento di poter finalmente stare su un palco. Non l’abbiamo ancora detto, ma quasi tutti hanno voluto sottolineare la bellezza di ritrovarci ancora tutti insieme, in un evento che, come tanti altri, è stato rimandato e rimandato ancora, di anno in anno.
C’è ancora tempo per un paio di concerti nel pomeriggio e decidiamo di partire con i NIGHT RANGER, una band che difficilmente abbiamo l’occasione di vedere in Italia e che meriterebbe molta più visibilità da noi. D’altra parte basta guardare il curriculum di questi artisti per vedere di che pasta sono fatti: tra la loro band principale e collaborazioni varie, questi cinque musicisti hanno fatto cose che gran parte delle band si sogna soltanto. Il concerto di apre con “(You Can Still) Rock In America”, seguita subito da un altro classico come “Touch Of Madness”: la band ha un’ottima resa, suonando alla grande e gestendo ottimamente cori e seconde voci. La scaletta continua a regalarci grandi canzoni, con un paio di episodi dei Damn Yankees, formazione di cui faceva parte lo stesso Jack Blades, mentre su “Night Ranger” la band si lascia andare in un efficace assolo di batteria corale, in cui tutti i musicisti affiancano Keagy aggiungendo ritmi su ritmi. Ottimo anche il lavoro dei due chitarristi, Brad Gillis e Keri Kelli, che punteggiano le canzoni di grandi assoli e creano il supporto ideale per il basso e la voce di Blades. Naturalmente non può mancare un’emozionante versione di “Sister Christian”, mentre il finale è tutto dedicato ad una lunga versione di “Don’t Tell Me You Love Me”, la cui durata avrà sicuramente superato i dieci minuti e che ha fatto da splendida passerella per la classe e l’abilità di questa inossidabile formazione. Chi vi scrive non aveva mai avuto occasione di vedere i Night Ranger dal vivo e il bilancio finale ci è parso davvero molto positivo: se dovesse esserci occasione di rivederli, magari in una serata dedicata interamente a loro, sicuramente non ce la faremo scappare.
Ultimo spettacolo pomeridiano sul Festival Stage, prima dell’atteso arrivo degli headliner, è riservato agli HARDCORE SUPERSTAR, che salgono sul palco e attaccano con foga “Catch Me If You Can”, dal recente “Abrakadabra”. Proprio l’ultima fatica in studio sarà la protagonista della scaletta, con ben cinque episodi, a cui si affianca una bella selezione che ripercorre la storia della band svedese. Jocke Berg e compagni mettono in piedi uno spettacolo grintoso e graffiante, senza fronzoli e diretto al punto giusto ma, forse anche a causa della stanchezza, non ci sono sembrati esplosivi. Il lettore però non immagini uno spettacolo stanco o mediocre: l’ora e mezza in compagnia degli Hardcore Superstar è passata in maniera molto piacevole e il divertimento non è mancato, semplicemente anche la performance ci è sembrata vicina alla qualità media degli ultimi lavori, sempre interessanti e coinvolgenti, ma lontani dalla carica selvaggia degli esordi. Detto questo è impossibile ascoltare canzoni come “Wild Boys”, “Last Call For Alcohol” o la conclusiva “We Don’t Celebrate Sundays” senza sentire una bella scarica elettrica e sebbene gambe e schiena abbiano ormai raggiunto la consistenza della gelatina, gli Hardcore Superstar ci prendono giustamente a calci in culo quel tanto che basta per prepararci all’ultimo show, l’atteso ritorno dei GUNS N’ ROSES.
L’orario di inizio previsto per Axl Rose e soci è fissato alle 22.00, con a disposizione lo slot più corposo dell’intero festaval, ovvero due ore e mezza. Il pubblico svedese, però, non sa di avere a che fare con un ritardatario cronico e se alle 22.10 inizia a rumoreggiare, verso le 22.30 ha quasi perso ogni speranza, tanto da costringere l’organizzazione ad inviare una notifica sulla app ufficiale del festival per rassicurare i presenti. Ed in effetti finalmente le luci si spengono e i Guns N’ Roses salgono sul palco sulle note di “It’s So Easy”, tra le ovazioni del pubblico sollevato. Chi vi scrive ha già avuto modo di vedere la reunion di Axl, Slash e Duff, cinque anni fa a Imola, quindi sapevamo a grandi linee cosa aspettarci, nel bene e nel male: in questa occasione, però, il palco e la scenografia sono decisamente ridotti al minimo, con giusto dei maxischermi per la proiezione delle numerose animazioni e poco altro. La scaletta intanto snocciola brani su brani e non mancano le sorprese: da una parte abbiamo la consueta selezione di classici, con una netta predilezione per “Appetite For Destruction”, da cui vengono estratti ben otto pezzi, ma abbiamo modo di ascoltare anche “Absurd”, “Hard Skool” e addirittura “Shadow Of Your Love”, un brano nato addirittura ai tempi degli Hollywood Roses. Naturalmente non possono mancare i momenti di quiete, con grandi ballad del calibro di “Estranged”, “November Rain”, con Axl al pianoforte a coda, fino a “Patience”, suonata nei bis con Axl, Duff e Richard Fortus alle chitarre acustiche. Se già tutto questo non bastasse, i Guns mettono altra carne al fuoco con una ingombrante selezione di cover: ci sono quelle storiche, “Live And Let Die” e “Knockin’ On Heaven’s Door”, ma anche “Back In Black” degli AC/DC, “The Seeker” degli Who, “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges (con Duff alla voce) fino ad una delicata “Wichita Lineman” di Jimmy Web, resa celebre da Glenn Cambell ma suonata negli anni da tanti artisti, da Johnny Cash al nostro Zucchero.
Fin qui la pura cronaca dei fatti, ma come è andata? E qui le cose si fanno più complicate. La risposta breve sarebbe molto semplice: male. Male perchè la band è professionalissima, ma sembra solo recitare un copione, e male perchè Axl questa sera è apparso davvero in difficoltà: sono passati cinque anni e nel mezzo c’è stata una pandemia che ha fermato tutto, ma ad Imola le cose erano andate molto meglio di così. Molti cantanti con l’età si trovano a perdere la capacità di prendere le note acute, ma non è il caso di Axl, che invece spingendo sul falsetto riesce a cavarsela ancora quando deve urlare. Il suo problema, piuttosto, è l’aver perso quasi completamente l’agilità di passare da un registro all’altro, il che lo rende terribile proprio nel medio-basso, quando dovrebbe davvero modulare la voce (si veda ad esempio l’esecuzione di “Civil War”, dedicata al popolo ucraino). Se però queste carenze sono oggettive, non possiamo fare a meno di chiederci se dietro a molte delle critiche non ci siano anche delle aspettative totalmente fuori dalla logica: nessun cantante riesce a fare a sessant’anni quello che faceva a venti o trenta, è un dato oggettivo, ma coloro che hanno una carriera continuativa riescono a far digerire questo cambiamento lento e progressivo al proprio pubblico. Siamo certi, invece, che una discreta fetta del pubblico, che magari conosce i Guns per ciò che hanno registrato su disco all’apice della loro carriera, si aspettasse di ascoltare qualcosa di simile a ciò che avremmo potuto sentire nel tour del ’92, un’aspettativa senza senso che è doveroso ridimensionare se siete tra coloro in attesa della data italiana di San Siro. Servirebbe forse un bagno di realtà per tutti: per noi come pubblico, che dobbiamo essere consapevoli di ciò che andiamo a vedere, e per la band stessa, che forse farebbe meglio ad abbandonare i set da tre ore abbondanti, le mille cover, per fare piuttosto un’ora e mezza ma fatta bene.
Un’immagine, però, ci ha colpito alla fine del concerto, e su questa concludiamo: abituati a dover fare i conti con gold circle, vip ticket ed altre forme di esclusività, allo Sweden Rock non ci siamo fatti scappare l’occasione di vivere l’intero concerto dal pit, a pochi metri dal palco. Un festival di questo calibro non vive solo sull’headliner e, anzi, il sold-out è sempre assicurato indipendentemente dai nomi in cartellone. Il pubblico, quindi, non è composto solo da fan della band, ma è composto da molte persone che, come il sottoscritto, hanno trascorso nell’arena due, tre, quattro giorni. Al momento dell’inizio del concerto, possiamo dire che quasi tutti i partecipanti si sono riversati sotto il palco principale; tre ore dopo, vuoi la tarda ora, vuoi la stanchezza, vuoi la performance debole, metà della platea ha abbandonato prima della fine del concerto. Un segnale forte, che anche dei mostri sacri come i Guns N’ Roses farebbero meglio a prendere in considerazione.
Questo, però, non è un report di una data dei Guns, ma è invece la sintesi di tre giornate memorabili, che abbiamo vissuto al massimo e che contiamo di far diventare un appuntamento fisso. Abbiamo dovuto aspettare tre anni per poter fare il bis, dopo l’eccezionale edizione del 2019. Speriamo che questa ripartenza sia definitiva e ci diamo appuntamento nel 2023.