Report di Federico Orano e Carlo Paleari
Foto di David Scatigna
Trent’anni di storia, centinaia di concerti e un’atmosfera unica. Tutto questo è lo Sweden Rock, manifestazione in costante crescita che ci ha ospitato anche quest’anno e che, ancora una volta, ha appagato pienamente le nostre aspettative. Per la prima volta abbiamo deciso di presenziare a tutte e quattro le giornate, cercando di vivere pienamente un festival che si conferma ancora tra i più accoglienti e vivibili in Europa.
Per l’occasione gli organizzatori non hanno badato a spese, mettendo in piedi una line-up ricchissima e, pur non avendo sotto mano le cifre esatte, siamo abbastanza sicuri che quest’anno la partecipazione sia stata ancora più alta del solito. Una piccola concessione fatta al business, rispetto alla storica linea guida del festival che teneva volontariamente le presenze al di sotto dei 35.000 spettatori, probabilmente necessaria per far fronte ad un programma così ricco e, soprattutto, ai rincari che hanno pesato sull’intero settore.
Nonostante questo, l’intera esperienza si è confermata soddisfacente al cento per cento e, pertanto, senza ulteriori indugi, vi lasciamo a questo lungo report che, ci auguriamo, possa rendere giustizia al lavoro enorme fatto dal team dello Sweden Rock.
MERCOLEDÌ 7 GIUGNO
Attesissimi da molti metal fan viste le varie pubblicazioni di notevole fattura date finora alle stampe e ad un sound che sembra fatto su misura dal sarto per avere un impatto devastante dal vivo, i DYNAZTY salgono sul palco ben presto, quando il sole scende a picco poco dopo l’orario di pranzo. E allora rompiamo il ghiaccio di questa trentesima edizione dello Sweden Rock con il power metal dalle tinte nordiche del quintetto scandinavo, che esplode subito con la potente “In Arms Of The Devil”. Influenze moderne ed un sound pomposo sono diventate caratteristiche sempre più preponderanti all’interno della musica dei Dynazty, partita agli esordi seguendo un percorso di stampo più prettamente melodic hard rock.
I presenti sembrano aver digerito il pranzo – forse aiutandosi anche con qualche birretta fresca – e si metteno a cantare con piena voce durante le massicce “Firesign” e “Waterfall”. Eppure, rispetto a ciò che si è potuto ascoltare in studio, sembra mancare una dose di potenza durante lo show del gruppo svedese che non è mai riuscito durante la propria performance a riprodurre quel sound bombastico che esplode invece dalle casse quando ci si immerge nell’ascolto dei loro dischi.
Anche al microfono dobbiamo purtroppo constatare che Nils Molin (anche negli Amaranthe) ci è sembrato in leggera difficoltà nello star dietro alle linee vocali squillanti di brani come “Power Of Will” e “Presence Of Mind”. Il finale però è certamente azzeccato con la spensierata “Heartless Madness” che viene prolungata e lasciata cantare a lungo da tutti i fan accorsi. Non una prestazione stellare per i Dynazty che sono comunque riusciti a divertire i presenti visto il coinvolgimento che hanno suscitato. (Federico Orano)
In attesa dell’inizio dei concerti più succosi del pomeriggio, ne approfittiamo per fare un giro tra i palchi minori: sul Pistonhead Stage, l’unico posizionato sotto un tendone, sta per iniziare l’esibizione dei GRIMNER, formazione svedese che non conoscevamo e che ci ha convinto con la sua proposta a base di folk/viking metal.
La band si presenta sul palco agghindata di tutto punto con abiti vichinghi in pelle, pellicce e pitture di guerra sulla faccia. La loro musica evoca in maniera efficace quelle ambientazioni dark fantasy fatte di guerrieri torvi che si lanciano i scorribande e razzie nel cuore della notte, guidati solo dalla luce della luna e delle torce impiegate per dare fuoco alle abitazioni dei malcapitati.
Un riffing potente ma mai eccessivamente duro, che predilige la melodia all’assalto frontale, ed un buon uso della doppia voce, gutturale e pulita, riescono a ben bilanciare l’equilibrio sonoro dei Grimner, rendendo la performance al tempo stesso agguerrita ma facilmente fruibile anche da chi non conosce i brani (cantati in svedese) della band. Assolutamente degno di nota, infine, il flautista Johan Rydberg, il cui strumento caratterizza molte delle composizioni, che ha catalizzato l’attenzione del pubblico saltellando in giro per il palco come una sorta di bardo guerriero, incitando il pubblico senza sosta. (Carlo Paleari)
Ad aprire le danze sul Festival Stage, invece, ci pensano i SOILWORK di Björn ‘Speed’ Strid. Il cantante, che due anni prima aveva preso parte alla manifestazione con i The Night Flight Orchestra, torna all’attacco con la sua band principale e la temperatura, già superiore alla media, si alza di una tacca.
Strid si presenta sul palco in abiti neri, adornati da spalline piumate e attacca subito con la title-track dell’ultimo album, “Övergivenheten”. Il pubblico svedese è mediamente più statico di quello di casa nostra, ma dopo un paio di canzoni, anche grazie all’incitamento del cantante che invita il pubblico a rimescolarsi, si iniziano a formare i primi tumulti sotto il palco.
La performance della band è professionale e ineccepibile sotto ogni aspetto, con le due chitarre a scagliare rasoiate sulla platea, mentre il cantante alterna ringhi ferini e voce pulita con il piglio sicuro di chi ha carisma e mestiere. Brani come “Bastard Chain”, “Stabbing The Drama” e “Nerve” investono il pubblico, che a sua volta reagisce con entusiasmo fino alla conclusione affidata a “Stålfågel”. Non la inseriremmo nel novero delle migliori performance del festival, ma senza dubbio una bella iniezione di adrenalina. (Carlo Paleari)
C’era attesa per vedere dal vivo gli ANGRA in una delle loro prime date in Europa durante questo tour che va ad omaggiare i trent’anni di carriera della band brasiliana.
Ci aspettavamo quindi una scaletta che andasse a ripercorrere i classici del gruppo, capitanato dall’ormai unico membro storico rimasto, il chitarrista Rafael Bittencourt e così è stato.
Di conseguenza era lecito attendersi una maggiore affluenza di pubblico, che invece purtroppo ha un po’ deluso le nostre previsioni. La quadrata e recente “Newborn Me” apre le danze con Fabio Lione a rappresentare i nostri colori – nessuna band italiana ahinoi è presente a questa edizione dello Sweden Rock – che si mostra subito a suo agio. Nonostante gli anni che passano e una carriera che ormai ha abbandonato la nostra penisola, il cantante toscano è ancora capace di far tremare le casse mentre annuncia ai presenti che durante lo show ci sarà parecchio materiale datato.
Ed in effetti, subito dopo, sono le note introduttive di “Nothing To Say” a far partire un boato tra i presenti; il riff portante di questo brano è possente e le linee vocali sono interpretate sufficientemente bene da Fabio.
Se si parla di brani storici, gli Angra ne avrebbero a decine da proporre ma il tempo è limitato, solamente sessanta minuti: allora viene scelta “Angels Cry” dall’omonimo album di debutto, composizione segnata da una classe elevatissima che viene suonata alla grande anche dal nuovo chitarrista Marcelo Barbosa, il quale ha il duro compito di non far rimpiangere troppo Kiko Loureiro. “Lisbon” ha fatto emozionare più di qualche presente, soprattutto quando l’assolo di tastiera che veniva originariamente suonato da Matos viene riproposto dalla chitarra di Rafael. Nel frattempo Bruno Valverde siede dietro le pelli e mostra tutto il suo elevato talento. E’ l’elegante “Rebirth” a stregare poi i presenti con le sue sonorità raffinate, mentre trova spazio anche “Waiting Silence”, da un disco apprezzato come “Temple Of Shadows”, prima di lanciare l’immortale inno power metal “Carry On”.
I dubbi sul cantato del Fabio nazionale erano legittimi, sappiamo tutti come il suo timbro non si adatti facilmente alle linee vocali scritte e cantate dal compianto Andre Matos. Ma Lione fa la sua figura – certo, andando in difficoltà in talune occasioni, come in quest’ultimo pezzo – ma chiudendo lo show in maniera più che dignitosa quando partono le note roboanti di “Nova Era”. Non sono gli Angra di trent’anni fa e la formazione è ormai completamente diversa; musicisti però preparatissimi che riescono a confezionare uno show più che sufficiente. (Federico Orano)
Lo Sweden Rock non è certamente un festival votato alla musica estrema, eppure nell’offerta sterminata dei cinque palchi, è sempre possibile trovare qualche spunto interessante anche su tale versante. Quest’anno, ad esempio, abbiamo potuto assistere alla performance dei GRAVE, nome storico del death metal svedese che, oltretutto, non è noto per la sua intensa attività live, rendendo ancora più preziosa questa esibizione pomeridiana nella cornice del festival.
Ai Grave viene riservato uno spazio al Blåkläder Stage, il più piccolo tra i palchi all’aperto, ma un nutrito manipolo di ascoltatori inizia ad avvicinarsi per farsi malmenare a colpi di death metal. I musicisti rispondono all’entusiasmo del pubblico con uno show eccellente, che predilige la prima parte della propria carriera: niente fronzoli, comunicazione con il pubblico prossima allo zero, ma tanta, tanta sostanza.
Death metal di scuola svedese, suonato con un piglio che, naturalmente, non disdegna la pura violenza, ma la accompagna con un groove ed un uso intelligente della melodia, che permette al gruppo di dare numerose sfumature alla propria proposta. “Deformed”, “Out Of Respect For The Dead”, “Winds Of Change” e “Into The Grave” si abbattono sul pubblico, che risponde da par suo con qualche sporadico accenno di crowdsurving. (Carlo Paleari)
Storica band norvegese dedita a sonorità glam hard rock, i WIG WAM sono lanciatissimi, spinti dalle ultime pubblicazioni edite dall’etichetta partenopea Frontiers. E dal vivo il loro sound fatto di brani melodici e dal forte impatto, zuccherosi e ricchi di coretti e ritornelli di facile presa, funziona, soprattutto – a quanto pare – in terra svedese dove il pubblico si riversa numeroso.
Il loro look stravagante accompagna uno show davvero ben fatto, durante il quale la band norvegese è riuscita a creare un’atmosfera perfetta con i presenti che hanno partecipato con forte sentimento. Avvalendosi di alcuni brani di facile presa e perfetti in sede live come “Non Stop Rock And Roll” e “Rock My Ride”, il frontman Glam (Åge Sten Nilsen) è abile nell’aizzare la folla che riempie tutta la zone fronte palco spingendosi fino alle collinette più in là.
Giovani, anziani e famiglie intere si sono ritrovate a cantare tutti assieme le hit del quartetto nordico che viaggia sulle note sicure suonate dalla chitarra di Teeny (Trond Holter) e con la precisione alla batteria di un attento Sporty (Øystein Andersen). Ne esce un suono potente, a tratti un po’ sdolcinato ma che merita tutti i forti applausi arrivati con le travolgenti “Hard To Be a Rock ‘n’ Roller”, “In My Dreams” e “Do Ya Wanna Taste It”, trittico scelto per chiudere la setlist. Uno show davvero infuocato quello dei Wig Wam! (Federico Orano)
Dopo il pregevole show dei Grave, teniamo ancora alto il tasso di violenza con i TESTAMENT. Al contrario della data italiana, che ha visto la band di Chuck Billy esibirsi con Phil Demmel alla chitarra solista, il pubblico dello Sweden Rock ha la possibilità di riabbracciare Alex Skolnick, tornato in pista dopo l’emergenza familiare che l’ha costretto a saltare alcune date.
Alla batteria, invece, confermato Chris Dovas, che si renderà protagonista di una performance potentissima e senza sbavature, capace di tenere il passo dei nomi incredibili (da Dave Lombardo a Gene Hoglan) succedutisi dietro le pelli dei Testament. Avendo un’ora a disposizione, la scaletta del concerto riesce a coprire gran parte di quanto proposto nel tour estivo ancora in corso, rinunciando giusto a tre estratti: i nostri padiglioni auricolari, dunque, vengono percossi con violenza inaudita, andando a percorrere gran parte della carriera della band.
Così, da una parte abbiamo dei classici senza tempo come “The New Order”, “The Precher” e “Over The Wall”, a cui si contrappongono brani della carriera recente della band che, almeno in sede live, riescono tenerne il passo: parliamo di “Rise Up”, “The Pale King” o le nuovissime “Children Of The Next Level” e “Night Of The Witch”.Il livello tecnico della band è come sempre spaventoso e una vita passata a macinare concerti su concerti rende i Testament una certezza incrollabile, una macchina da guerra perfettamente oliata che semina distruzione quasi senza versare una goccia di sudore. Tocca ad “Into The Pit” accanirsi sulle ultime macerie e mentre, finalmente, ai nostri timpani viene dato un attimo di respiro, ci rendiamo conto di come il livello del festival stia salendo in maniera costante. (Carlo Paleari)
Sono solo le 20.15 quando sul palco principale del festival, arriva l’ora del primo show da headliner. Si tratta dei DEF LEPPARD, che stanno girando l’Europa assieme ai Mötley Crüe con una versione ridotta del loro faraoico Stadium Tour.
Chi scrive aveva avuto modo di vederli dal vivo proprio su questo stesso palco, nell’edizione del 2019, assistendo ad uno show di altissimo livello: per nostra fortuna anche lo show di quest’anno è riuscito a surclassare le nostre aspettative già alte, presentandoci una band in forma smagliante, con uno show rodato, una scaletta praticamente perfetta ed un carisma immutato nonostante i capelli bianchi.
Il sole è ancora alto nell’estate svedese, ma il ledwall dei Def Leppard è talmente maestoso da riuscire comunque a restituire un buon gioco di luci e colori, con animazioni e sfondi sempre dinamici ed efficaci. Il concerto si apre con “Take What You Want”, il primo estratto dal nuovo album “Diamond Star Halos”, che si rivela perfetta opener per lo show, da lì in poi è un profluvio di classici e hit, che fanno cantare l’intero pubblico: “Let’s Get Rocked”, “Armageddon It”, “Animal”… Brano dopo brano Joe Elliott e compagni prendono in mano l’enorme platea e la guidano con la sicurezza di chi questo mestiere lo conosce come le proprie tasche. Ogni componente della band è carismatico, sicuro di sè, perfettamente calato nel proprio ruolo: il cantante ha un approccio posato eppure sempre magnetico; la coppia d’oro alle chitarre, formata da Vivian Campbell e Phil Collen è un concentrato di classe (bellissimo il loro duetto su “Switch 625”); e la sezione ritmica di Rick Savage e Rick Allen resta una delle più rodate della storia del rock.
Tra gli highlight della serata non possiamo non citare la parentesi semi-acustica di “This Guitar” e “When Love And Hate Collide”, con la prima che, nella sua versione dal vivo, perde un po’ di quella patina pop che ci aveva fatto storcere il naso su disco, recuperando invece la sua dimensione più emozionante e calda. Allo stesso modo, naturalmente, non possiamo dimenticarci del finale, un vero e proprio climax che vede la band cimentarsi prima in una lunga versione di “Hysteria”, per poi concludere con un trittico di hit da urlo come “Poor Some Sugar On Me”, “Rock Of Ages” e “Photograph”.
Un altro concerto di livello assoluto per una band che, per il momento, non sembra soffrire lo scorrere del tempo, al contrario dei loro illustri compagni di tour. (Carlo Paleari)
In attesa di assistere al ritorno dei Mötley Crüe, ci spostiamo velocemente su un palco più piccolo, lo Sweden Stage, per lo show degli AVATAR. Raggiunta l’area ci accorgiamo di come la platea sia decisamente nutrita, ben sopra la media rispetto ai numeri abituali della stessa location. D’altra parte quello degli Avatar non è solo un concerto, ma è un piccolo frakshow ambulante, e, anno dopo anno, gli svedesi si sono costruiti una solida fanbase: merito di uno stile personale che unisce tanti generi in una miscela davvero difficile da catalogare, merito di uno show curato e pieno di dettagli e merito di un frontman Johannes Eckerström, carismatico e trascinante.
Anche in un palco ‘minore’ la scenografia degli Avatar è molto curata, con il logo della band ricoperto di led e tutta una serie di trovate che scopriamo man mano. Lo show inizia con la crew che porta sul palco un grosso pacco regalo, con tanto di fiocco, dal quale emerge Eckerström, vestito da direttore del circo e col suo trucco d’ordinanza a metà tra un clown e Brandon Lee. In mano tiene tre pallocini colori e, con un sorriso smagliante e inquietante, inizia a farli scoppiare, uno ad uno. L’esplosione del terzo, coicide anche con l’inizio dello spettacolo con “Dance Devil Dance”.
Nell’ora di concerto a loro riservata, gli Avatar snocciolano una serie di canzoni di grande impatto, da “Chimp Mosh Pit” a “Smells Like A Freaks”, passando per “Puppet Show”, in cui Johannes si cimenta anche con il trombone, o “Colossus”, in cui tutta la band suona con piglio marziale, in riga, come un minuscolo esercito di soldati giocattolo. Ed è proprio la cura del dettaglio a fare la differenza, come ad esempio il mini drumkit portato sul palco apposta per questa scena, o il carnevale di fuochi d’artificio, fiammate, scintille e stelle filanti che accompagnano le varie canzoni. Se a tutto questo aggiungiamo una performance musicale di grande impatto e una selezione di canzoni di valore, il giudizio finale non può che essere positivo. (Carlo Paleari)
Inutile girarci attorno, i Mötley erano attesi da diversi anni in Europa e – al di là delle polemiche scaturite negli ultimi tempi con l’ingresso in formazione del chitarrista John 5 a sostituire lo storico Mick Mars – i fan svedesi si sono dimostrati caldissimi davanti a Tommy Lee e soci. Dagli schermi laterali viene annunciata la band che per i prossimi novanta minuti prenderà il sopravvento sopra il palco, i MÖTLEY CRÜE!
“Wild Side” apre le danze con la sua andatura irrefrenabile e subito tutti si ritrovano a ballare e cantare. Il suono non è limpido ma è comunque ben bilanciato e così “Shout At The Devil” può essere sparata a tutto volume per la gioia dei presenti. Tommy Lee è carico come una molla e si dà da fare dietro la batteria anche quando i ritmi si alzano con “Too Fast For Love” e, quando si alza per parlare ai presenti, ringraziandoli del loro calore, riesce come al solito a far svestire qualche seguace sfegatata che non disdegna di mostrare le proprie curve in nome dell’hard rock!
Dal maxischermo posizionato sul fondo del palco vengono proiettate immagini ad alta risoluzione che, insieme ad un gioco di luci di altissimo livello, creano effetti veramente coinvolgenti. Inoltre due sexy ballerine/coriste non si risparmiano un attimo durante tutto lo show e si ritrovano a ballare sulle note delle peccaminose “Looks That Kill” e di “The Dirt (Est. 1981)”.
E se Nikki Sixx non mostra troppo i segni di una vita giocata per lungo tempo sul filo del rasoio, è cosa risaputa che è la voce di Vince Neil ad essere il tallone d’achille della band; onestamente, ci aspettavamo di peggio e Vince è riuscito a mantenersi per tutto lo show su livelli qualitativi quasi sufficienti, aiutandosi con qualche urletto stridulo qua e là, e solamente in alcune occasioni si è mostrato in netta difficoltà. Ad essere sinceri, non abbiamo apprezzato troppo il lungo medley – sia per quanto riguarda l’esecuzione (a dire il vero un po’ slegata tra le parti), sia per i brani proposti che si sono spinti fino ad “Anarchy In The U.K.” – ma per fortuna le calde emozioni scaturite dalla splendida ballata “Home Sweet Home” hanno riacceso la passione che è proseguita su livelli scoppiettanti grazie all’irrefrenabile andatura di “Dr. Feelgood” ed alle possenti “Same Ol’ Situation (S.O.S.)” e “Kickstart My Heart”.
Per il concerto perfetto bisogna cercare altrove, e questo lo sapevamo, ma tirando le somme la prestazione dei Motley Crue è stata sufficiente anche perchè molti dei brani proposti hanno ancora oggi un appeal talmente forte sugli appassionati di musica metal, che siano vecchi o giovani, che la carica che ottengono è enorme. (Federico Orano)
Guarda tutte le foto della prima giornata.
GIOVEDÌ 8 GIUGNO
Apertura dall’alto tasso alcolico per la seconda giornata dello Sweden Rock, grazie alla performance dei KORPIKLAANI, che portano in omaggio ai cugini scandinavi una buona dose di folk metal fermentato made in Finland. La musica dei nostri è giocosa e divertente, non ha grandi pretese e funziona molto bene in un contesto come questo, in cui l’atmosfera sta iniziando appena a scaldarsi e l’attesa nei confronti dei piatti forti della giornata è ancora lunga.
Il pubblico segue divertito fin dalle prime note di “Viinamäen Mies”, con un trasporto particolare per gli episodi più festaioli, come ad esempio “Happy Little Boozers”, “Sanaton Maa”, per non parlare, naturalmente, della loro hit per eccellenza, quella “Vodka” posta in chiusura e che fa saltare la già nutrita platea mattutina. Menzione d’obbligo, infine per “Ennen”, curiosa cover finlandese di “Got The Time”, il brano di Joe Jackson portato alla ribalta nel 1990 dagli Anthrax. (Carlo Paleari)
Chi vi scrive era particolarmente curioso di vedere la performance dal vivo di LITA FORD, avendo perso l’opportunità di partecipare alla recente data italiana allo Slaughter Club.
Con enorme dispiacere, quindi, ci siamo trovati a decretare il concerto di Lita come uno dei peggiori in assoluto dell’intero festival: al di là della scarsa forma vocale, che siamo pronti a comprendere, avendo a che fare con una signora di sessantacinque anni, e degli arrangiamente forzatamente modernizzati, quello che ci ha lasciato di stucco è stata la totale incapacità della cantante di gestire l’ora di concerto a sua disposizione. Soltanto nove pezzi in sessanta minuti, intervallati da un quantitativo di assoli semplicemente inaccettabile: chitarra, basso, batteria, ogni singolo musicista on stage si è preso il suo momento di ‘gloria’ macinando note o pestando sulle pelli, lasciando il pubblico ad attendere nella vana speranza di sentire, che strano, delle canzoni.
Senza voler minimamente esagerare, almeno metà del tempo a disposizione di Lita è stato letteralmente buttato via in questo modo o in inutili chiacchiere. Non sono bastati grandi classici come “Cherry Bomb” (del periodo Runaways), “Kiss Me Deadly” o “Larger Than Life” a risollevare la situazione. Giusto per non concludere nello sconforto, citiamo quantomeno una sempre emozionante versione di “Close My Eyes Forever”, suonata con l’iconica chitarrra e doppio manico e cantata in duetto assieme al chitarrista Patrick Kennison. (Carlo Paleari)
Discorso diametralmente opposto, invece, per i KATATONIA che, anche in condizioni non certo ideali per la loro proposta musicale, si sono resi protagonisti di una performance emozionante e perfetta. Fa strano vedere un Jonas Renkse quasi sorridente, sotto il sole a picco, invece che avvolto dal fumo bluastro di qualche club, o ascoltare brani come “Colossal Shade”, “Old Heart Falls” o “My Twin” immersi in una luce accecante, eppure nemmeno una goccia della decadente oscurità della band è andata perduta in questo show pomeridiano.
La scaletta del concerto segue in maniera piuttosto fedele quella dello show da headliner proposta nel tour con i Sólstafir: anche in questa occasione, dunque, ci troviamo a constatare l’efficacia dal vivo dei brani del recente “Sky Void Of Stars”, da cui vengono tratti ben cinque brani, con il resto del concerto a ripercorrere una buona parte della carriera della band. Dispiace un po’ l’assenza di qualunque brano precedente a “Viva Emptiness”, ma di fronte ad un concerto così efficace ed intenso, c’è davvero poco di cui potersi lamentare.
Ci lascia invece abbastanza spiazzati constatare la presenza di un pubblico decisamente inferiore alle aspettative, per una band del calibro dei Katatonia, ma il running order del festival ci segnala come, esattamente alla stessa ora, sullo Sweden Stage ci fosse l’esibizione di Steve Harris con i suoi British Lion, un musicista che, al di là della qualità intrinseca del suo progetto solista, è comunque in grado di raccogliere un notevole pubblico. (Carlo Paleari)
Forti del loro straordinario ultimo disco in studio “Phoenix”, eravamo davvero curiosi di vedere cosa erano capaci di fare in sede live i CROWNE, superband formata da musicisti che arrivano dalla scena svedese e da gruppi quali Europe, ArtNation, H.e.a.t e Dynazty.
Qualche problema con i suoni, in particolare durante la prima parte dello show con la voce di Alexander Strandell che veniva completamente coperta dalle chitarre e soprattutto dalla batteria suonata da Christian Lundqvist, non ha permesso alla band di esprimersi al meglio dando al pubblico il risultato sonoro sperato.
Ma per il resto i presenti si sono divertiti grazie ai brani ipermelodici ma al contempo potenti che il gruppo ha composto; prima con “King Of The North”, con il suo refrain tutto da cantare, e poi viaggiando sulle note spensierate dell’altamente canticchiabile “Super Trooper” e sulle sonorità ottantiane e dalle tinte AOR di “Sharoline”. Anche qui, come successo in precedenza con i cugini Dynazty, l’impatto sonoro non è stato paragonabile a quello su disco, dove la band può vantare una produzione davvero bombastica, e probabilmente la disabitudine di questi cinque musicisti nel suonare insieme non ha aiutato.
Ma nel complesso i Crowne escono a testa alta sulle note della hit “Champion”, brano selezionato per concludere lo show al meglio vista la reazione del pubblico che non ha smesso un attimo di supportare il gruppo di casa. (Federico Orano)
Udo Dirkschneider è, forse più di chiunque altro, una personificazione del concetto stesso di heavy metal: inossidabile, coerente, un suo concerto è un’esperienza talmente familiare che, anche la prima volta, sembra di sentirsi a casa.
Allo Sweden Rock il cantante tedesco porta lo show dei suoi U.D.O., quindi nessun brano storico degli Accept, ma solo una carrellata del meglio della sua discografia solista. Ad accompagnarlo, troviamo Peter Baltes al basso, uscito da poco dagli Accept; il figlio di Udo, Sven Dirkschneider, e una coppia di chitarristi decisamente promettenti, Andrey Smirnov e Dee Dammers.
I cinque mettono in piedi uno spettacolo che rinfranca lo spirito: canzoni semplici, dirette, intarsiate direttamente nel metallo incandescente, in cui i titoli delle canzoni sono sovrapponibili ai ritornelli e i ritornelli sembrano fatti apposta per essere cantati in coro. Udo, con le sue settantuno primavere alle spalle, sembra in forma smagliante e da vero professionista guida tutto il concerto senza però rubare spazio ai suoi compagni di band, che non svolgono il ruolo di semplici comprimari, ma appaiono coesi e coinvolgenti nel loro insieme.
La nutrita discografia solista del cantante non raggiungerà le vette degli Accept, ma di fronte ad uno show di questo livello, non abbiamo sentito eccessivamente la mancanza di qualche classico della sua vecchia band, godendoci invece brani come “Animal House”, “Go Back To Hell”, fino alle più recenti “Holy Invaders” e “Metal Never Dies”, un vero e proprio manifesto d’intenzioni che, in questa giornata, è stato più che rispettato. (Carlo Paleari)
Partecipare ai grossi festival europei ha il vantaggio di vedere all’opera i grossi nomi della scena come, in questo caso, Iron Maiden, Pantera, Motley Crue e Def Leppard ma anche di scoprire qualche gruppo semi sconosciuto.
E’ questo il caso dei CHILDREN OF THE SUN, giovanissimi musicisti che hanno dato alle stampe due dischi dalle sonorità fortemente legate al rock/blues degli anni Settanta. Se ci fosse un premio da dare alla miglior band emergente del festival lo vincerebbero loro a mani basse, visto che il loro show è stato stratosferico: appena ventenni ma preparatissimi e per nulla intimoriti nell’appassionare i presenti (che si sono riversati numerosi riempiendo il palco più piccolo ma comunque accogliente dello Sweden Rock), sono stati protagonisti di un concerto eccezionale.
La voce sublime della brava cantante Josefina Berglund Ekholm colora di magia lo scenario creando atmosfere sognanti; la loro musica non sarà originale – d’altronde si basa su sonorità già ampiamente esplorate in passato – ma l’utilizzo di una corista e la predisposizione di tutti i componenti nel cercare soluzioni mai banali, rende i pezzi della band molto accattivanti.
Come “The Soul”, che apre lo show assieme alle note blueseggianti di “Hard Workin Man”, mostrando le doti balistiche del bravo chitarrista Jacob Hellenrud mentre la tastierista, anch’essa giovane, Wilma Ås dà man forte anche nei cori e danza sui tasti d’avorio, regalando atmosfere psichedeliche durante “Her Game”. C’è spazio anche per l’anteprima del prossimo singolo in arrivo nei prossimi giorni e intitolato “Come With Us” mentre la chiusura è invece affidata alla dinamica ed intensa “Gaslighting”.
Suoni puliti, chitarre psichedeliche e la voce limpida e squillante a della carismatica cantante; se tenete una lista dove segnare le band da scoprire, appuntatevi i Children Of The Sun. (Federico Orano)
Freschi del loro ultimo “The Awakening”, disco accolto in maniera positiva pressoché ovunque, i KAMELOT si sono rimessi in tour pronti a riaccendere i palchi di tutto il mondo. I pezzi nuovi funzionano anche in sede live, come dimostrano “Opus Of The Night (Ghost Requiem)” e ancor più l’avvolgente midtempo “One More Flag In The Ground”, brano assolutamente coinvolgente e tutto da cantare.
Un indemoniato Karevik sale sul palco impugnando il microfono pronto a mostrare a tutti ancora una volta – se ce ne fosse bisogno – il proprio talento. “Veil Of Elysium” e “Insomnia”, entrambe estratte dal disco “Haven” danno il via allo show prima di tuffarsi su qualche brano del passato al quale i presenti non possono resistere. Tommy Youngblood e soci esplodono sulle note immortali di “Karma” e sui territori oscuri e possenti di “March Of Mephisto” facendo esaltare tutta la platea, mentre è inutile dire che sulle note di “Forever” tutti hanno cantato a squarciagola.
Il finale, con “Liar Liar (Wasteland Monarchy)”, è pura formalità per una band che si dimostra compatta e precisa: per questa formazione i chilometri fatti assieme sono elevati e bisogna ammettere che questa seconda vita dei Kamelot ha certamente trovato il successo sperato. Ci sentiamo di dire che il loro è stato uno degli show da fissare in alto per quanto riguarda il gradimento nostro e del pubblico durante questa giornata a Sölvesborg. (Federico Orano)
La crescita esponenziale dei GOJIRA appare in tutta la sua magnificenza anche nel contesto dello Sweden Rock, un festival il cui target non è esattamente sovrapponibile a quello della formazione francese, e che invece accoglie con enorme calore la band dei fratelli Duplantier. Il concerto si apre con una poderosa “Born For One Thing” e noi, che ci siamo addentrati nel pit per goderci al meglio lo show, veniamo investiti da un muro sonoro impressionante, che finora ha avuto rivali solo durante lo show dei Testament.
La cornice del Festival Stage, il più grande, viene sfruttata al meglio dalla band, che può vantare un ledwall imponente alle proprie spalle e tutta una serie di giochi pirotecnici che infiammano, letteralmente, il palco. Il pubblico accoglie con entusiasmo brani eccezionali come “Stranded” e “Flying Whales”, mentre Mario Duplantier continua a percuoterci in maniera inumana.
I Gojira hanno a disposizione ben settantacinque minuti e questo permette loro di mettere in scena uno show appagante e quasi completo, che raggiunge il suo apice in un finale devastante, composto da “Amazonia”, con le sue atmosfere tribali, “The Chant”, che coinvolge tutta la platea, fino alla conclusiva “The Gift Of Guilt”. (Carlo Paleari)
Che dire, i GREEN LUNG sono tra le band di maggior interesse uscite negli ultimi tempi all’interno dei generi più classici tra heavy metal ed hard rock di stampo settantiano. E con due dischi di gran valore alle spalle – “Woodland Rites” e “Black Harvest” – il quintetto inglese pesca con sapienza dal proprio materiale per andare a comporre una setlist intensa per una durata di un’ora intrisa di musica di classe.
Un sound che dal vivo avvolge i presenti attraverso composizioni intime ben accompagnate dalle melodie vocali ricercate cantate dalla voce frizzante di Tom Templar, per uno show che fila via liscio che è un piacere con “Woodland Rites” ad aprire le danze, spinta dalle chitarre dinamiche di Scott Black.
La ritmata “Leaders Of The Blind” fa muovere la testolina di tutti i fan accorsi ad osservare il gruppo britannico che ripropone alla perfezione i propri pezzi, “You Bear The Mark” colpisce con riff decisi fino ad un gran ritornello, mentre l’hammond suonato da John Wright apre la via al groove di “The Ritual Tree”.
I Green Lung sembrano nati per stare sul palco a suonare la musica della loro vita e la propria passione è contagiosa: continuando con “Upon The Altar”, i riff possenti di “Old Gods” e la conclusiva “Let the Devil In” sembra che l’orologio corra così veloce che è già tempo per i saluti.
Il quintetto inglese esce tra gli applausi convinti di tutti i presenti dopo uno show intenso che ci ricorderemo per un po’ di tempo. (Federico Orano)
I tunisini MYRATH erano attesissimi, con il loro spettacolo infuocato in tutti i sensi – vista la presenza di saltimbanchi, ballerine e appunto mangiafuoco – ma è una setlist davvero particolare quella che hanno deciso di riproporre, inserendo molte delle nuove composizioni che andranno a costituire il nuovo disco in studio, il quale vedrà la luce molto presto, come confermato dal bravo frontman Zaher Zorgati.
Rispetto agli show del passato questo aspetto ha reso l’atmosfera molto più fredda visto che i molti fan accorsi per vedere all’opera i propri beniamini sono rimasti sorpresi.; quando però sono i brani storici a prendere il sopravvento le cose migliorano sensibilmente. L’appassionante “Born To Survive” scalda il pubblico che canta il ritornello con ardore e la seguente “Dance” immette una dose incontrollata di esaltazione.
Ecco arrivare alcuni brani inediti con la sentita e articolata “Child Of Prophecy” e la maggiormente melodica “Let It Go”; sarò interessante valutare con cura questi pezzi quando usciranno su disco, ma le prime impressioni sono certamente positive.
Bello ritrovare “Merciless Times”, pezzo storico che conquista con le sue sonorità orientaleggianti e contenuto nel bellissimo “Tales Of The Sand”, disco che ha lanciato la band nel lontano 2011. Il chitarrista Malek Ben Arbia macina riff potenti aiutato dall’energia di Morgan Berthet dietro le pelli. Il finale è elettrizzante, con le note irresistibili di una delle loro hit ormai immancabili e che risponde al nome di “Believer”.
I Myrath eseguono uno show ineccepibile sotto tutti gli aspetti, anche se la scelta di presentare una scaletta così diversa dal solito non ha aiutato a creare la solita atmosfera coinvolgente che solitamente caratterizza le loro performance. (Federico Orano)
Il ruolo di primo headliner della seconda giornata dello Sweden Rock spetta ai DEEP PURPLE, che hanno raggiunto la loro nona incarnazione grazie all’ingresso in formazione di Simon McBride, chiamato a sostituire Steve Morse in maniera permanente.
Chi scrive ha già avuto modo di raccontare nel dettaglio la data bolognese di questo tour, ma a soli pochi mesi di distanza ci sono già delle considerazioni aggiuntive che possiamo fare. In primo luogo, appare subito evidente come i Deep Purple, che pure sono la formazione più anziana dell’intera manifestazione, sembrino godersi ancora ogni singolo concerto. E se è vero che ormai non è possibile pretendere delle performance vocali stellari da parte di Ian Gillan (classe 1945), la qualità eccelsa di questi quattri strumentisti, unita al carisma inalterato del frontman, permettono alla band di portare a casa l’ennesimo ottimo concerto.
La seconda considerazione che vogliamo sottolineare in questa sede è legata proprio al contributo di Simon McBride: oggi il chitarrista appare decisamente più integrato nell’organico e le sessioni di scrittura che porteranno alla pubblicazione del loro prossimo album in studio devono aver affinato l’alchimia tra il nuovo arrivato e i nostri.
Gli arrangiamenti delle canzoni, pur senza essere mai stravolti, iniziano infatti a subire l’influenza del chitarrista, e basta ascoltare le nuove versioni di “Uncommon Man” o “When A Blind Man Cries” per rendersene conto. La scaletta ripercorre a grandi linee quanto proposto dalla band negli ultimi tour, ma c’è comunque spazio per qualche chicca, a partire da una potentissima “Into The Fire”, cantata in maniera incredibilmente convincente da Ian Gillan, oppure “Anya”, recentemente recuperata dopo un’assenza che durava dal 1995.
Eccezionali come sempre Ian Paice e Roger Glover, vero e proprio motore ritmico dell’intera performance, mentre un sorridente Don Airey continua a divertirsi tra hammond e tastiere, ritagliandosi il consueto momento solista che, questa volta, omaggia la Svezia con una citazione strumentale di “Dancing Queen” degli Abba. Inarrestabili. (Carlo Paleari)
Gli headliner della giornata, sono anche i pupilli di casa: naturalmente stiamo parlando degli EUROPE.
La band capitanata da Joey Tempest è riuscita a tornare al top anno dopo anno dal loro ritorno sulle scene nel 1999, scalando ogni difficoltà e superando le critiche di ogni detrattore. E questo tour di enorme successo – che porteranno avanti durante l’estate e poi in inverno, con una scaletta che va a ripercorrere tutta la loro lunga carriera – è assolutamente imperdibile.
Tantissime hit indimenticabili e una manciata di brani più recenti a comporre la setlist, con questi ultimi che hanno però un peso decisamente importante per la band e sono apprezzate dai tanti fan accorsi anche questa sera per vedere all’opera John Norum e soci.
Le note ruvide ma altrettanto dolci che si delineano durante il bellissimo refrain di “Walk The Earth” rompono il ghiaccio, aprendo subito dopo la strada a “Seven Doors Hotel”, storico pezzo contenuto nel primissimo disco della band. Il calore che composizioni come “Rock The Night” e l’esaltante “Scream Of Anger” riescono a ricreare è immenso, con il pubblico molto coinvolto e estremamente partecipe, e quando le note sognanti di “Carrie” echeggiano dal palco, ovviamente l’emozione generale sale alle stelle.
La sessione ritmica con due veterani come John Levén al basso e Ian Haugland alla batteria, spinge con precisione, e conduce la scoppiettante “Stormwind” che fa da contraltare alla melodica “Sign Of The Times”, la quale risplende esaltata dalle note magiche delle tastiere.
Tempest possiede un carisma davvero capace di catturare, e la sua voce angelica riesce ancora a colorare di azzurro, come il cielo alzando lo sguardo, brani immortali come “Superstitious”. Arrivano i saluti al pubblico, ma è evidente che ci sarà un encore visto che mancano all’appello giusto un paio di pezzi che hanno scritto la storia dell’hard rock melodico: le note trionfanti di “Cherokee” fanno riemergere la band sul palco assieme alle ultime forze che il pubblico riesce a racimolare, per lasciarsi abbracciare poi dalla mastodontica “The Final Countdown”, una di quelle canzoni che vivranno per sempre tenendo accesa la fiamma dell’hard rock e perfetta chiusura di uno show sopra le righe, firmato da dei veterani che ancora oggi riescono a commuovere e suscitare emozioni in tantissimi appassionati. Immortali! (Federico Orano)
Guarda tutte le foto della seconda giornata.
VENERDÌ 9 GIUGNO
La giornata del venerdì era segnata in agenda da settimane visto che all’unanimità era considerata la più interessante – con una quantità enorme di band imperdibili – ma al contempo massacrante poiché le esibizioni si sono susseguite una dopo l’altra senza un attimo di respiro. Di conseguenza è stato d’obbligo puntare la sveglia ben presto, bere un caffe in velocità e fiondarsi nell’area del festival per essere presenti alla performance dei CONEY HATCH fissata alle 12.15. La band di culto ottantiana che non si poteva proprio perdere visto che non è affatto semplice incontrare un loro concerto in giro per l’Europa.
Troviamo già il quartetto canadese sul palco a suonare le prime note, quelle di “We Got The Night” con un sound pulito e avvolgente che esce dalle casse. Con la successiva “Stand Up” cade ogni dubbio sulla freschezza di questi musicisti, che nonostante l’età hanno ancora molto da dare: il gruppo è compatto e recupera i pezzi dei loro dischi storici, quei primi tre lavori considerati album di assoluta qualità nella scena hard and heavy, su tutti il debutto omonimo e soprattutto “Friction” datato 1985.
Sono brani come “She’s Gone”, “Fantasy”, “Fallen Angel” (questa estratta dal secondo “Outa Hand”) a far breccia tra i presenti, in particolare sui rocker più esperti che sembrano apprezzare, birra alla mano e testa che si muove al ritmo della batteria.
La band è a registrare il nuovo disco in Germania, un live album che vedrà la luce tra qualche settimana e ne ha approffittato per fissare alcune date in giro per l’Europa. Con il chitarrista e cantante Cral Dixon che racconta alcuni aneddoti sulle date che la band fece con gli Iron Maiden durante il tour di “Piece Of Mind”, il concerto prosegue con la compatta “Devil’s Deck” prima di salutare il caloroso pubblico. La pensione è lontana per i Coney Hatch; una musica intramontabile la loro, nettare per le orecchie dei molti appassionati delle sonorità più classiche. (Federico Orano)
Neppure un attimo di respiro: 13.15 la fine dell’esibizione dei Coney Hatch, 13.15 in punto la partenza degli H.E.A.T., ma sul palco principale.
Corriamo spediti direzione Festival Stage per tuffarci davanti al palco e lasciarci coinvolgere e tramortire dall’energia di stampo melodic hard rock che da sempre esce dalle casse quando suona la band svedese, tra le più attese della giornata!
Il ‘nuovo’ frontman Kenny Leckremo (che è stato nella band ai suoi esordi salvo poi ritornare dopo alcuni anni firmando l’ultimo disco in studio) è carico come una molla e il pubblico ancor di più, aumentando l’adrenalina generale con l’impressione che la band capitanata dal chitarrista Dave Dalone voglia lasciare il segno davanti ai fan di casa, e pezzi come “Back To The Rhythm” e “Rock Your Body” sono energia esplosiva purissima pronta a entrare nelle vene dei presenti e perfetti per rompere subito il ghiaccio. Don Crash non si risparmia e colpisce con vigore i tamburi della propria batteria quando è ora di sparare la storica e indiavolata “Beg Beg Beg” e con la più recente “Hollywood”, che funziona alla grande anche in sede live.
Bello riascoltare dopo tanti anni l’elegante “1000 Miles” contenuta nello splendidio disco di debutto della band. Il finale è da pelle d’oca con l’immortale “Living On The Run” e l’inno rock “A Shot At Redemption”. Uno degli show più infuocati e riusciti dell’intero festival – ma noi non siamo affatto sorpresi – è senza dubbio quello degli H.e.a.t! (Federico Orano)
Alla fine anche PHIL CAMPBELL si è arreso al suo passato e, in quest’estate festivaliera, il chitarrista, accompagnato dai suoi Bastard Sons, ha deciso di portare in tour un set interamente dedicato ai Motörhead. E’ un peccato? In parte sì, perchè comunque abbiamo apprezzato la scelta di Phil di andare oltre, rimettendosi in gioco con una nuova band a conduzione familiare, pur senza mai rinnegare il proprio illustre passato, e questo ruolo da cover band ha un po’ il gusto amaro della resa. Ma diciamoci la verità, possiamo fare tutti i ragionamenti del mondo, ma quando Phil ci spara addosso una mitragliata di capolavori come “Iron Fist”, “Damage Case”, “Born To Raise Hell”, noi non possiamo che gustarci ogni singolo minuto del concerto.
E’ chiaro, Lemmy ci manca, in maniera dolorosa e fa strano assistere ad un set dei Motörhead senza di lui, ma Phil Campbell ha tutto il diritto di suonare queste canzoni e la sua band riesce a stargli dietro con energia e la giusta attitudine. Abbiamo apprezzato particolarmente l’inclusione di “Just ‘Cos You Got The Power”, un vero e proprio capolavoro, così come dell’inaspettata “Silver Machine”, risalente al periodo degli Hawkwind. Il resto è una carrellata di classici, da “Ace Of Spades” a “Overkill”, passando per “Killed By Death” e “Going To Brazil”. Ci manchi, Lemmy. L’abbiamo già detto? (Carlo Paleari)
Per gli amanti delle sonorità più melodiche ed eleganti degli anni Ottanta solamente sentir pronunciare il nome TNT può provocare alcune emozioni. La band norvegese ha pubblicato dischi di immenso valore come “Tell No Tales” e “Intuition” ma ha dovuto convivere con tanti problemi di line-up soprattutto per quanto riguarda il ruolo di frontman.
Si fanno attendere i nostri, in quello che forse è l’unico ritardo durante le quattro giornate di festival. Qualche problema tecnico – a quanto pare – ma dopo una decina di minuti ecco salire sul palco il rientrante e storico cantante Tony Harnell, che dopo essere entrato ed uscito dalla band quasi una decina di volte, sembra carico per suonare i brani storici come la superlativa “As Far As The Eye Can See” in apertura di show.
Accompagnati da due coriste che aiutano a dare corpo alle parti corali, appunto, oltre che ad aumentare l’effetto visivo sul palco, lo show prosegue senza intoppi. Il leader e chitarrista Ronni Le Tekrø è sul pezzo e accompagna le note raffinate di “Tonight I’m Falling” e della lenta “Northern Lights” concedendosi un lungo e sentito assolo. Impossibile resistere alle favolose note di “Forever Shine On”, tutta da cantare e dal delicato refrain della meravigliosa “Intuition”, che come ricorda il cantate americano, fu un brano che quando venne pubblicato fu capace di restare in alto nelle classifiche svedesi per lungo tempo. La chiusura è affidata a “Seven Seas”, unico estratto da “Knights Of The New Thunder”, secondo disco della band e datato 1984. Forse un po’ slegati sul palco e non affiatati al massimo, ma in grado di suonare le storiche hit con estrema sapienza; lo show dei TNT è stato comunque molto piacevole. (Federico Orano)
Sebbene nel cartellone dello Sweden Rock convivano pacificamente band AOR e formazioni black metal, c’è un nome in questa edizione che appare particolarmente fuori contesto. Parliamo dei RANCID, band storica del punk californiano, unico esponente di un genere sicuramente poco frequentato nella cornice del festival. In effetti non c’è una folla sterminata sotto il palco dei Rancid, ma la band non si lascia intimorire e mette in piedi uno show essenziale ed efficacissimo.
Nei sessanta minuti a loro disposizione, la band statunitenze concentra ben ventidue canzoni, di cui la metà estratte da quel “…And Out Come The Wolves” che ha donato loro la massima visibilità negli anni Novanta. Chi, come chi scrive, era un teenager proprio in quegli anni, difficilmente può trovarsi di fronte a brani come “Roots Radicals”, “Radio”, “Time Bomb” o “Ruby Soho” senza finire per canticchiarli, indipendentemente dalle proprie abituali frequentazioni musicali. I Rancid, da parte loro, cercano di calarsi il più possibile nel contesto, arrivando ad accennare le prime note “Wasted Years”, in omaggio agli Iron Maiden, headliner della giornata.
Una parentesi musicale diversa da solito per la platea dello Sweden Rock, ma non per questo meno gradita. (Carlo Paleari)
Pronti a viaggiare nel tempo e riassaporare le hit degli storici White Lion con il loro ex leader e cantante? E allora ecco MIKE TRAMP che quest’estate girerà l’Europa (e ha pubblicato di recente un disco tramite Frontiers) con una scaletta incentrata sui brani scritti nell’era del “Leone Bianco”.
E c’è parecchia gente ad attendere il frontman danese che non mostra i segni dell’età e ripropone con estrema scioltezza i pezzi che tutti attendevano e conoscono a memoria come “Lonely Nights” e “Hungry”, canzoni che hanno segnato per qualcuno dei presenti momenti importanti della propria vita. Come la lenta strappalacrime “Living On The Edge” o l’impatto melodico ed intenso di “Little Fighter”, Quando Mike annuncia la storica hit “Wait” il pubblico esplode in un boato e canta con lui le linee vocali indimenticabili di questo pezzo. Il tempo corre e tra un successo e l’altro è già ora dei saluti, ma non prima di partire con l’arpeggio sognante che apre “Broken Heart” e subito dopo con la malinconica “Lady Of The Valley”. E’ stato un bel salto nel passato con la voce calda di Mike Tramp e i brani incancellabili firmati White Lion. (Federico Orano)
Tra la band che attendevamo di più in questa edizione, ci sono senza dubbio i BLUE ÖYSTER CULT, sia per la qualità stratosferica della loro musica, sia perchè è quasi impossibile ormai riuscire a vederli in concerto nel nostro Paese. A dir la verità, anche la data dello Sweden Rock appare un evento eccezionale: la band, infatti, è impegnata in un tour negli Stati Uniti e questo show svedese rappresenta l’unico appuntamento europeo, figlio, forse, di accordi presi prima della pandemia (i Blue Öyster Cult erano stati annunciati per l’edizione mai realizzata del 2020).
I cinque salgono sul palco e attaccano subito con “Transmaniacon MC”: Eric Bloom, che quest’anno compie la bellezza di settantanove anni, appare un po’ affaticato, mentre ci è sembrato assolutamente in forma Buck Dharma, di pochi anni più giovane. A dare man forte ai due veterani, ci sono due professioni come il batterista Jules Radino e il bassista Danny Miranda, ma il vero asso nella manica è Ritchie Castellano, polistrumentista tuttofare che da un po’ di anni a questa parte è diventato una colonna portante della band. E’ lui, ad esempio, a farsi carico di un lungo assolo di chitarra durante la splendida “Then Came The Last Days Of May”, che si conferma uno dei momenti più emozionanti della giornata.
Poi, come sempre, a fare la differenza ci sono le canzoni: “Burnin’ For You” e “Godzilla” sono delle vere e proprie hit; “Black Blade”, il cui testo, ricordiamolo, è stato scritto da Michael Moorcock in persona, fa impallidire generazioni di band cresciute a pane e D&D; e poi c’è quella “(Don’t Fear) The Reaper” che, quando inizia con il suo iconico giro di chitarra, fa scattare immediatamente centinaia di smartphone, avidi di catturare una piccola fetta di storia del rock. (Carlo Paleari)
Gli show che da anni mettono in piedi i POWERWOLF sono ben noti in quanto a carica e coinvolgimento. Ciò grazie alla bravura dei cinque tedeschi nel creare situazioni capaci di trascinare il pubblico con alcune gag ben studiate, mentre al resto ci pensano dei brani perfetti che si prestano ad essere sparati a tutto volume in sede live.
Anche stavolta i lupi teutonici non deludono affatto, ed esplodono con vigore fin da subito con “Faster Than The Flame”, “Army Of The Night”, “Armata Strigoi” e “Amen & Attack”.
Attila Dorn con la sua voce piena fa vibrare la platea e riesce a far cantare praticamente tutti presentando la storica “Resurrection By Erection”; al suo fianco Falk Maria Schlegel che dall’alto del palco, mentre suona il suo organo scrutando l’orizzonte, si concede qualche pausa e scende per aizzare la folla. Quella dei Powerwolf è una macchina oliata e che, rodata alla perfezione, viaggia come una Lamborghini.
C’è altresì da dire che l’effetto sorpresa, per chi ha già presenziato più volte alle performance della band tedesca, tende un po’ a mancare e di conseguenza a rendere lo show leggermente ripetitivo. Ma come si può criticare una band che chiude con le marce altissime la propria esibizione sparando a tutto volume la massiccia “Sanctified With Dynamite”, la possente “We Drink Your Blood” e infine “Werewolves Of Armenia”? Ancora una volta i Powerwolf escono dal palco consci di aver fatto un egregio lavoro. Il pubblico si è divertito e si è sentito coinvolto durante un concerto che può probabilmente essere considerato tra i più elettrizzanti di questa attesissima giornata. (Federico Orano)
Solitamente non è difficile raggiungere posizioni strategiche nell’enorme parterre a disposizione per il palco principale dello Sweden Rock, ma qui si parla degli IRON MAIDEN, una vera istituzione, e praticamente la totalità del pubblico presente inizia ad assieparsi intorno al Festival Stage, ansioso di poter finalmente assistere a questo “The Future Past Tour”, evento costruito intorno a due album in particolare, ovvero l’ultimo “Senjutsu” e lo storico “Somewhere In Time”.
Finalmente le note di “Doctor Doctor” degli U.F.O. danno il via allo spettacolo e la platea esplode in un boato, mentre i Maiden salgono sul palco e attaccano proprio con “Caught Somewhere In Time”.
Ci saranno altre occasioni per raccontare dettagliatamente questo spettacolo, soprattutto in occasione della data italiana, quindi ci limitiamo in questa sede ad alcune considerazioni generali. Partiamo proprio dalla band, che ci è sembrata ancora in ottima forma: certo, i tempi in cui sul palco c’erano cinque musicisti che saltavano in continuazione da una parte all’altra sono passati, e perfino Janick è stato molto più compassato nelle sue tipiche mosse, ma tutto questo non ha scalfito una performance che si mantiene ancora su livelli enormi.
Il palco, rispetto alla messa in scena faraonica del “Legacy Of The Beast” è più spartano: le grafiche di ogni singola canzone si avvicendano alle spalle della band, l’Eddie-samurai è uno dei più belli della storia dei Maiden, ma la trovata scenica più azzeccata è quella che vede Bruce Dickinson appollaiato dietro una sorta di cannone-mitragliatrice, da cui spara fuochi d’artificio direttamente contro l’altra versione di Eddie, quella sci-fi del classico degli anni Ottanta.
In realtà a fare la vera differenza, questa volta, è la scaletta, capace di rendere felice soprattutto chi ha visto i Maiden dal vivo molte volte. Niente “Hallowed By Thy Name” e “The Number Of The Beast”, da sempre irrinunciabili, e largo invece a “Stranger In A Strange Land”, “The Prisoner”, per arrivare infine a quella “Alexander The Great”, chiesta per anni a gran voce dalla community dei Maiden e diventata oggi uno dei momenti più esaltanti dell’intero concerto.
Passando all’altro protagonista della serata, abbiamo potuto constatare con un certo sollievo come la resa dal vivo dei brani di “Senjutsu” sia decisamente buona: “The Writing On The Wall” acquista forza e potenza rispetto alla sua controparte in studio; “Hell On Earth” convince nonostante la posizione anomala come primo bis; e anche “Death Of The Celts”, un brano abbastanza standard a firma di Steve Harris, sembra quasi rinascere, diventando una sorta di fratello minore di “The Clansman”. Una grande serata, dunque, e non vediamo l’ora di fare il bis, il 15 luglio, all’Ippodromo di Milano. (Carlo Paleari)
Non è facile per nessuno salire sul palco dopo gli Iron Maiden, ma i BEHEMOTH ormai possono vantare uno show di grandissimo impatto, tanto musicale quanto visivo. Certo, la proposta è molto diversa e il pubblico dello Sweden Rock, ormai decisamente provato, inizia a dividersi, chi verso casa, chi verso i palchi ancora attivi, eppure è molto numeroso il numero di persone che sceglie di immolarsi sul fuoco infernale di Nergal e compagni.
Avvolti dalle tenebre garantite dalle poche ore di buio nella notte svedese, il quartetto polacco sfrutta al meglio il tempo e l’enorme palco a loro disposizione: la scenografia è come sempre curata, Nergal celebra il suo rito avvolto nei suoi abiti di scena più sfarzosi e il palco è costantemente invaso da colossali fiammate che accendono di rosso la fredda e umida notte. La scaletta concede molto spazio, naturalmente, all’ultimo lavoro della band, “Opvs Contra Natvram”, ma la selezione dei brani copre in maniera efficace tutta la carriera dei Behemoth.
Il pubblico partecipa con trasporto, brulicando in circle pit e saltuarie esplosioni di pogo liberatorio. Ai due lati del palco, due strutture enormi permettono a Nergal e compagni di salire molto in alto, dominando la scena con regale malignità e, sebbene tre giorni di concerti ininterrotti stiano iniziando ad esigere un prezzo ai nostri muscoli doloranti, non riusciamo a non buttarci almeno per qualche canzone nel mezzo del caos del pit. (Carlo Paleari)
Tra le proposte più interessanti uscite negli ultimi anni dalla prolifica Svezia all’interno dell’animata scena melodic hard rock, ci sono certamente i PERFECT PLAN che questa sera sono pronti a salire sul palco più piccolo dello Sweden Rock per riproporre alcuni dei brani che fanno parte dei loro tre dischi fin qui pubblicati. L’attesa per osservare l’impatto live della band – ed in particolare la splendida voce di Kent Hilli – è elevata: possiamo però affermare che il gruppo scandinavo sa come dosare la propria miscela fatta di melodie eleganti – con ritornelli canticchiabili – e una carica strumentale che dal vivo acquista ancor più vigore.
Insomma, l’impatto live dei Perfect Plan è positivo già in partenza con “Time For A Miracle”, brano davvero coinvolgente seguito dalla rockeggiante e compatta “Bad City Woman”. Kent Hilli ha una voce angelica, capace di esplodere prima con una certa potenza durante “Better Walk Alone”, poi si lasciandosi andare con la sua purezza più limpida sulla ballata “Heart To Stone”, davvero da applausi.
Il pubblico è nutrito e apprezza anche se – a voler trovare il pelo sull’uovo – non ci sarebbe dispiaciuto un maggior volume per la chitarra di Rolf Nordström, che a tratti fatica a sentirsi a dovere. Nel complesso però tutto funziona soprattutto quando nel finale partono le hit tutte da cantare, prima con l’agelica “Heaven In Your Eyes” e successivamente con l’ipermelodica “In And Out Of Love” togliendoci le ultime energie. Promossi anche dal vivo i Perfect Plan! (Federico Orano)
Una giornata durissima in quanto a band imperdibili durante questo venerdì infuocato che si conclude con i maestri del prog metal, i THRESHOLD. Raccogliendo le ultime energie rimaste ci siamo catapultati nel palco adiacente, per essere testimoni dello show del gruppo britannico. A mezzanotte in punto la performance di Richard West e soci ha inizio.
Il pubblico forse non è numeroso come la band meriterebbe, ma è dall’inizio della carriera che i Threshold raccolgono meno di quanto meriterebbero. Il gruppo se ne frega e dà una lezione di musica a tutti; suoni perfetti ed una prestazione individuale di ogni membro della band davvero notevole. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla voce del recente innesto al microfono, ovvero Glynn Morgan (anche lui rientrato in formazione dopo tanti anni), possiamo dire che la sua prestazione è stata certamente positiva anche se dal punto di vista della tenuta sul palco, Damian Wilson era tutt’altra cosa.
Tanti brani recenti in una scaletta che, anche a causa di qualche pezzo dalla lunga durata come la nuova e splendida suite “Domino Effect”, riesce a suonare solamente sette canzoni. Funziona alla grande “Haunted”, pezzo che tra partiture progressive e melodie dal forte impatto, riesce ad appassionare. La storica “Mission Profile” esalta il pubblico, che inizia a cantare e ad agitarsi, mentre dietro la batteria scorgiamo un inarrestabile Johanne James. La naturalezza con la quale West alla chitarra e Groom alle tastiere riescono a suonare con grinta e precisione fa sempre un certo effetto, anche se il loro look che sa tanto di due impiegati che hanno appena timbrato il cartellino ma sopra il palco si trasformano dando lezioni di tecnica ed eleganza. Le nuove “Silenced” e “King Of Nothing” funzionano anche in sede live con aperture melodie sempre ammalianti, mentre a chiudere ci pensa la possente “Small Dark Lines”. Suoni ed esecuzioni sublimi, peccato solo per una scaletta troppo incentrata sulle produzioni recenti. Una meraviglia che ci manda a casa col cuore pieno ed un sorriso stampato in faccia. (Federico Orano)
Guarda tutte le foto della terza giornata.
SABATO 10 GIUGNO
Pantaloncini corti in jeans, t-shirt nera, sneakers e cappellino: si presenta così Wolfgang Van Halen, figlio del leggendario Eddie, pronto a scaldare – fin dalle prime battute – l’ultima ed intensa giornata dello Sweden Rock.
Sono solamente le 12.15 ed il sole cade a picco, ma il musicista californiano non si fa certo problemi a salire sul palco per presentare ai molti presenti la musica della propria band, i MAMMOTH WVH. Il loro disco d’esordio, di un paio d’anni fa, ha attirato le attenzioni di molti e tra poche settimane vedrà la luce il seguito, chiamato semplicemente “II”. Diretto, onesto, semplice ma capace di suonare dannatamente bene anche grazie a dei compagni di viaggio scelti accuratamente.
Sono ben tre le chitarre sul palco, visto che a dar man forte a Wolfgang, il quale si prende cura della quasi totalità degli assoli, troviamo i bravi Jon Jourdan, per le ritmiche, e Frank Sidoris, con il suo tocco dinamico. Una presenza sul palco molto coinvolgente per il quintetto americano, che esplode dalle casse con un sound potente e pulito suonando un hard rock capace di prendere le influenze dalla musica più moderna e alternativa e unirla ad un tocco funky e melodie vocali, cantate dall’onnipresente Van Halen, a tratti pop.
“Mammoth” apre la strada ad uno show compatto che tiene incollati per un’ora di buona musica. L’energia del batterista Garrett Whitlock è irrefrenabile continuando ad esplorare il disco d’esordio con la progressiva “Mr. Ed” e la possente “Stone”, dal tocco stoner. Trovano spazio sia “Hero”, cover apprezzata dei Foo Fighters, sia un paio di brani nuovi di zecca contenuti nel prossimo lavoro in studio, entrambe già presentate ai fan tramite dei video promozionali: “Like A Pastime” e “Another Celebration At The End Of The World”. Suonano alla grande i nostri, riproducendo alla perfezione, anche vocalmente, i brani ascoltati in studio. Ma quello che più ci piace è l’approccio molto alla mano di Van Halen e soci, che hanno saputo ricreare un perfetto feeling con il pubblico. (Federico Orano)
La prima band a calcare il Festival Stage nell’ultima giornata dello Sweden Rock sono i MONSTER MAGNET, che si esibiscono in un contesto perfetto per le loro sonorità: il sole splende e folate di vento sollevano vere e proprie ondate di polvere che si riversano sul pubblico.
Allo stesso modo, i riff desertici e pesanti della band si abbattono sulla platea, evocando paesaggi lisergici ed interstellari: si parte con “Born To Go” degli Hawkwind, seguite a ruota da “Superjudge” e “Crop Circle”. La forza dei Monster Magnet è quella di riuscire a funzionare alla perfezione in qualunque contesto, che sia in un club oppure, come in questo caso, sfruttando l’impianto mostruoso di un festival da decine di migliaia di persone per smuovere pachidermici riff di devastante pesantezza, irrorati come si conviene dalle radici del blues più acido e mefistofelico.
Dave Wyndorf non si perde in chiacchiere e la band si lancia in un’ora di concerto essenziale, potente e privo di qualunque orpello scenico. Persino il backdrop della band, un semplice telo sfilacciato ed ingiallito, sembra provenire da qualche scantinato polveroso, ma non serve molto altro quando si può contare su canzoni come “Powertrip”, “Tractor” o la devastante “Space Lord”, messa in chiusura a suggellare uno show di alto livello. (Carlo Paleari)
I TWILIGHT FORCE portano avanti da anni il loro power metal sinfonico basato su ambientazioni fantasy, ricreate anche in sede live grazie alla presenza scenica della band che accompagna i presenti all’interno di un viaggio con tanto di narrazione – da parte del tastierista, con la sua voce epica – e con i propri costumi sul palco.
Ma l’esibizione del gruppo finlandese è anche un orgoglio italiano visto che, come Fabio Lione in precedenza, a dettare legge dietro il microfono troviamo un altro grande talento della nostra penisola come Alessandro Conti (Trick Or Treat). Posizionati sul palco più defilato, il Blakladeer Stage, la band finlandese riesce a convincere e a far divertire i presenti, nonostante una partenza non certo tra le più facili; colpa in parte di qualche problema di suoni presto sistemato dai tecnici (con lo stesso Alessandro che per lungo tempo sembrava lamentare problemi in cuffia) ma anche per la scelta – discutibile – della band stessa di partire con un pezzo davvero difficile da cantare, “Dawn Of The Dragonstar”, composizione tiratissima che obbliga subito Conti a spingere su note altissime e quasi inarrivabili per chiunque, mettendo in difficoltà persino la sua ugola d’oro.
Ma, tempo di scaldarsi e di sistemare i suoni generali, le cose sono andate migliorando e non a caso il responso del pubblico è stato decisamente caloroso. Fa piacere constatare come i pezzi più recenti funzionino alla grande dal vivo, vedi “Twilight Force”, brano di apertura dell’ultima release denominata“At The Heart Of Wintervale” e poi la più rilassante (si fa per dire) “Dragonborn”., con la tecnica del chitarrista finlandese Lynd tutta da osservare.
Ovviamente vengono ripescate alcune canzoni più datate spingendosi fino al bellissimo disco d’esordio “Tales Of Ancient Prophecies” con “Twilight Horizon” cantata dalla corista Kristen Starkey, senza dimenticare la conclusiva “The Power Of The Ancient Force”. Grazie anche a qualche siparietto ben riuscito – simpatico quello dove Conti finge di aver perso i poteri magici della sua voce e solo dopo aver bevuto la pozione magica del dragone, contenuta in una boccetta, riesce ad esplodere terminando il brano con un acuto maestoso – l’esibizione dei Twilight Force è stata davvero piacevole ed esaltante. Pollice alzato quindi per la formazione svedese! (Federico Orano)
Ci spostiamo rapidamente allo Sweden Stage, in tempo per vedere la performance dei BLUES PILLS.
Elin Larsson e la sua band si rendono protagonisti di un concerto caldo e coinvolgente, che saccheggia il debutto della band e, soprattutto, il recente “Holy Moly!”. I brani presentati sono tutti convincenti, a partire dall’iniziale “Proud Woman”, passando per gioielli come “Astralplane”, “Bye Bye Birdy” e la conclusiva “Devil Man”. Elin Larsson, in un abito bianco e nero, non nasconde la sua gravidanza e, anzi, racconta al pubblico come quello dello Sweden Rock sia a tutti gli effetti il primo concerto del suo piccolo (o piccola).
Non si risparmia, però, sul palco e pur con qualche attenzione in più nei movimenti, la cantante ci regala una grande performance, ben supportata da una band capace di creare un ottimo muro sonoro, con vagonate di blues, riff trascinanti e richiami continui alla grande tradizione degli anni Sessanta e Settanta. Il pubblico è decisamente numeroso, ben superiore rispetto alla media dello Sweden Stage, che non si trova nell’area principale del festival, sintomo di come la popolarità della band svedese sia in costante crescita. Una popolarità che, stando alla performace odierna, appare decisamente meritata. (Carlo Paleari)
Attesissimi visto che le date estive dello scorso anno, fissate in alcuni festival europei, sono saltate per problemi della band, i SYMPHONY X tornano a calcare il palco dello Sweden Rock regalando ai propri beniamini un’ora di power-prog preciso e potente.
Romeo e soci non hanno bisogno di presentazioni e sono una sicurezza in sede live, affidandosi ad una tecnica sopraffina da parte di ogni componente, a partire dalla voce di Russen Allen, autentico fuoriclasse che anche qui si dimostra punta di diamante, capace di muoversi con disinvoltura tra le intricate melodie vocali contenute nelle composizioni della band statunitense.
Solamente nove brani proposti, ma dopotutto il tempo a disposizione non è molto. Ed è un grosso peccato che la setlist scelta vada a concentrarsi soprattutto sui lavori più recenti, perchè in fin dei conti queste date sono slegate da un disco in particolare (l’ultima release è appunto datata sei anni).
La massiccia “Nevermore” fa vibrare l’intero scenario mentre con “Sea Of Lies” si vola indietro nel tempo, tornando alle maestose sonorità di un disco storico come “The Divine Wings Of Tragedy”. A tratti si viene rapiti dal tocco di Romeo sulle sue sei corde, restando incantati nell’osservare come suona divinamente quella benedetta chitarra. Le cupe “Dehumanized” e “Serpent’s Kiss” e le potentissime “Kiss Of Fire” e “Set The World On Fire (The Lie of Lies)” si alternano e spingono forte, lanciate da riff tritaossa che non ammettono prigionieri, ma è con brani come l’indimenticabile “Evolution (The Grand Design)”, con le sue vibrazioni neoclassiche, e le dolci ed intense note di “Without You” che le emozioni vengono a galla.
Tecnica a vagonate ed un gran sound ma qualche ruggine e pochi pezzi storici non ci rendono soddisfatti al 100% di questo show firmato Symphony X. (Federico Orano)
Che gli SKID ROW per vari motivi – non ultimo l’ingresso in formazione del figliol prodigo in Svezia Erik Gronwall – fossero lanciatissimi lo si sapeva.
Ma che lo scenario principale dello Sweden Rock fosse strapieno quasi come per gli headliner della giornata, beh, non ce lo aspettavamo di certo; eravamo invece al preparati a ricevere una carica elettrica ad alto voltaggio, ed in effetti è ciò che abbiamo ottenuto!
Capitanati dal nuovo frontman svedese, lo scatenato Erik, la storica band americana ha ripreso a macinare prima con la pubblicazione di un disco riuscito come “The Gang’s All Here” poi con questo tour ricco di date viaggiando in tutto il mondo.
Qualche dubbio solo sulla voce del cantante scandinavo ex H.e.a.t, visto che la band ha dovuto cancellare l’intero minitour in Australia proprio per motivi di salute; problemi fortunatamente risolti, vista la sua prestazione stellare in questa occasione, con brani storici riproposti alla grande e le novità che suonano bene anche dal vivo, come la titletrack e “Time Bomb”.
Attualmente gli Skid Row sono una top band a livello mondiale e ciò è reso possibile dall’ingresso in formazione di un talento stellare come Erik. Anche a Solvesborg, giocando in casa, la sua performance è stata incredibile. Per la prestazione vocale, da brividi, ma anche per come tiene il palco con una personalità che di certo non si compra al supermercato.
Una scaletta ricca di energia parte con il motore a mille, grazie all’accoppiata formata dalle storiche e vigorose “Slave To The Grind” e “Big Guns”, e l’attesa è davvero poca prima di sentire le attesissime note magiche di un brano leggendario che risponde al nome di “18 and Life” che fa cantare ed emozionare tutti i presenti.
Le chitarre aggressive e piene suonate dagli storici Dave ‘The Snake’ Sabo e Scotti Hill continuano senza soste sulle note esplosive di “Riot Act” e “Creepshow”. C’è tempo per la lenta e sognante “I Remember You” prima di chiudere lo show con le hit intramontabili “Monkey Business” e “Youth Gone Wild”. Una band che sta ritrovando il suo gran splendore; i tempi sono cambiati rispetto agli anni Ottanta ma se amate l’hard rock energico, non fatevi scappare un live degli Skid Row. (Federico Orano)
Fa uno strano effetto vedere il solo BILLY GIBBONS sul palco del festival, senza Dusty Hill al suo fianco. Avevamo avuto modo di vedere all’opera gli ZZ Top nell’edizione del 2019 e oggi, a quattro anni di distanza, troviamo invece il frontman accompagnato dai suoi BFG: formazione minimale, solo batteria e una seconda chitarra, senza basso, quasi a voler sottolineare l’assenza di Dusty.
I tre salgono sul palco con delle tute da lavoro color cachi e il concerto si apre con “More-More-More”: l’impatto non è deflagrante e Gibbons sembra veramente essere tenuto assieme con lo spago, eppure ancora una volta scatta quella strana magia che solo la grande musica sa compiere e il concerto lentamente ingrana la quarta e prende il via.
Sarà quel blues polveroso che ti entra dentro, sarà la voce incatramata di Gibbons, sarà quel mezzo sorrido sardonico nascosto da occhiali da sole e barba, fatto sta che ci ritroviamo rapiti per l’ora abbondante di concerto a sua disposizione. La scaletta raccoglie molti brani della carriera solista di Gibbons e riusciamo anche a sentire un inedito, che verrà pubblicato prossimamente, intitolato “The Devil Is Red”, un chiaro sintomo di come, nonostante tutto, il buon Billy non abbia intenzione di fermarsi. Naturalmente non mancano anche alcuni episodi irrinunciabili della storia degli ZZ Top come “Beer Drinkers & Hell Raisers”, “Gimme All Your Lovin'”, “Sharp Dressed Man”, fino a quella “La Grange”, che chiude il concerto in un tripudio di applausi. (Carlo Paleari)
Band amatissima gli ALTER BRIDGE, capace di unire sia le frange più alternative degli appassionati sia qualche seguace delle sonorità più classiche visto che comunque la base su cui si ergono alcuni dei brani scritti da Tremonti e soci hanno delle influenze classiche tra heavy metal ed hard rock.
E non è un caso scorgere tra la folla calorosa sia ragazzi giovani che rocker più datati, tutti coinvolti dalla musica possente che esce dalle casse. È un classico sound americano il loro, di quello che si diffonde potente e vibrante, con ogni strumento capace di essere protagonista ma all’interno di un equilibrio complessivo perfetto.
E se delle doti tecniche di Tremonti siamo già a conoscenza, così come della sessione ritmica con gli affidabili Brian Marshall al basso e Scott Phillips dietro le pelli, è la voce di Myles Kennedy ad ergersi come assoluta protagonista: un talento fuori dal comune capace di attirare le attenzioni di tutti i presenti, il tutto con un atteggiamento molto semplice ed alla mano, altro che comportamenti da superstar.
Suoni potenti si abbattono subito sulle note decise di “Silver Tongue” e “Addicted To Pain” con riff granitici e l’ugola di Myles che esplode toccando note alte con estrema facilità (a tratti ricorda un certo Steve Perry, ex Journey). La band non si ferma per un secondo e a testa bassa continua a far vibrare il terreno di fronte al palco grazie alle note della storica e massiccia “Come To Life” e con le note ruvide e sofferte della favolosa “Blackbird”.
Tremonti continua a sparare assoli compatti e riff possenti con “Isolation” e “Metalingus” prima di chiudere lo show con la più radiofonica “Open Your Eyes” e con la vibrante “Rise Today”. Band di talento e personalità con un sound che ha fatto scuola e che dal vivo non sbaglia una virgola? Alter Bridge! (Federico Orano)
Si avvicina l’ora degli ultimi headliner del festival, ma abbiamo ancora tempo per un’ultima band e scegliamo i TRIBULATION, autori di uno show assolutamente magistrale che ha convinto il piccolo pubblico accorso sotto il loro palco.
La proposta della band svedese si incastra bene in questa giornata: elegante e oscura al tempo stesso, accessibile anche a chi ama sonorità più classiche con delle radici che affandano nel black/death, e anche la posizione nella stessa giornata dei Ghost appare particolarmente azzeccata. La band si presenda sul palco con una scenografia semplice ma curata, molto simile a quella che abbiamo visto nel nostro Metalitalia.com Festival lo scorso anno, e la resa visiva tutto sommato non viene eccessivamente penalizzata dalla luce diurna.
Il merito, ovviamente, va tutto alla capacità della band di creare atmosfere ipnotiche e cimiteriali, che si insinuano nell’ascoltatore nelle dieci tracce proposte in questo set. Comprensibilmente i Tribulation si concentrano soprattutto sulla loro carriera più recente, presentando dal vivo un paio di estratti del loro ultimo EP, “Hamartia”, a cui si aggiunge una selezione dei migliori episodi di “Where The Gloom Becomes Sound”. Uno show impeccabile che si chiude in modo magistrale con una potente ed epica versione di “Strange Gateways Beckon”. Non ci resta che affrettarci a correre nell’area principale per gli ultimi due headliner. (Carlo Paleari)
Che l’esibizione dei PANTERA fosse una delle più attese appare evidente, considerando la sterminata marea di persone accorse sotto il Rock Stage.
Phil Anselmo, Rex Brown, Zakk Wylde e Charlie Benante salgono sul palco ed è “A New Level” ad aprire le danze, seguita a ruota da un grande classico come “Mouth Of War”.
Questo ritorno sulle scene dei Pantera ha diviso letteralmente in due la community: sono o non sono i Pantera? Sincero omaggio o operazione commerciale? Supporto totale o boicottaggio per principio? Ci sarebbero centinaia di parole da spendere su un evento di questo tipo, ma per questi quattro giorni abbiamo raccontato quasi cinquanta concerti e non è forse questa la sede più adatta.
Chi scrive ha avuto il piacere di vedere i Pantera nella loro formazione originale e no, questi non sono i Pantera, perchè Dimebag e Vinnie Paul erano due personalità troppo forti per poter essere semplicemente sostituite. Al tempo stesso, però, ci sembra che questo concerto abbia assolutamente senso di esistere e una sua coerenza capace di conquistare anche i fan più nostalgici. A fare la differenza, a nostro parere, è proprio Zakk Wylde, un chitarrista carismatico, con uno stile ed una personalità ben definiti, che per l’occasione ha scelto la strada più giusta: Zakk non è Dime, non lo copia, suona i brani dei Pantera in maniera rispettosa ma con il suo stile ed è proprio questo che funziona. Lo stesso approccio che ha reso possibile per il giovane chitarrista prendere l’eredità di un gigante come Randy Rhoads fino a diventare a tutti gli effetti il braccio destro di Ozzy.
Il resto della band fa il suo e funziona alla grande: Benante e Rex Brown si sono integrati molto bene fra loro e Phil Anselmo appare decisamente in forma, portando a casa una performance di tutto rispetto. Poi, ovviamente, ci sono le canzoni dei Pantera e davvero come ci si può lamentare di fronte a “Strength Beyond Strength”, “I’m Broken”, “Cowboys From Hell”, “Fucking Hostile” o quella “Walk”, che, come ha sottolineato lo stesso Phil senza falsa modestia, ogni singolo spettatore conosce a menadito?
C’è anche spazio per la cover di “Planet Caravan” dei Black Sabbath e, onestamente, questa ci è sembrata l’unica canzone poco efficace, con uno Zakk Wylde che appare stranamente fuori fuoco nello stile psichedelico e jazzy del brano. C’è una scenetta, comunque, che ci ha particolarmente colpito e che ci sembra esemplificativa di tutta questa operazione: terminate le prime tre-quattro canzoni, Phil Anselmo si è rivolto alla folla, chiedendo quanti fra i presenti avessero visto dal vivo i Pantera in passato e per quanti, invece, quella dello Sweden Rock fosse la prima volta in assoluto. Il numero di mani sollevate dai secondi superava di gran lunga quello dei primi. “Questo vuol dire essere bravi genitori!“, scherza Phil, ma in fondo il senso è tutto qui: chi ha vissuto l’epoca d’oro dei Pantera può continuare a conservare quei bei ricordi, ma perchè togliere a tanti ragazzi la possibilità di vivere qualcosa di simile? E allora avanti così, ci si vede a Bologna. (Carlo Paleari)
Una vera bomba esplosiva capace di ricevere consensi da tutti gli amanti delle sonorità melodiche ottantiane all’interno della scena AOR negli ultimi anni grazie a due lavori che hanno conquistato ogni appassionato di questo genere.
CHEZ KANE possiede una carica ed una passione ben riconoscibili basti seguire le sue pagine social o vedere i video dei suoi singoli. Anche sul palco questa energia è contagiosa e un ruolo fondamentale lo svolgono ovviamente i brani che ci proiettano direttamente negli eighties. Nonostante in contemporanea i Pantera fossero impegnati sullo scenario principale, la cantante inglese è riuscita ad attirare un buon numero di fan che sotto il palco non si sono fatti pregare per cantare, creando una atmosfera davvero notevole.
E poi con brani come “Too Late For Love”, “Nationwide”, “Powerzone” e “Rocket On The Radio” è un attimo tuffarsi all’interno delle sonorità tipiche degli anni Ottanta. La voce e la sua capacità di coinvolgere il pubblico hanno sorpreso tutti; in un atmosfera perfetta, intima, all’interno del tendone che ospita il palco più piccolo del festival, e con l’aiuto di alcuni giovani musicisti che hanno svolto con precisione il loro lavoro senza togliere le luci alla frontgirl britannica, è andato in scena uno dei concerti più divertenti dell’intera kermesse. (Federico Orano)
Ci chiedavamo: i GHOST, suonando in casa, saranno seguiti in maniera esagerata da tutti o visto che molti li avranno visti più volte fin dagli esordi, alcuni spettatori svedesi si dedicheranno ad altro? Barrare ‘A’.
Probabilmente tutti i quarantamila e più presenti allo Sweden Rock edizione 2023 si sono riversati sul palco principale per seguire lo show, come sempre splendido, della band di casa. Trovare un posto nelle file più vicine al palco è stata impresa ardua visto che tutti i fan si sono ammassati davanti, pronti a dare il proprio benvenuto a Tobias Forge.
La ‘solita’ scaletta, vista di recente anche a Milano, ed una scenografia sempre spettacolare costituiscono sempre un piacere per gli occhi e per le orecchie , anche se i volumi iniziali non erano perfetti, in particolare spostandosi leggermente di lato rispetto al palco.
La partenza decisa è affidata a “Kaisarion” e subito dopo alla ruvida “Rats”: fuoco e fiamme sparati dal palco rendono rovente l’atmosfera quando è il tocco catchy di “Spillways” a prendere il sopravvento. I musicisti preparatissimi che accompagnano mister Forge sul palco fanno vedere di che pasta sono fatti e, prima con l’indissolubile “Hunter’s Moon”, poi con “Ritual”, fanno sì che l’adrenalina resti sempre elevata.
Il leader della band cambia il suo look un paio di volte durante l’esibizione, ed è l’unico, durante il festival tra quelli di casa, che durante lo show dialoga con il pubblico parlando in inglese (e finalmente possiamo comprendere qualcosa!). “Watcher In The Sky” è davvero un gran pezzo, capace di unire la potenza delle chitarre a melodie vocali capaci di catturare e stamparsi in testa. Le note oscure di “Mummy Dust” irrompono dal palco mentre l’irresistibile incedere della sinfonica e gotica “Year Zero” fa pieno centro.
Nel frattempo i suoni si sono sistemati e la gente può godersi al massimo il concerto di questa grande band. La strumentale “Miasma” concede una piccola pausa a Tobias per rifiatare, e viene riproposta in maniera straordinaria con la bara che viene portata sul palco dalla quale si risveglia il Papa che si concede un assolo di sax prima di tornare al suo interno.
Una delle composizioni più grandiose non solo dell’ultimo disco in studio della band è certamente “Respite On The Spitalfields”, qui riproposta con estrema enfasi catturando, durante i suoi quasi sette minuti di durata e grazie ai suoi cambi di atmosfere, tutti i presenti.
La band abbandona il palco ma il bis è pronto per essere servito: “Dance Macabre” è una hit capace di far ballare anche i true defender più intransigenti, ma non è da meno l’impatto gotico e settantiano di “Square Hammer” che esplode su un ritornello irresistibile. Forge saluta il numeroso e caloroso pubblico e le luci si spengono. Dagli schermi laterali viene proiettato un video: immagini, miniinterviste, brevissimi estratti di performance dal quel lontano 1992 quando lo Sweden Rock ha esordito, anno dopo anno crescendo e superando anche i due anni di stop causati dalla pandemia e arrivando a questo 2023 e al trentesimo anniversario: “Grazie! Ci vediamo nel 2024” recitano in svedese le ultime lettere, con subito dopo uno spettacolo magnifico di fuochi d’artificio che iniziano a salire e ad esplodere attirando l’attenzione di tutti. Che modo straordinario di festeggiare e salutare questa spettacolare edizione dello Sweden Rock! (Federico Orano)
Guarda tutte le foto della quarta giornata.