Report di Carlo Paleari
Foto prese dai canali ufficiali del festival (scatti di Maria Johansson, Josefin Larsson, Linnea Thomasson, Mattias Petersson, Jakob Olsson, Linda Florin, RockArt
Anche quest’anno non abbiamo saputo resistere al richiamo della Svezia e abbiamo deciso di partecipare alla trentaduesima edizione dello Sweden Rock – da sempre un festival dedicato alle forme più classiche di heavy metal ed hard rock, quest’anno gli organizzatori hanno scelto invece una line-up molto più varia, in grado di attrarre non solo il pubblico più ‘brizzolato’, ma anche quello avvezzo ad altri generi.
Così, di fianco a gruppi storici come Scorpions, Running Wild, Pretty Maids e Blind Guardian, abbiamo potuto trovare dei nomi magari non giovanissimi, ma sicuramente ‘anomali’ nel contesto dello Sweden Rock, come Slipknot, Korn, Skillet e Jinjer.
Ampio spazio, naturalmente, è stato riservato alla scena locale ma, d’altra parte, quado sei la Svezia, non si fa certamente fatica a trovare band dal prestigio internazionale, dagli headliner Sabaton, fino ad Opeth, Meshuggah, Hypocrisy e tanti altri. Da un punto di vista organizzativo, il festival resta un’eccellenza, con esibizioni puntuali al secondo, un’area vastissima, in grado di attrarre quaranta/quarantacinquemila persone, dando loro ogni comodità, ed un’atmosfera familiare che sembra quasi impossibile in un contesto di queste dimensioni.
Unico neo, se vogliamo, la persistenza del divieto – imposto dalle autorità – di portare all’interno dell’area qualsiasi borsa, per motivi di sicurezza. Un piccolo disagio per chi ama affrontare i festival pronto a qualsiasi evenienza. Ecco a voi, quindi, la cronaca di quanto abbiamo potuto vedere.
MERCOLEDÌ 4 GIUGNO
Non è facile ritagliarsi uno spazio in un festival di questa portata: la Svezia ha una tale potenza di fuoco in termini di band metal che, tolti ovviamente i nomi ai piani alti del bill, riuscire ad essere coinvolti è un traguardo non da poco.
Vedere quindi i nostri WIND ROSE, oltretutto su uno dei due palchi principali, suonare un set di un’ora piena davanti ad una nutrita platea di spettatori entusiasti è stato il miglior modo possibile per dare il via al nostro Sweden Rock.
La formazione toscana ha portato il suo dwarven metal nelle terre del Nord e il pubblico non solo ha accolto lo show con un notevole trasporto, ma si è dimostrato preparato, cantando spesso assieme a Francesco Cavalieri e agitando in aria picconi gonfiabili, spuntati tra le prime file.
La scaletta – composta da una decina di brani – concede ampio spazio soprattutto agli ultimi due dischi, “Warfront” e “Trollslayer”, che si confermano particolarmente efficaci in un contesto live, con melodie dirette, immediatamente riconoscibili e con cori che si prestano ad essere cantati anche da chi non conosce a menadito il loro repertorio.
Brani come “Dance Of The Axes” o “Fellows Of The Hammer” colpiscono nel segno come le armi di cui portano il nome, “Mine Mine Mine!” è uno dei momenti più trascinanti, ma ovviamente l’apice della festa arriva con “Diggy Diggy Hole”, in cui davvero la platea intera si unisce ai cori nella migliore tradizione del genere. Chiude lo show “I Am The Mountain”, canzone dal tono più serio, che Francesco dedica in maniera molto sentita a tutti coloro che lottano quotidianamente con la depressione.
I PRETTY MAIDS sono una realtà attiva fin dai primi anni Ottanta e, pur senza essere mai arrivati sotto i riflettori del grande pubblico, hanno saputo attraversare quattro decadi con costanza, cercando di cogliere le opportunità che si sono presentate nel corso degli anni.
Il cantante Ronnie Atkins, ad esempio, ha ottenuto un rilancio di notorietà grazie alla sua partecipazione al progetto Avantasia di Tobias Sammet, e questo ha permesso alla band di attrarre nuovi ascoltatori, anche grazie a dischi sempre di buon livello.
Lo show portato in scena allo Sweden Rock conferma la buona forma dei Pretty Maids, che si rendono protagonisti di un concerto assolutamente efficace. La scaletta è ben bilanciata, con episodi recenti come “Serpentine” e “Kingmaker”, che si alternato a vecchi classici come “Red, Hot And Heavy” o “Back To Back”.
È chiaro che i pezzi degli anni Ottanta sono quelli accolti con maggior calore; tuttavia, si percepisce chiaramente come i Pretty Maids non siano una band di nostalgici, che vive solo la gloria sbiadita di un decennio ormai mitologico, ma spende le proprie energie per essere ancora interessanti nel panorama metal di oggi. Ottimi arrangiamenti, una resa sonora di tutto rispetto, ed una selezione di canzoni eccellenti suggellano un concerto di alto livello.
Negli ultimi anni lo Sweden Rock ha iniziato ad ampliare notevolmente la propria proposta musicale, inglobando sonorità molto diverse rispetto all’orientamento degli esordi, che lo vedeva focalizzato soprattutto su hard rock ed heavy metal classico.
Così, ad esempio, la prima band che decidiamo di seguire sul palco principale, il Festival Stage sono gli ucraini JINJER. Chi scrive non è sicuramente un esperto conoscitore della band e, a causa di un momento particolarmente tranquillo nella scansione giornaliera dei concerti, ci avviciniamo al palco con la curiosità di cui vuole scoprire qualcosa di nuovo.
Gli ucraini salgono sul palco ed erigono un notevole muro sonoro, mitragliando una dozzina di canzoni che, comprensibilmente, prediligono il recente “Duél”, pubblicato ad inizio anno. Trame ritmiche articolate di scuola progressive e la profondità cupa del djent si fondono con il groove più diretto e trascinante, facendo da contorno alla vocalità – davvero notevole – di Tatiana Shmailyuk.
Se è vero che su disco i Jinjer inglobano anche influenze molto diverse, dal reggae al jazz, dal vivo queste finiscono per essere soverchiate dalla pura e semplice massa distorta delle chitarre: questo rende la performance molto potente, ma anche meno stratificata e ricca.
Il pubblico – invero sempre molto ricettivo – segue con interesse l’ora a disposizione della band e sul finale, con la riproposizione della celebre “Pisces”, sono molti gli smartphone sollevati per immortalare questo particolare momento della performance. Non possiamo dire di essere stati rapiti dalla proposta dei Jinjer, ma la loro efficacia e sicurezza sul palco sono innegabili.
Avevamo aspettative molto alte per lo show degli OPETH, in parte perché la band di Mikael Åkerfeldt sa sempre rendersi protagonista di concerti di alto livello, ma soprattutto perché il loro ultimo album, “The Last Will And Testament”, ci ha pienamente convinto.
Gli svedesi salgono sul palco e il concerto si apre proprio con uno dei nuovi brani, “§1”, che si conferma perfetta anche per la dimensione live. La band suona con la precisione di un orologio e anche il loro più recente acquisto, il batterista Waltteri Väyrynen – che non avevamo ancora visto dal vivo – si è dimostrato notevolissimo.
Purtroppo, dopo pochissimo minuti dopo l’inizio dello show, il cielo già nuvoloso inizia a rovesciare sul pubblico un acquazzone di discreta intensità. Certo, le atmosfere degli Opeth si sposano meglio con il clima piovoso, ma è indubbio come questo piccolo inconveniente abbia un po’ penalizzato il piacere dello stare sotto al palco.
La band, però, non si perde d’animo e nei settantacinque minuti a sua disposizione riesce a regalarci una selezione di canzoni di altissimo livello, magari non sorprendenti nella scelta, ma eccellenti nella resa finale. Così “The Leper Affinity” – accolta da un’ovazione – ci riporta ai tempi d’oro di “Blackwater Park”; “In My Time Of Need” rende giustizia al lato più malinconico e delicato della band, mentre le irrinunciabili “Ghost Of Perdition” e “Deliverance” picchiano giù duro.
Interessante notare, infine, come una canzone relativamente recente come “Sorceress” possa contare ormai diversi estimatori, tanto da diventare un altro punto fermo della scaletta.
Molto buona anche la resa visiva, grazie ad un ledwall alle spalle della band che proietta immagini e filmati di accompagnamento. Un’ottima esibizione, che ci invoglia ancora di più a presenziare alle loro date autunnali.
Gli headliner della prima giornata, pur essendo molto lontani dallo stile abituale dello Sweden Rock, sono un senza dubbio un pezzo da novanta: parliamo ovviamente degli SLIPKNOT, che hanno dato il via al tour europeo del 2005 proprio in questa serata. Chi scrive non è certamente un fine conoscitore della band di Des Moines, avendola vista dal vivo solo in un’altra occasione (peraltro agli inizi della loro carriera): lasciamo quindi gli approfondimenti a persone più titolate, soprattutto in occasione della data italiana di Ferrara; possiamo dire, comunque, di aver assistito ad un ottimo concerto.
L’allestimento, sull’enorme palco principale dello Sweden Rock, è impressionante e sebbene decidiamo di seguire il concerto un po’ da lontano, il muro di suono è comunque potentissimo. Corey Taylor sul palco ha carisma, presenza scenica e anche da un punto di vista vocale ci è parso sicuramente in buona forma.
Il resto della band lo segue in maniera efficace, chi più nelle retrovie, occupandosi solo dell’amalgama musicale, chi con movenze più scenografiche, come nel caso del percussionista Michael Pfaff, che vaga per il palco, picchia sulle percussioni e vi si abbarbica sopra come una specie di gargoyle mostruoso.
Manca Shawn Crahan, il Clown, rimasto negli Stati Uniti per motivi familiari e Corey in più di un’occasione ricorda la sua assenza, chiedendoci un applauso per tributare il compagno assente.
La scaletta raccoglie naturalmente tanti classici, da “(sic)” a “Spit It Out”, passando per “People=Shit”, “The Heretic Anthem” e “Wait And Bleed”. Qualche ripescaggio, soprattutto “Gematria (The Killing Name)”, ma per il resto ci sembra di aver assistito ad uno show piuttosto bilanciato e ben rodato.
Con tutto il rispetto per gli headliner, però, il concerto che attendiamo di più in questa prima giornata è quello posto in chiusura, l’unico avvolto totalmente dalle tenebre nella corta notte svedese.
Nel 2022 avevamo vissuto le stesse emozioni con i Mercyful Fate e quest’anno tocca a KING DIAMOND nella sua veste solista raccontarci fiabe di orrore e mistero. La struttura del palco è simile a quella che abbiamo visto con i Mercyful Fate, con una struttura centrale su due livelli e due scale laterali che permettono al Re Diamante di costruire dei piccoli set teatrali, ora una villa infestata dai fantasmi, ora un manicomio abbandonato.
È la storia di Abigail ad aprire il concerto, con la doppietta formata da “Arrival” e “Mansion In Darkness”. King Diamond sale sul palco con la sua più classica tenuta: abiti neri, corpse paint e il suo iconico cappello a cilindro. La resa della band è semplicemente perfetta e anche la voce del cantante, con il suo falsetto maligno, sembra essere immune dallo scorrere del tempo.
È incredibile come la musica di King Diamond riesca a creare delle atmosfere sinistre pur con un impianto così classico nella forma: il pubblico viene preso per mano e portato nel suo mondo con una semplicità disarmante e viene rapito di volta in volta dalle sue storie dell’orrore, quelle di “Voodoo”, di “Them”, con King Diamond ad impersonare i personaggi più disturbanti e maligni.
La coppia di chitarre formata da Andy LaRocque e Mike Wead, intanto, cesella riff taglienti e assoli, ben supportati dalla devastante sezione ritmica di Pontus Egberg e Matt Thompson. Prezioso il supporto di Hel Pyre, che affianca King Diamond ai cori – in sostituzione di Myrkur – mentre la line-up si completa con una performer extra-musicale, un’attrice che, a seconda delle canzoni, aumenta la componente teatrale, impersonando vari personaggi e finendo spesso tra le grinfie del malvagio frontman-aguzzino.
Il tempo a disposizione è più che sufficiente per l’esecuzione dell’intero set, esattamente come per una data singola, e abbiamo quindi modo di ascoltare anche alcune tracce in anteprima, che dovrebbero far parte del prossimo album in studio, come ad esempio “Spider Lilly” ed “Electro Therapy”, che non raggiungeranno la bellezza dei classici, ma ci sembrano comunque efficaci ed in linea con la proposta dell’artista danese.
Sulle note di “Abigail”, King Diamond si congeda, nell’ora più buia della notte, e ci libera da quello strano incantesimo che ci aveva rapiti. La prima giornata si chiude nel migliore dei modi possibili.
GIOVEDÌ 5 GIUGNO
Si sa, la nostalgia paga e – che piaccia o meno – capita sempre più spesso di vedere concerti che omaggiano un momento storico ben preciso nella carriera di un artista. ADRIAN VANDENBERG, ad esempio, pur avendo un suo progetto solista fin dagli anni Ottanta, ha sicuramente raggiunto la massima notorietà grazie alla sua militanza nei Whitesnake di David Coverdale.
Quest’anno, il chitarrista olandese ha intrapreso un tour che rende omaggio proprio agli anni trascorsi nei Whitesnake e qui allo Sweden Rock questo si traduce in una scaletta totalmente incentrata sulle canzoni del Serpente Bianco.
Una scelta che, almeno in un contesto come questo, risulta essere vincente, perché permette al pubblico di gustarsi una selezione di veri e propri classici, suonati da musicisti di alto livello.
Detto questo, comunque, ci ha stupito vedere quante persone si siano riversate sotto lo Sweden Stage per assistere a questa esibizione, ma d’altra parte come resistere di fronte ad una selezione di canzoni che si apre con “Bad Boys” e attraversa buona parte dei maggiori successi dei Whitesnake, da “Fool For You Loving”, a “Still Of The Night”, passando per “Love Ain’t No Stranger”, “Crying In The Rain”, e la ballad per eccellenza degli anni Ottanta, “Is This Love”?
Vandenberg, va da sé, suona con gusto e totale padronanza della materia, e anche la sua band si dimostra perfettamente all’altezza della situazione, con una nota di merito particolare per Mats Levén, entrato nella formazione da un paio d’anni, che si è rivelato un solidissimo emulo di Coverdale.
Ci spostiamo quindi all’ombra del palco principale per l’esibizione dei DARK TRANQUILLITY, una band che dal vivo non ci hai mai delusi e che, infatti, si rende protagonista di uno show ineccepibile. Rispetto al concerto speciale previsto per il nostro Metalitalia.com Festival – dove la band renderà omaggio a due lavori storici, “The Gallery e “Character” – quello a cui assistiamo oggi è invece un set più tradizionale, che si concentra sulla produzione più recente.
Possiamo quindi ascoltare dal vivo canzoni come “Not Nothing”, “The Last Imagination” ed “Unforgivable”, apprezzandone l’efficacia anche dal vivo; poi alcuni estratti da “Atoma” e “Moment”, intervallati da episodi più vecchi come “Terminus (Where Death Is Most Alive)”, “Lost To Apathy”, “Final Resistance”, tornando indietro fino all’immancabile “ThereIn”.
Uno spettacolo magari non sorprendente per una band che ha un’attività live intensissima e che, anche dalle nostre parti, possiamo vedere dal vivo con cadenza al massimo biennale; tuttavia, la capacità dei Dark Tranquillity di suonare show emozionanti e coinvolgenti ci lascia sempre con un sorriso sulle labbra.
Il merito, va detto, è anche quello di avere come frontman un personaggio come Mikael Stanne, una delle persone più genuine che ci sia mai capitato di vedere su un palco. Da questo punto di vista è stato davvero bello vedere i Dark Tranquillity suonare in patria: il pubblico svedese ha accolto la band con un calore ed un affetto palpabili, tributando loro diverse ovazioni prolungate. Stanne, da parte sua, ha speso diversi momenti dialogando con la platea – ovviamente in svedese – e sebbene non fossimo in grado di cogliere il significato delle parole, lo sguardo sinceramente commosso del cantante non ha fatto altro che confermare la qualità di un artista che ha saputo guadagnarsi ogni goccia di affetto da parte del proprio pubblico.
Restando in tema di artisti genuini, lo show successivo a cui assistiamo è quello di DORO, cantante che seguiamo da oltre vent’anni e che – pur non essendo più ai vertici della scena metal – è riuscita a ritagliarsi un pubblico di affezionati ascoltatori.
È innegabile come le più recenti produzioni discografiche di Doro siano ben lontane dai fasti dei primi Warlock, e anche in questa occasione è impossibile non notare la differenza che corre tra brani recenti come “Time For Justice” o “Fire In The Sky”, e veri e propri inni come “I Rule The Ruins” o “Burning The Witches”. Ciò che invece resta immutato, invece, è l’entusiasmo di Doro, che canta ancora con un’energia incredibile, coinvolgendo la platea in un’ora di puro heavy metal infuocato. Tra i momenti più riusciti, citiamo senza dubbio l’esecuzione della ballad “Für Immer”, cantata assieme al pubblico; la cover di “Breaking The Law”, come omaggio al primo tour fatto dalla stessa Doro in Svezia, proprio di spalla ai Judas Priest; e naturalmente “All We Are” che diventa – come da tradizione – il momento perfetto di interazione tra la cantante e il pubblico.
In studio Doro non sarà forse più rilevante come un tempo, ma la dedizione e l’entusiasmo che trasmette dal vivo sono frutto di vera passione.
Il programma della giornata avrebbe previsto, a questo punto, l’esibizione degli Stryper, ma la band di Michael Sweet ha dovuto rinunciare all’ultimo per via di un guasto tecnico che ha fatto rientrare il loro aereo, rendendo impossibile raggiungere il festival in tempo.
L’organizzazione, quindi, è riuscita a trovare un rimpiazzo a tempo di record, grazie alla disponibilità dei BLUES PILLS. Certo, la mancata possibilità di vedere all’opera gli Stryper, che non capitano spesso dalle nostre parti, ci ha un po’ delusi; tuttavia, i Blues Pills ci hanno saputo consolare con uno show eccezionale.
Chi scrive è un fermo sostenitore della formazione svedese, tanto da aver scelto proprio il loro ultimo album, “Birthday”, come miglior disco del 2024 nella nostra classifica di fine anno.
Elin Larsson e compagni si catapultano sul palco e aprono le danze proprio con una selezione dall’ultimo album: l’energica titletrack, la trascinante “Don’t You Love It” e quel gioiello assoluto di “Top Of The Sky”. Il resto dello show, invece, si concentra sul materiale più familiare, tratto in particolare dal loro sorprendente debutto. Niente fronzoli, nessuna scenografia se non il logo della band, ma tanta, tanta energia ed un catalogo di canzoni che davvero sembra non avere punti deboli.
Tra gli highlight, citiamo senza dubbio “Proud Woman”, cantata con sentito orgoglio da Elin, il blues di “Black Smoke”, per arrivare poi alla conclusione con la sulfurea “Devil Man”.
Quasi ogni anno allo Sweden Rock c’è una piccola quota punk, che aggiunge ulteriore varietà ad un bill già amplissimo. Negli scorsi anni abbiamo visto Social Distorsion, i Rancid e quest’anno la scelta è ricaduta sulla reunion dei SEX PISTOLS.
Per chi si fosse perso l’antefatto, questa incarnazione della band punk per eccellenza vede la presenza di tre componenti originali – il chitarrista Steve Jones, il bassista Glen Matlock e il batterista Paul Cook – a cui si aggiunge il ‘giovane’ Frank Carter, classe 1984, artista con una carriera solista ben avviata che è stato chiamato a rivestire i panni dell’escluso di lusso Jonny Rotten. Il cantante originale della band, come è noto, non l’ha presa benissimo, e non si è trattenuto dal fare commenti piuttosto caustici sull’intera operazione.
Capiamo lo scorno, ma bisogna dire che questa formazione funziona decisamente bene, ed il merito è proprio dell’ottimo Frank Carter, che si è reso protagonista di una performance davvero carismatica. Il cantante si è appropriato del repertorio dei Sex Pistols con la giusta attitudine, ha una bella voce, ma è l’atteggiamento a fare la differenza: Frank ha quel piglio arrogante, strafottente, che sembra tagliato su misura per questo ruolo. Scende in mezzo al pubblico e canta direttamente dalla platea, si fa strada in mezzo alle persone, si arrampica sulle transenne, incita costantemente il compassato pubblico di metallari svedesi… La band, intanto, suona un classico dietro l’altro, con l’età che di certo non ha reso più pulita e precisa la performance.
Eppure, vedere questi tre signori inglesi suonare canzoni come “Pretty Vacant”, “Holidays In The Sun” o “God Save The Queen” ha comunque quell’atmosfera che si percepisce quando ci si trova davanti a un pezzetto di Storia, complici anche i filmati d’epoca trasmessi sul megaschermo alle spalle della band. Il finale, con la leggendaria “Anarchy In The U.K.”, suggella nel migliore dei modi uno dei concerti che abbiamo apprezzato di più nell’intero festival.
Giusto il tempo di raggiungere il Rock Stage, ed è il turno dei KREATOR, che salgono su un palco agghindato di tutto punto con demoni, manichini impiccati, mostri e quant’altro.
La band di Mille Petrozza negli anni è entrata in una fase un po’ particolare: da una parte è innegabile come – rispetto ai tardi anni Novanta – abbia allargato di molto la propria platea, con spettacoli sempre più teatrali ed un piglio esagerato che sembra funzionare e divertire. Dall’altra, ci sembra doveroso sottolineare come questo abbia coinciso anche con un certo calo di ispirazione, che si è trasformato in una serie di lavori piuttosto standardizzati, fatti con il pilota automatico.
Questo dualismo traspare anche negli show dei tedeschi, che sono sempre divertenti e giocosi, con tutto l’arsenale di fiammate, satanismo da blockbuster, continui inviti a lanciarsi in wall of death e circle pit e via dicendo; al tempo stesso, però, il concerto sembra procedere su binari ben definiti, una pièce teatrale a base di fuoco e thrash metal teutonico che diverte e funziona, ma senza particolari sorprese.
La scaletta è ben rodata, rappresenta una buona panoramica di ciò che sono oggi i Kreator e il pubblico, per la prima volta dall’inizio del festival, si mette di gusto a pogare e a saltare, mentre la band spara una quindicina di canzoni tra cui “People Of The Lie”, “Phobia”, “Pleasure To Kill”, o le più recenti “Hate Über Alles”, “Hail To The Hordes” e “Satan Is Real”, prima di concludere con un lancio di nastri color rosso vivo, che si adagiano lentamente su un pubblico più che soddisfatto.
Un buonissimo concerto, senza dubbio, che ci lascia però uno strano retrogusto di artificioso.
Il sottoscritto non aveva grande interesse a vedere il concerto di una band come i KORN, ed in fondo il bello di questi festival giganteschi è anche quello di poter tranquillamente ignorare gli headliner, per godersi invece la ricchissima offerta proposta nel corso della giornata.
Abbiamo già detto in apertura come Lo Sweden Rock quest’anno abbia deciso di ampliare lo stile della propria proposta e, in fondo, i Korn – con i loro trent’anni di carriera – hanno raggiunto uno status molto simile a quello dei classici. La loro musica non sarà figlia diretta del metal e dell’hard rock degli anni Ottanta, ma è innegabile quanto abbiano guadagnato sul campo la possibilità di essere il nome più grosso nel cartellone odierno.
Non avendo alternative interessanti nel medesimo slot, quindi, decidiamo comunque di seguire il concerto. Il giudizio generale di chi scrive sul nu metal e sul repertorio dei Korn non è poi cambiato dopo questa performance, bisogna essere sinceri; tuttavia, non possiamo negare come Jonathan Davis e compagni si siano resi protagonisti di una prova compatta, di sicuro impatto, ben supportati da un impianto scenico curatissimo.
I punti più interessanti dello show – a fronte di una conoscenza non approfondita – sono stati gli estratti dal passato remoto della band, quelli tratti dal debutto eponimo del 1994, e poi “A.D.I.D.A.S.”, il ringhiare di “Twist”, fino alla sempre ottima “Freak On A Leash” che ha chiuso lo show. Il materiale più recente, invece, ci ha lasciati piuttosto freddi, a prescindere dalla sua validità, su coi preferiamo non esprimerci.
Passiamo invece all’ultimo concerto della giornata riservato ai DREAM THEATER, che continuano a celebrare i loro quarant’anni di carriera (ed il ritorno di Mike Portnoy) con una serie di date estive, dentro e fuori il circuito dei festival.
Lo slot concesso alla band americana è di settantacinque minuti, decisamente pochi per una formazione che riesce tranquillamente a riempire tre ore di concerto. Speravamo che la band, trovandosi in un contesto così ridotto, potesse regalarci qualche sorpresa, suonando per intero un album storico del passato, ad esempio.
Invece i Dream Theater ci concedono un set piuttosto convenzionale, che di fatto sintetizza la scaletta che stanno portando in giro in queste settimane. La band sale sul palco e attacca subito con “Night Terror”, a cui fanno seguito due capitoli di “Scenes From A Memory”, “Strange Dejà Vu” e “Fatal Tragedy”.
Neanche a dirlo, la performance strumentale dei musicisti è fuori scala: Petrucci corre sul manico della sua chitarra facendo sembrare semplicissimi dei passaggi di una difficoltà enorme; Portnoy e Myung giocano ad incastrarsi su tempi folli, mentre Jordan Rudess, con la sua tastiera-astronave si piega e ondeggia volando con le sue dita sui tasti d’avorio.
Come sempre, dove i nostri mostrano più il fianco è nella prova vocale di LaBrie, che però ci è parso in buone condizioni, complice anche la scelta di un repertorio che non l’ha messo eccessivamente in difficoltà.
Certo, è evidente come ormai il cantante debba usare una serie di trucchi per raggiungere – o del tutto evitare – le tonalità più proibitive, ma in generale ci sembra che questo concerto sia filato via liscio, con giusto l’eccezione di “Pull Me Under”, in cui l’effetto gola strozzata sugli acuti si è sentito in più di un passaggio.
Tra i momenti più interessanti, infine, citiamo volentieri “Peruvian Skies”, un brano già eccellente di suo, che qui la band ha impreziosito con alcune citazioni di classe, da “Wish You Were Here” dei Pink Floyd, a “Wherever I May Roam” dei Metallica.
Complice l’ora tarda e la stanchezza, l’ora e un quarto proposta ci appare più che soddisfacente e finalmente possiamo riposarci in vista della terza giornata.
VENERDÌ 6 GIUGNO
Parlando dei Wind Rose abbiamo già detto quanto ci abbia fatto piacere vedere un po’ di Italia sul palco dello Sweden Rock. Giovanni Giuseppe Baptista Gioeli, detto Johnny, non sarà proprio un italiano a tutti gli effetti, ma le radici ci sono tutte e, soprattutto, in questa sua nuova incarnazione degli HARDLINE, si è scelto una band tutta tricolore: Alessandro Del Vecchio alle tastiere e alla seconda voce, Anna Portalupi al basso, Luca Princiotta alla chitarra e Fabio Alessandrini alla batteria.
Gioeli è un frontman di razza, uno di quelli che non sta fermo un attimo, che ha carisma, è capace di scherzare col pubblico, ha una buonissima intesa con la sua band, e questo si traduce in un concerto decisamente in palla.
L’ora a disposizione viene spesa soprattutto sui migliori estratti del primo disco degli Hardline, “Double Eclipse”, da cui vengono tratti episodi di valore come “Takin’ Me Down”, “Dr. Love”, “Rhythm From A Red Car” o la cover di “Hot Cherie”. La band suona un hard rock dalle tinte AOR molto sanguigno, ed inserisce, di tanto in tanto, qualche estratto da altri classici del pop/rock degli anni Ottanta, come “Who Wants To Live Forever” dei Queen o “In The Air Tonight” di Phil Collins.
Gioeli si conferma un ottimo cantante e il suo entusiasmo è davvero contagioso e il pubblico, da parte sua, risponde con entusiasmo e trasporto. Un’ottima partenza per questa terza giornata di concerti.
Se nelle prime due giornate ci siamo concentrati sui palchi maggiori del festival, la terza giornata restiamo invece nelle retrovie, per gustarci i numerosi concerti che magari attirano meno persone, ma non per questo sono meno interessanti. Dispiace un po’, ad esempio, vedere la stragrande maggioranza del pubblico riversarsi sotto il palco principale per uno show degli Apocalyptica fatto di sole cover dei Metallica, lasciando giusto un manipolo di fan della vecchia scuola ad accogliere i CRIMSON GLORY.
La band americana, che dalle nostre parti non passa da parecchio tempo, si rende protagonista di un altro ottimo concerto, con una scaletta da infarto che si concentra sui primi due storici lavori, “Crimson Glory” e “Trascendence”, con quest’ultimo che viene eseguito quasi nella sua totalità. Il gruppo suona con energia ed eleganza, portando in scena quella formula fatta di power metal americano e progressive che li ha fatti passare allo status di band di culto.
Eccellente il cantante Travis Wills, che riesce a gestire con grande maestria le linee vocali del compianto Midnight (scomparso nel 2009), ma non è da meno anche il resto della formazione, che suona con precisione senza perdersi in chiacchiere, in modo da sfruttare al meglio il tempo a disposizione.
Restiamo sempre nell’ambito più classico della manifestazione e ora tocca a JORN calcare le assi dello Sweden Stage, lo stesso palco occupato un’ora prima dagli Hardline. Anche lui un artista della nostra Frontiers Records, ed infatti troviamo ancora Alessandro Del Vecchio dietro alle tastiere, a fare da sparring partner al cantante norvegese e alla sua band solista.
Jørn Lande, per chi scrive, è una delle più grandi promesse mancate del metal: dotato di una voce e di un timbro eccezionali, a metà strada tra Ronnie James Dio e David Coverdale, ha avuto un inizio di carriera sfolgorante (Millennium, Masterplan e soprattutto Ark), per poi perdersi un po’ per strada, con una carriera fatta di collaborazioni estemporanee, dischi solisti o – nel peggiore dei casi – interi album di cover di dubbia utilità.
In questa occasione Jørn ci regala un breve excursus sui migliori episodi della sua carriera solista e, senza alcun dubbio, ancora oggi resta un interprete eccellente. Una qualità che il cantante rende evidente anche nell’esecuzione di “Bad Boys” dei Whitesnake e “The Mob Rules” dei Black Sabbath – non a caso due band che rappresentano perfettamente la sua timbrica.
Restiamo invece un po’ scettici sulla qualità delle sue canzoni soliste che, per quanto scritte e suonate con professionalità, non ci hanno mai dato l’impressione di essere all’altezza del passato di Jørn. Curiosa, infine, la scelta di suonare anche “Square Hammer” dei Ghost, presentata come un omaggio al momento di straordinaria vitalità che sta passando il metal svedese.
Una chicca che non volevamo perderci era senza dubbio la reunion degli OLD MAN’S CHILD, che qui allo Sweden Rock hanno suonato il loro primo show dopo venticinque anni di assenza.
Galder e soci salgono sul palco in orario diurno, lontani dagli slot notturni che invece sarebbero stati più consoni, e ci rendiamo conto con una certa sorpresa che il leader e fondatore della band non avrebbe svolto anche il ruolo di cantante. A ricoprire questo ruolo, infatti, è stato scelto Hoest dei Taake, che si presenta con corpse paint d’ordinanza ed un’inconsueta longsleeve bianca, quasi abbagliante nel luminoso pomeriggio svedese.
La band apre le danze con “Towards Eternity”, dallo storico “Ill-Natured Spiritual Invasion” e da lì prosegue con un compendio dei migliori episodi della loro carriera, da “King Of The Dark Ages”, fino alla conclusiva “The Millennium King”.
La resa del concerto è molto buona e non abbiamo la sensazione di avere a che fare con una realtà ferma da un quarto di secolo: Galder e Hoest sono affiatati, l’ex Dimmu Borgir Tjodalv picchia di gusto dietro le pelli e il resto della band non è da meno.
Unico inconveniente, un problema tecnico importante alla chitarra di Galder, che ha costretto la band ad interrompere un po’ imbarazzata lo show per qualche minuto, in attesa che gli efficienti tecnici del festival ripristinassero il tutto. Un buon concerto, che avrebbe solo meritato il favore delle tenebre per ricreare la giusta atmosfera.
Dopo una gran parte della giornata trascorsa nei palchi piccoli, ci spostiamo finalmente nell’area principale per un altro ritorno molto atteso di questo 2025.
Parliamo dei RUNNING WILD, che hanno ripreso il largo per mettere a ferro e fuoco l’Europa con una manciata di concerti estivi.
Rock ‘n’ Rolf e la sua ciurma salgono sul palco ed è “Fistful of Dynamite” ad incendiare la platea, tra fiammate, esplosioni e fuochi artificiali. Il Capitano è agghindato di tutto punto con la divisa marinara e alle sue spalle troneggia un muro di amplificatori. Non ci sono molti orpelli scenici, eppure la luce del sole – ben lontana dal tramonto – inizia a sfumare su colori dorati, dandoci davvero la sensazione di assistere ad un concerto suonato sulle assi di un veliero gigantesco.
I Running Wild suonano con sicurezza e potenza, sparando colpi di cannone devastanti come “Bad To The Bone”, “Riding The Storm”, “Lead Or Gold” e “Under Jolly Roger”. Nel mentre continuano i giochi pirotecnici, che lanciano ondate di calore sul pubblico delle prime file, sotto lo sguardo sornione di Rock ‘n’ Rolf.
Un concerto solidissimo e coinvolgente, che però sul finale ci lascia un po’ di amaro in bocca: i Running Wild, infatti, avrebbero avuto a disposizione settantacinque minuti, un tempo magari non sufficiente per uno show completo, ma comunque più che dignitoso in un contesto festivaliero.
La band, invece, decide inspiegabilmente di usarne poco più di sessanta che, tra saluti, cori, bis e quant’altro, si traducono in una stitica scaletta di appena dieci canzoni. Contando che si tratta di un gruppo che tende a centellinare le proprie esibizioni, la sensazione di aver avuto a che fare con un concerto monco è stata più forte di quanto avremmo immaginato dal puro e semplice running order.
Se Slipknot e Korn sono state due scelte anomale nel ruolo di headliner, gli SCORPIONS rappresentano invece una scelta decisamente più conservatrice da parte del festival.
Un nome leggendario, che ha fatto prima la storia dell’hard rock, per arrivare fino alla popolarità più mainstream agli albori degli anni Novanta con quella “Wind Of Change”, diventata una hit spacca-classifiche. La band è impegnata in un tour che celebra i sessanta (!) anni dalla sua fondazione, datata appunto 1965: il concerto, quindi, si apre con un video che celebra con dei filmati storici questo percorso, un viaggio nel tempo che si conclude proprio con l’ingresso della band sul palco sulle note di “Coming Home”.
Chi scrive era piuttosto preoccupato per le condizioni di salute della band e, in particolare, del frontman Klaus Meine. Gli Scorpions, infatti, avevano annullato alcune date primaverili per una brutta bronchite che aveva colpito il cantante e temevamo che questo avrebbe potuto lasciare degli strascichi sulla performance vocale di un artista di settantasette anni.
Non sappiamo se la causa sia stata questa ma, in effetti, l’inizio del concerto per il cantante è davvero faticoso, con Klaus ad arrancare sulle tonalità più alte. Molto meglio, invece, la performance strumentale, che invece ci è parsa assolutamente all’altezza: la coppia di chitarre di Rudolf Schenker e Matthias Jabs funziona ancora alla grande e l’ingresso di Mikkey Dee, nel 2016, ha dato una spinta ulteriore alla band, che riesce ancora a suonare con energia e convinzione.
Ottima la scaletta, che conferma “Gas In The Tank” dall’ultimo album – un pezzo che non avrebbe sfigurato nemmeno nei classici della band – e poi si butta a capofitto nel più classico dei ‘best of’, con canzoni come “The Zoo”, “Tease Me Please Me”, “Bad Boys Running Wild”, la strumentale “Coast To Coast”, per arrivare alle immancabili ballad, “Send Me An Angel” e – appunto – la già citata “Wind Of Change”. Molto bello il medley che omaggia gli anni Settanta degli Scorpions, quelli con Uli Jon Roth alla chitarra solista, ma è sicuramente con gli album successivi che la band ha raggiunto la vera popolarità, ed il finale, con delle hit del calibro di “Big City Night”, “Blackout” e “Rock You Like A Hurricane” è lì a dimostrarlo.
Un’ultima annotazione, infine, non possiamo che lasciarla alla scenografia: il palco degli Scorpions è un’esplosione di luci, con il maxischermo sfruttato al meglio tra filmati del passato e animazioni all’avanguardia. Il culmine, però, è dato dall’enorme scorpione meccanico che giganteggia alle spalle della band, mentre muove chele e pungiglione con fare minaccioso.
Per fortuna, canzone dopo canzone anche Klaus Meine sembra riprendersi parzialmente e alla fine il bilancio finale del concerto è comunque positivo, per quanto sia ormai del tutto evidente come la band stia raggranellando le ultime forze per un ultimo ballo, prima della meritata pensione. Forse sarebbe davvero il caso di fermarsi, a questo punto.
Dopo tre giorni di concerti ininterrotti, quale modo migliore di concludere la giornata, se non facendoci sbriciolare le ultime forze da un concerto dei MESHUGGAH? Lo slot notturno è perfetto per la formazione svedese, che in questo modo può sfruttare al meglio il suo faraonico light show.
Al di là dell’impatto visivo, però, è la musica a fare la differenza: i Meshuggah disegnano trame complesse e devastanti, il pubblico rimasto viene martellato senza sosta e – complice anche il clima sempre più freddo e umido della notte svedese – ci sembra di essere scaraventati in una sorta di trance aliena ed inumana.
La scaletta scelta ignora completamente il materiale degli anni Novanta (peccato!) e si concentra invece sul materiale del nuovo millennio, con una particolare attenzione per gli ultimi tre lavori in studio e, soprattutto, “ObZen”.
Un concerto davvero impressionante, per quanto impegnativo, soprattutto a causa della sua collocazione oraria.
SABATO 7 GIUGNO
Anche l’ultima giornata di festival può vantare il ritorno dal vivo di una band dopo numerosi anni di assenza dalle scene: questa volta si tratta delle CRUCIFIED BARBARA, che hanno scelto lo Sweden Rock per riprendere le attività dopo lo scioglimento avvenuto nel 2016.
Il quartetto apre le danze con “The Crucifier” e ci regala un’ora di hard rock graffiante, grezzo e sensuale al punto giusto. Anche per loro il tempo non sembra essere trascorso: Mia Karlsson e compagnia suonano con sicurezza e il loro materiale trova senza dubbio la sua dimensione ideale dal vivo.
La band saccheggia tutta la sua discografia e sfrutta al meglio il tempo a propria disposizione, senza perdersi in chiacchiere, ma sparando una cartuccia dopo l’altra, compresa anche la cover di “Killed By Death” dei Motörhead. Un graditissimo ritorno, che ci auguriamo possa essere consolidarsi nell’immediato futuro, magari con un nuovo album in studio.
Il tempo di ristorarci un po’ nella vastissima area food, ed è già il momento di tornare sotto il palco, questa volta per gli HYPOCRISY.
Peter Tägtgren e compagni prendono possesso del palco e ci scaraventano nei loro viaggi interstellari, abitati da creature aliene e minacciose. La band erige un notevole muro sonoro con una resa di suoni perfetta, mentre ripercorre quasi tutta la propria carriera, dalla lontana “Left To Rot”, da “Penetralia”, fino ai capitoli estratti dal più recente “Worship”, la cui copertina giganteggia alle spalle della band.
Semplice, eppure efficace, anche la messa in scena, con giusto qualche piccolo elemento di contorno e la giusta attitudine sul palco, in particolare da parte del carismatico Tägtgren. Lo Sweden Rock non è senza dubbio un festival votato al metal estremo, ma la lunga tradizione del death metal svedese trova sempre uno spazio, anche in palchi maggiori.
Gli Hypocrisy hanno sicuramente un catalogo che non manca di melodia e, infatti, il pubblico appare partecipe e decisamente numeroso, mentre la band sciorina canzoni storiche come “Adjusting The Sun” o “Roswell 47”.
Cambiamo completamente registro, invece, con i GOTTHARD, che sul palco principale si sono aggiudicati uno slot di primordine, con ben settantacinque minuti a loro disposizione. D’altra parte, con più trent’anni di storia alle spalle, la band di Leo Leoni ha tutto il diritto di occupare uno spazio di rilievo e, sebbene la loro storia non li abbia mai portati davvero ai vertici del rock, il loro percorso è sempre stato coerente e meritevole, tanto da renderli una delle più celebri realtà musicali provenienti dalla Svizzera.
Rispetto al tour da headliner concluso a maggio, i Gotthard si vedono costretti a rimaneggiare parzialmente la loro scaletta, rinunciando alle parentesi acustiche – difficili da gestire in un contesto come questo – puntando invece ad una setlist dritta, fatta di hard rock puro e canzoni da cantare in coro. Ampio spazio viene lasciato al recente “Stereo Crush”, che si conferma un buon lavoro anche dal vivo, a cui si affiancano brani di sicuro impatto come “All We Are”, “Top Of The World”, “Mountain Mama”, fino alle immancabili cover di “Hush” (diventata celeberrima nella versione dei Deep Purple) e “The Mighty Quinn” di Bob Dylan.
La band ci mette tanto mestiere e il cantante Nic Maeder non avrà il carisma di Steve Lee, ma ormai ha fatto suo il ruolo di frontman della band da quasi quindici anni e non si risparmia per tutta la durata del concerto, arrivando a farsi un giro tra le transenne, continuando a cantare sulle spalle di un roadie durante “Lift You Up”. Il loro non sarà stato il concerto più intenso o indimenticabile del festival, ma lo Sweden Rock resta la cornice ideale per una realtà come questa.
Dispiace un po’, invece, vedere i BLIND GUARDIAN doversi accontentare di uno concerto di appena un’ora. C’è stato un momento in cui la band sembrava essere candidata ad occupare le posizioni più alte dei maggiori festival europei; invece, col tempo la loro spinta si è un po’ assopita.
Le ragioni potrebbero essere molteplici: è innegabile come la qualità delle pubblicazioni dei Blind Guardian sia ben lontana da quella di capolavori come “Imaginations From The Other Side” e “Somewhere Far Beyond”, ed anche la scelta – di per sé rispettabilissima – di rifuggire tutti gli orpelli scenici che sembrano andare per la maggiore nel metal di oggi potrebbe averli penalizzati, rispetto ad altre formazioni meno raffinate ma più spettacolari.
Fatto sta che Hansi e compagni non si perdono d’animo e ci promettono “la migliore ora della nostra vita”. Forse detta così è un po’ troppo, ma senza dubbio ci hanno regalato un grande concerto, suonato alla perfezione, cantato molto bene e con una selezione di brani magari non sorprendente, ma di sicuro impatto.
Ampio spazio viene dato a “Nightfall in Middle-Earth”, che diventa inaspettatamente la spina dorsale dell’intero concerto, con brani immortali come “Into The Storm”, “Time Stands Still (At The Iron Hill)” e l’immancabile “Mirror Mirror”.
Il resto della scaletta, invece, ondeggia tra passato e presente, ma senza particolari sorprese, se non giusto il ripescaggio di “Tanelorn (Into The Void)”, che non si sentiva da una decina d’anni. Continuano a non convincerci le canzoni più recenti (“Blood Of The Elves” e “Violent Shadows”) e ci rifugiamo invece nei grandi classici come “Valhalla” o “The Bard’s Song” per ritrovare i Blind Guardian che amiamo.
Una piccola nota di colore finale: l’esecuzione di quest’ultima, che normalmente vede l’intera platea cantare a squarciagola, di fatto sostituendo Hansi, allo Sweden Rock ha visto una partecipazione veramente modesta. Ora capiamo perché molte delle registrazioni dal vivo dei Bardi vengono fatte in Italia, o comunque in paesi latini!
Eravamo curiosi di vedere dal vivo i BLACK COUNTRY COMMUNION, vista la caratura dei musicisti coinvolti. Non capita tutti i giorni di vedere sullo stesso palco artisti del calibro di Glenn Hughes, Joe Bonamassa, Derek Sherinian e Jason Bonham e, quindi, avevamo delle aspettative abbastanza alte in questo senso, per quanto – lo ammettiamo – non siamo mai stati dei fan accaniti di questo supergruppo.
Con un certo dispiacere, invece, dobbiamo dire che l’esibizione dei nostri non è riuscita a farci cambiare idea, lasciandoci un po’ l’amaro in bocca per via di un’esecuzione un po’ frenata, sicuramente al di sotto delle loro potenzialità.
La scaletta ripercorre in maniera equa gran parte della discografia della band, con la sola esclusione del terzo disco, “Afterglow”, e sebbene la classe di questi musicisti sia innegabile, ci sembra che dal vivo la loro proposta finisca per non avere una identità ben precisa.
La chitarra di Bonamassa è perfetta per il blues, ma non riesce a restituire quell’energia grezza che ci piace ascoltare in un contesto hard rock. Per contro, sia lo stile di Bonham che quello di Hughes sembrano essere un po’ imbrigliati, non riuscendo ad esprimersi al massimo delle proprie potenzialità. E non è nemmeno tanto un tema di età anagrafica, perché sono passati solo pochi mesi da quando abbiamo rivisto Glenn Hughes rivisitare il suo repertorio dei Deep Purple e ci è parso ancora in formissima. Perfino un professionista come Sherinian ci è parso piuttosto distaccato, limitandosi a svolgere il suo compito, senza dare un contributo davvero evidente al sound della band.
Un’ora e un quarto ben suonata, professionale, ma molto più fredda di quanto ci saremmo aspettati. Peccato.
Sensazioni diametralmente opposte, invece, si respirano sotto il palco dei TURBONEGRO.
La folle band norvegese sale sul palco con i suoi buffi costumi, che sembrano pescati a caso per una festa di carnevale improvvisata, e si lancia in uno spettacolo dissacrante, ironico, potentissimo e dannatamente divertente. Il capolavoro della band, “Apocalypse Dudes” viene saccheggiato e possiamo dar fondo alle nostre ultime energie con canzoni “Rendezvous With Anus”, “Selfdestructo Bust” o “The Age Of Pamparius”, intervallate da altri episodi irresistibili come “Hurry Up & Die”, “I Got Erection”, fino all’immancabile “All My Friends Are Dead”.
Chi scrive, purtroppo, non ha mai avuto il piacere di vedere la band all’opera con il compianto Hank Von Hell, ma Tony Sylvester ci è sembrato un frontman adattissimo alla musica dei Turbonegro, coinvolgente e carico, con quel giusto mix tra menefreghismo e strafottenza, che riflette perfettamente la carica punk del gruppo. Senza alcun dubbio, una delle migliori performance dell’intero festival!
Siamo davvero arrivati alla fine e, seppur esausti, ci spostiamo rapidamente verso il palco principale. Sui maxischermi, viene proiettata la locandina dell’edizione del 2005 del festival, dove, piccolino in basso, compare per la prima volta il nome dei SABATON.
Sono passati vent’anni esatti da quella edizione, e la band di Joakim Brodén ha scalato tutte le possibili posizioni, arrivando oggi al ruolo più ambito. Sono loro, infatti, gli headliner che chiuderanno ufficialmente questa faraonica edizione dello Sweden Rock e, ovviamente, l’hanno fatto davvero in grande.
Quando le luci si spengono, sul palco viene svelato l’enorme arsenale messo in campo dai Sabaton: fiammate gigantesche, maxischermi, un impianto luci equivalente a quello di un piccolo sole e, naturalmente, un titanico carrarmato che diventa sia base per la batteria (minuscola, in confronto), sia palco luci semovente che di tanto in tanto prende il volo.
La band imbraccia le armi e mette in piedi lo show della loro vita, senza risparmiare nemmeno una goccia di sudore e sprizzando gioia e orgoglio guerresco da ogni poro. La discografia dei Sabaton viene percorsa in lungo e in largo e, naturalmente, viene dato spazio anche a diversi brani cantati in svedese, come “Carolus Rex” o “A Lifetime Of War”.
Il loro power metal cadenzato ed epico può piacere o meno, e chi vi scrive, ad esempio, non è certamente uno dei più strenui fan della band. Tuttavia è innegabile come questi ragazzi si siano guadagnati la loro posizione con una costanza ed una tenacia invidiabili. Brodén e compagni sul palco si divertono, si scambiano scherzi – con Chris Rörland che si diverte ad appiccicare plettri sulla fronte sudata di Joakim – oppure costruiscono piccole scenette, come quando il cantante imbraccia la sua chitarra rosa di Hello Kitty per accennare “Smoke On The Water” e “Master Of Puppets”.
Il resto è un delirio di fiamme, esplosioni e fuochi d’artificio. I Sabaton potranno piacere o meno, ma in questa edizione dello Sweden Rock hanno vinto loro.