Il concetto di ‘power trio’, nato nel corso degli anni, ha una precisa valenza non solo in ambito jazzistico, ma anche in quello metal: sono infatti innumerevoli le formazioni che con soli tre elementi hanno scritto la storia della nostra musica preferita; ma, nella sera del 24 novembre, abbiamo avuto modo di assistere a un concerto del tutto particolare e sopra le righe, specialmente in ambito progressive.
Prendete infatti tre musicisti, probabilmente fra i migliori al mondo nei loro ambiti, come Guthrie Govan (chitarra), Marco Minneman (batteria) e Bryan Beller (basso), con all’attivo decine di collaborazioni con molte formazioni della scena metal e hard rock internazionale, amalgamate bene e dopo una sana spruzzata di umorismo quanto basta mettere tutto nel frullatore: quello che otterrete sono i The Aristocrats, una formazione che ha saputo far breccia nel cuore non solo dei metallari appassionati di progressive, ma anche dei fanatici più indefessi del jazz.
Un Live Club praticamente dedicato solo a loro per un’ora e tre quarti di concerto che hanno deliziato sopraffinamente gli amanti dei tempi dispari presenti. Vediamo com’è andata.
Sono le 21 quando una serie di brani pop cominciano a fluire dagli altoparlanti del Live Club: un cambio di registro repentino nelle musiche che ci stavano venendo proposte (composte principalmente dai Jazz Sabbath) che inizia a far presagire l’ingresso dei tre musicanti su un palco estremamente spoglio e ridotto.
“Stupid 7” irrompe subito, lanciata da una breve presentazione a cura dell’istrionico Bryan Beller, evidentemente sempre a suo agio anche fuori dal suo lavoro principale con la ‘fiction metal band’ Dethklok, travolgendo la platea con uno sciorinare tempi assurdi, cambi di registro e le facce divertite dei tre compagni di avventure.
La policy della serata è no foto e no video, con tanto di crew che giustamente abbaglia con le torce chi è abituato a passare il concerto vedendolo dallo schermo del proprio smartphone, forse anche perché vengono suonati ben tre brani nuovi che Minneman, Beller e Govan introducono a modo loro: il biancocrinito chitarrista, ad esempio, racconta che “Sgt. Rockhopper” parla di un pinguino poliziotto che combatte contro il male nella sua città di pinguini, mentre “Hey… Where’s My Beer Package?!” è giustamente, a detta di Minneman, una ‘drinking song’.
Si torna sui grandi classici con la ben più nota “Bad Asteroid” (Govan ci spiega che è dedicata all’asteroide che uccise i dinosauri, che doveva per forza essere cattivo!), mentre Beller, per introdurre “The Ballad Of Bonnie and Clyde”, ci racconta di quella volta che gli rubarono tutti gli strumenti durante un tour: i riff di Guthrie Govan dimostrano come all’infuori della sua principale collaborazione con Steven Wilson ci sia anche un cuore di metallo che batte sotto stratificazioni sonore ed effetti di pedaliera che farebbero piangere qualsiasi chitarrista alle prime armi.
Il pezzo che arriva subito dopo, sinceramente, proprio non ce lo aspettavamo: la band chiede alla platea qualè il genere che non hanno mai sentito suonare dagli Aristocrats, e qualcuno risponde «90’s Dance!». Corretto! “Aristoclub” accende letteralmente il live con una serie di giochi di luce da dancefloor, lasciando poi spazio a Minneman per un lunghissimo e contorto assolo di batteria dove le sue mani, a detta dei presenti, sembrano come le ali di un colibrì nel volare agilmente da un piatto a un tamburo e via dicendo. Non a caso parliamo di un batterista che nel corso della sua carriera ha collaborato con Kreator e Necrophagist, oltre ad essere stato uno dei possibili papabili per la sostituzione di Mike Portnoy nei Dream Theater nel 2011.
Non mancano altri momenti divertenti con il batterista che cerca di parlare in italiano con l’uso di un vocoder dalla regia, recitando la filastrocca “Sotto la panca la capra canta” per la gioia e le risate dei presenti. Siamo ormai oltre la metà della scaletta quando parte “Through The Flower”, traduzione letterale di un modo di dire tedesco che Minneman ha cura di spiegarci con dovizia di particolari, ma è con “Ohhhh Noooo” e con “Last Orders” che il power trio lancia le sue cartucce migliori. In particolare, Govan si dimostra essere come sempre un mostro di tecnica, ma non quella sterile: il britannico fa cantare il suo strumento come se fosse un maestro che insegna all’allievo, e si trascina così tanto nel suonare da regalarci una serie di buffissime facce di felicità e trasporto.
Il gran finale non può che essere affidato a “Blues Fuckers”, con i suoi undici sedicesimi fatti chiamare dal pubblico acclamante e assolutamente divertito, sparati a una velocità tale da far sorridere tutti gli appassionati di progressive metal presenti. Beller ci fa anche cantare diverse volte chiedendo di aumentare il numero di applausi e cori, fino a farci urlare “Eh!” per ben ventisette volte, nel divertimento generale.
Che dire? è assolutamente valsa la pena affrontare il freddo e il gelo di questa serata novembrina per godersi una apoteosi di virtuosismo e divertimento come quella a cui abbiamo assistito. Non vediamo l’ora che esca il nuovo album di questi tre signori che più che di aristocratico sanno di folle divertimento e umorismo sopra le righe (Minneman aveva una maglietta con il maestro Kakashi di Naruto!), insegnando a tutti i seriosi là fuori che si può suonare una musica bella, complessa e emozionante divertendosi come dei bambini.
Setlist:
Stupid 7
Hey… Where’s My Beer Package?
Sgt. Rockhopper
Bad Asteriod
The Ballad of Bonnie and Clyde
Aristoclub
Drum Solo
Through the Flower
Ohhhh Noooo
Furtive Jack
Last Orders
Blues Fucker