Al più che giustificato grido di ‘noi non siamo Gigi D’Alessio!’, una discreta ciurma di pomeridiani metallari accoglie al consueto Alcatraz, con i dovuti rispetti, la calata italica della Nera Crociata, il The Black Crusade Tour, di certo uno degli eventi più attesi di questa fine anno estrema. Un bill davvero di prim’ordine caratterizza questa tournée, composto in primis dalla corazzata Machine Head, giunta alla terza esibizione tricolore nel giro di pochi mesi, e dagli ormai lanciatissimi Trivium, un gruppo che sta bruciando tutte le tappe possibili nella sua scalata al successo mondiale; poi Shadows Fall e Arch Enemy, due entità esperte che si sono prestate, proprio per il prestigio di questo tour, a svolgere l’improbo ruolo di apripista della serata; un po’ a parte vanno considerati i Dragonforce, nettamente stonanti fra i loro compagni d’avventura e dediti ad un genere che di solito richiama tutt’altra audience. Come già saprete, l’evento si è chiuso in modo inaspettato e preoccupante, a causa del malore occorso a Phil Demmel, ascia dei Machine Head; quella che segue è comunque l’affidabile cronaca musicale di ciò che è successo in una fredda serata dicembrina milanese…
SHADOWS FALL
Gli Shadows Fall iniziano in orario perfetto, nonostante l’apertura cancelli sia slittata di un’ora rispetto ai piani: il risultato è che il gruppo di Boston si trova nella antipaticissima situazione di suonare mentre hanno appena aperto le porte dell’Alcatraz, contesto che sarebbe stato scomodo anche a un DJ. Guidata da un Brian Fair molto carico, la formazione tenta di non far caso alla circostanza e dà il massimo per i venti minuti concessi, sfornando ad un volume da subito elevato i pezzi più noti e thrashy della carriera, chiudendo con “The Light That Blinds” – dedicata dall’uomo-piovra ai Guitar Hero freaks – e l’ultimo singolo, nominato addirittura ai Grammy Awards 2008, “Redemption”. Una prova caparbia e umile che avrà fatto conquistare punti ai ragazzi del Massachussets, ancora poco considerati dalle nostre parti.
ARCH ENEMY
Gli Arch Enemy sono attesissimi: già durante l’attesa fuori dal locale infatti il pubblico si è lanciato in apprezzamenti sinceri e incensurati nei confronti dell’oggetto del desiderio di gran parte dei maschi possessori di biglietto: miss Angela Gossow. E’ indubbio che il successo crescente della formazione sia dovuto alla bella biondina, sempre più frequentemente protagonista di patinate photo-sessions. Il breve showcase degli anglo-svedesi è abbastanza intenso anche se incentrato sul mid-tempo caratteristico dell’ultima produzione della band; sugli scudi una Gossow potente e padrone nel dosare la sua performance sul palco (seconda solo a Candace dei Walls Of Jericho in quanto a grinta e carisma) e gli assoli dei fratelli Amott (tutti si fregano le mani aspettando Michael con la sua precedente, seminale band). Si fa in tempo a sentire “Nemesis”, “We Will Rise”, “Blood On Your Hands” e poco altro, ma è il prezzo da pagare per un bill così succulento.
DRAGONFORCE
Tocca ai Dragonforce e parecchia gente sa già cosa le toccherà sopportare: tre quarti d’ora di speed-power metal sinfonico suonato alla velocità della luce e a volumi quasi cacofonici. Il sestetto anglo-multietnico è tamarro all’inverosimile e, in barba a tutti quanti, ostenta pure questa sua caratteristica, esibendosi in uno show sopra le righe e controverso. Se da un lato, infatti, la band è in grado di divertire con il suo dimenarsi e correre a destra e a manca, dall’altro è inevitabile constatare come dieci minuti della loro musica dovrebbero bastare e avanzare a chiunque per molto tempo. E’ comunque buona la risposta del pubblico dell’Alcatraz, coinvolto dalle animalesche movenze del tastierista Vadim Pruzhanou, dai soli pazzeschi di Herman Li e Sam Totman e dalla voce ‘celestiale’ di ZP Theart, frontman ideale per una formazione ‘casino&bordello’ quale i Dragonforce. Terminata la performance, buona parte dei presenti dovrà ricorrere alle cure dell’otorino, ma per il metallo questo e altro. Noi continuiamo a chiederci perché fossero presenti e perché abbiano suonato per terzi. Mah…
TRIVIUM
Matt K. Heafy è nato nel 1986. Sebbene a molti risulti arrogante, e nonostante la sua band sia stata spinta in alto da una rampa altissima e dei propulsori enormi, cortesia della gentile casa discografica, il ventunenne leader dei Trivium ha di fronte 2/3000 (giovani) fan ad acclamarlo, ed è un dato di fatto. Se non bastasse, lo spettacolo offerto è stato più che discreto, a parere di chi scrive il migliore live dei Trivium nel Belpaese (si, il sottoscritto ha visto tutte i concerti della band, anche entrambe le date a supporto dei Maiden, ndR). Basato su una scaletta più che prevedibile, modellata sui singoli promozionali di “Ascendancy” e “The Crusade”, lo spettacolo è partito male con una interruzione dovuta a dei problemi alla batteria di Travis Smith. Il frontman ha risolto agilmente con una versione improvvisata di “Symphony Of Destruction”, che ha strappato un sorriso anche ai puristi/detrattori. E’ la naturale fisicità e la disinvoltura nel tenere il palco l’arma principale del gruppo, che con una posa da gruppo navigato intrattiene in maniera classica e diretta, senza effetti scenici o ruffianate fastidiose. “Anthem”, “Entrance Of The Conflagration”, “To The Rats” rendono palese sia quanto il gruppo sia folgorato dai ‘Tallica sia il potenziale elevato di una formazione che è ancora molto molto giovane per trovarsi in questa situazione privilegiata – cinquanta minuti a disposizione, come un vero e proprio co-headliner. Un difetto inusuale è il volume dell’intero spettacolo, dopo la performance dei Dragonforce giunto a livello quasi insostenibile, che rende inintelligibili i cori del pubblico e copre parzialmente anche alcuni passaggi, una follia simile al concerto estivo dei Machine Head al live di Trezzo, ma peggiorata sensibilmente dall’acustica dell’Alcatraz. “Pull Harder On The Strings Of Your Martyr” chiude passando il testimone senza che nessuno abbia urlato in faccia ai Trivium ‘Machine Fucking Head!’. O forse era il volume che ha coperto?
MACHINE HEAD
Una semplice ma ottima scenografia – drappone gigante alle spalle e due grossi rombi con il logo Machine Head ai fianchi della batteria – ci introduce finalmente alla performance degli headliner del The Black Crusade Tour, Machine (fucking) Head from Oakland! L’intro è affidata ai primi minuti di “Clenching The Fists Of Dissent”, mazzata d’esordio di “The Blackening” e anche delle ultime esibizioni italiane dei ragazzi. Ormai Robb Flynn e compagni sono una sicurezza: sanno creare un muro di suono spaventoso, la presenza scenica è terrificante (tre enormi energumeni più un batterista finalmente in piena vista) e i pezzi…be’, i pezzi spaccano, lo sapete tutti quanti! “Imperium” è la seconda perla offertaci, un vero e proprio classico della band nonostante la sua relativamente recente composizione, che ha visto i ragazzi del pit ammazzarsi letteralmente durante il break con riff svedese di centro canzone. Prima di “Aesthetics Of Hate”, il brano ‘dedicato’ ad un giornalista che ha speculato sulla morte di Dimebag Darrell, Robb si accorge di uno striscione, proprio incentrato sull’anniversario della morte del grande chitarrista dei Pantera…l’applauso della folla è scrosciante e la canzone che ne consegue è una palata sui denti scagliata con rabbia e livore. “Old” non fa prigionieri, mentre “Halo” ci porta rapidamente verso la fine dello spettacolo, impostato su pochi brani ma dalla drammatica intensità. I Machine Head si ostinano a voler eseguire uno dei loro (abbastanza) noiosi lenti e quindi ecco arrivare “Descend The Shades Of Night”…e le ombre della notte calano sul serio: dopo un paio di minuti, Demmel decide di collassare e, per fortuna, questa volta ‘the show must NOT go on’. La band riappare preoccupata e saluta l’audience in modo definitivo. Cori e applausi, qualche maledizione, molto rammarico. Mancava solo “Davidian”, infatti… Peccatissimo.