Report di Sara Sostini
Fotografie di Benedetta Gaiani
Pionieri di un inedito modo di fondere darkwave e certa psichedelia desertica, i The Cult sono stati in grado di cavalcare le maree dell’industria musicale quasi sempre a testa alta: complice una ottima capacità di scrivere canzoni in grado di parlare al cuore di una moltitudine variegata, un cantante dalla voce magnetica, riff memorabili, il gruppo inglese è rimasto – più o meno – nei cuori e negli stereo di tantissime persone.
L’annuncio del tour “8424”, celebrativo di quarant’anni di carriera, ha richiamato per la data al Carroponte di Sesto San Giovanni, alla periferia di Milano, un pubblico nutrito ed eterogeneo – dagli adepti della new wave agli appassionati di hard rock, passando per famiglie e metallari di multiforme natura – nonostante il caldo a tratti quasi letale del sabato di fine luglio.
Ad accompagnare i The Cult in questo tour, Jonathan Hultén, ex chitarrista dei Tribulation ora impegnato col suo progetto solista tra scenari onirici e cantautorato folk. A voi il resoconto di una serata accaldata ma speciale.
Il sole è vicino al tramonto ma ancora sopra la linea dell’orizzonte quando JONATHAN HULTÉN compare sul palco: il pubblico – per lo meno, quello non sparpagliato tra le aree relax del prato, gli stand di cibo e bevande – si appresta alla performance del chitarrista svedese con un misto di curiosità e perplessità; questo non deve stupire, vista la provenienza da un genere ben specifico come quello suonato dai Tribulation (un death metal partito con melodie old-school e progressivamente ibridatosi e diluitosi con tantissime altre influenze, dal rock psichedelico degli anni 70 a scenari più gotici), abbastanza lontano forse dal palato della maggior parte dei presenti, e la scenografia in cui l’artista suona – una sorta di soppalco ornato da fiori e piante varie.
Anche l’abito di scena gioca la propria parte, ovviamente: la figura efebica e vagamente spettrale del musicista è ammantata da un costume velato a metà tra abiti vittoriani, Diamanda Galas e una novella horror, in grado di enfatizzarne le pose teatrali e oniriche assunte suonando e cantando – con una punta di ammirazione generale da parte degli spettatori per la stoicità con cui indossa una tenuta simile con le temperature, ancora proibitive, della sera che cala.
Una performance, dicevamo, più che un concerto, perchè appunto ciascun elemento non è meramente corollario della musica ma parte integrante di un ibrido più complesso, capace di raccontare panorami silvani con la sfocatura dorata dei sogni: l’unione tra la voce densa di Hultén e gli arpeggi di chitarra risulta affascinante, mescolando derive crooner di certo folk americano con una sensibilità naturalistica tutta scandinava.
Certo, la dimensione da ‘grande concerto’ all’aperto penalizza un po’ la carica coinvolgente del set, risultando facilmente disperdibile tra l’ampio spazio e il chiacchiericcio generale che ancora anima tutta l’area, anche se molti comunque risultano coinvolti da quanto messo in scena sul palco.
Da parte nostra ci riserviamo di dare un giudizio più definito sulla tenuta live degli estratti di “Chants From Another Place” dopo averli sentiti in un ambiente meno illuminato e più raccolto.
Siamo arrivati al concerto contenti della prospettiva di poter vedere una band ‘magica’, e allo stesso tempo leggermente timorosi di come potessero essere sul palco di THE CULT, ma è bastato l’attacco di “In The Clouds”, annunciata da “La cavalcata delle Valchirie” di Wagner, per fugare tutti i dubbi: Billy Duffy riesce a stregare ancora a colpi di Falcon, Charlie Jonas sa far schioccare il basso come si deve, John Tempesta orchestra qualsiasi ritmo con sicurezza dietro alla batteria e, soprattutto, la voce di Ian Astbury c’è, e si sente (!).
Forse più che qualsiasi altra all’interno di una band, quella del cantante è una figura delicata per gruppi di questo tipo (in ambito metal, e non solo), con alle spalle un sacco di strada e l’età che avanza: il rischio di prestazioni altalenanti, quando non pessime, è qualcosa che ci è capitato di vedere spesso, in passato; invece siamo ben contenti di riportare come il magnetico leader appaia in forma ottimale, con l’immancabile bandana in testa, gli ampi vestiti scuri e una schiera di tamburelli e maracas da lanciare ovunque sopra e sotto il palco durante tutta la scaletta.
Certo, l’età, il caldo e la prospettiva di un tour comunque lungo hanno inciso sulla scelta di ‘riadattare’ alcuni brani, rallentandoli appena appena, in modo da permettere a Ian di cantare solo una parte delle parole: ecco che quindi “Sweet Soul Sister” e “Rain” sono comunque da lacrime agli occhi, ma risultano leggermente ‘azzoppate’; questo non spaventa certo il pubblico, che invece canta noncurante di ciò, seguendo la formazione inglese lungo i più grandi (e bei) momenti della loro carriera; che siano “Wild Flower” o “Love Removal Machine” da “Electric”, più grintose e graffianti, o le distorsioni elettriche di “Rise”, praticamente quasi nessuna fase della carriera dei Nostri viene trascurata, compresi i capitoli più recenti come “Choice of Weapon” (con “Lucifer”) o “Under The Midnight Sun” (“Mirror”).
La scenografia è inesistente, contano solo i quattro musicisti sul palco che, nonostante il caldo quasi insostenibile, comunque si muovono (senza esagerare) con disinvoltura e rodata sapienza, con Billy Duffy ancora in grado di prendersi il proprio – meritatissimo – spazio sotto i riflettori con le sue chitarre, e Ian Astbury a sparpagliare il proprio carisma sciamanico ad ogni movimento, magari non più brillante come una volta – i siparietti in italiano fanno sorridere ma danno proprio la sensazione di interludi ‘di mestiere’, anche se l’accorato commiato finale con “ci terrei veramente a presentare qualcosa al Teatro alla Scala prima o poi” ci è sembrato davvero sentito – ma ancora abile nell’infilarsi sotto la pelle degli spettatori con le ombre polverose di “Spiritwalker” o “Resurrection Joe”.
Nell’ora e mezzo di concerto, si alternano momenti ad alto tasso di entusiasmo – siamo sicuri che qualcuno stia ancora saltando su “Fire Woman” o la già citata “Rain” – a quelli più raccolti, con un’emozionante “Brother Wolf, Sister Moon” negli encore a piazzarsi tra i momenti più da pelle d’oca della serata e “Edie (Ciao Baby”) in versione più ‘intima’ con solo voce/chitarra; quando arriva “She Sells Sanctuary”, con il luminoso arpeggio iniziale a far bruciare le ultime energie rimaste, il tempo sembra fermarsi e correre indietro, a quando “Love” diventava uno degli album a lasciare un segno importante nella storia della musica.
Un concerto-tributo ad una carriera immensa e la prova di come si possa portarla avanti nonostante gli anni che passano: davvero ai The Cult non potevamo chiedere molto altro.
Setlist The Cult:
In the Clouds
Rise
Wild Flower
Star
Mirror
The Witch
The Phoenix
Resurrection Joe
Edie (Ciao Baby)
Sweet Soul Sister
Lucifer
Fire Woman
Rain
Spiritwalker
Love Removal Machine
Brother Wolf, Sister Moon
She Sells Sanctuary
JONATHAN HULTÉN
THE CULT