08/11/2017 - THE DARKNESS + BLACKFOOT GYPSIES @ Alcatraz - Milano

Pubblicato il 18/11/2017 da

Report a cura di William Crippa
Fotografie di Alice Pandini

I The Darkness sono ormai degli habitué in Italia; tra il set di supporto ai Guns N’Roses, il concerto al Rugby Sound e queste tre nuove date a supporto del nuovo “Pinewood Smile” salgono a cinque le occasioni, in questo 2017, avute per ammirare la band britannica su suolo italico. Al loro fianco, gli sconosciuti americani Blackfoot Gypsies, che presentano caratteristiche musicali molto differenti da quelle degli headliner di serata. “Pinewood Smile”, definito come il miglior album del gruppo dall’accoppiata d’esordio, è ormai uscito da più di un mese, ed i brani che lo compongono dovrebbero essere ben assimilati dai fan. Arriviamo al locale di via Valtellina con un buon anticipo, questo ci permette di superare i controlli di sicurezza per tempo per l’irruzione sullo stage dei supporting act, che salgono sulle assi del palco principale di fronte ad un’Alcatraz ancora deserto e con buona parte del pubblico ancora all’esterno.

 


BLACKFOOT GYPSIES

Ad aprire la serata i Blackfoot Gypsies, band southern rock direttamente da Nashville, Tennessee. Praticamente sconosciuti a tutti i presenti, i quattro americani danno vita ad un set davvero convincente, basato su una proposta certamente datata ma catchy ed allegra, costruita su rock, blues, bluegrass, country ed ogni altro genere southern, che definire semplicemente vintage è poco e poco onesto, un sound che da subito diverte e coinvolge i presenti. Presenza caratterizzante nella band è l’armonicista Ollie Dogg, che svolge il ruolo classicamente affidato alla chitarra solista, impegnato in un assolo continuo ad impreziosire il lavoro dei compagni. Brani divertenti, una presenza scenica che ispira simpatia, con il cantante Matthew Paige magro come un chiodo che si muove dinoccolato e a ciondoloni con il suo cappello preso forse dal set de “La Casa Nella Prateria”, per un concerto che conquista i fan dei The Darkness e che vede scendere dal palco la band dopo una manciata di brani tra gli applausi di tutta la venue.

 

THE DARKNESS
Arrivano le 21:20, le luci si spengono e gli headliner di serata salgono sulle assi del locale come sempre sulle note di “Arrival” degli Abba, con Justin Hawkins che si sofferma a centropalco ammirando il pubblico intervenuto; “Open Fire”, potente e diretta, infiamma subito l’Alcatraz, bissata dalla più ragionata e solenne “Love Is Only A Feeling”, seguita da tutti gli astanti che muovono le braccia a tempo. Primo brano estratto dal nuovo “Pinewood Smile” è “Southern Trains”, che rialza il ritmo affievolito con il singolone precedente. I suoni non sono assolutamente ottimali stasera e l’impressione che i due Hawkins neppure si sentano tra loro è palpabile, ed anche la voce di Justin ci fa pensare parecchio, con il microfono tenuto ad un volume altissimo per evitare sforzi eccessivi al frontman. Cominciano ad arrivare reggiseni sul palco, neppure fossimo ad un concerto degli Steel Panther, ed il cantante, divertito, li indossa uno dopo l’altro sulla schiena. Lo show prosegue potente ed apprezzato, con l’accoppiata “Black Shuck” e “One Way Ticket” intervallata dalla nuova “Bucaneers Of Hispaniola”, che tra due brani classici perde forse troppo in freschezza. Sorte differente per “All The Pretty Girls”, primo singolo estratto da “Pinewood Smile”, proposta dopo “Givin’ Up” che contrasta la solita odiosa e insipida “Barbarian” a seguire. Il pubblico è caldo e partecipe e si lascia trasportare da ogni nota fuoriesca dagli altoparlanti, imitando anche gli urletti del cantante nel sing along, infischiandosene degli evidenti problemi ai suoni, problemi che persisteranno fino a fine show. Curioso è ciò che accade all’esecuzione di “Friday Night”, quando il pianoforte portato in mezzo al palco per l’occasione suonerà muto per tutta l’esecuzione del brano, brano che storicamente si basa proprio su questo strumento, salvo poi risorgere a volume troppo alto per “English Country Garden”. Ciò che colpisce in questa occasione è l’eccessiva calma di Justin Hawkins, che da sempre è solito regalare ai fan pazzie in linea con la sua folle personalità, ma che invece si mostra spento e fin troppo ortodosso nell’atteggiamento on stage. Non impressiona “Happiness” nella sua versione live, che mostra di non avere il tiro necessario per essere paragonata alle canzoni seguenti, “Every Inch Of You” ed una “Makin’ Out” da scapocciarsi di headbanging; e così è anche per “Solid Gold”, brano che non ci sarebbe mancato in scaletta. “Get Your Hands Off My Woman” e “Growing On Me”, dal debutto, portano alla pausa. Solo due brani per l’encore, “Japanese Prisoner Of Love” e l’acclamata a gran voce “”I Believe In A Thing Called Love”, che chiudono un concerto interlocutorio, soprattutto per chi ha avuto modo di assistere altre volte agli show della band inglese; suoni a parte, che ci hanno davvero rovinato buona parte dei pezzi, la band ci è sembrata quasi spenta se paragonata alla macchina da guerra vista nelle occasioni precedenti. Un’ultima riflessione sui sei brani tratti dal nuovo album, che in chiave live non suonano convincenti e all’altezza dei precedenti.

 

0 commenti
I commenti esprimono il punto di vista e le opinioni del proprio autore e non quelle dei membri dello staff di Metalitalia.com e dei moderatori eccetto i commenti inseriti dagli stessi. L'utente concorda di non inviare messaggi abusivi, osceni, diffamatori, di odio, minatori, sessuali o che possano in altro modo violare qualunque legge applicabile. Inserendo messaggi di questo tipo l'utente verrà immediatamente e permanentemente escluso. L'utente concorda che i moderatori di Metalitalia.com hanno il diritto di rimuovere, modificare, o chiudere argomenti qualora si ritenga necessario. La Redazione di Metalitalia.com invita ad un uso costruttivo dei commenti.