A cura di William Crippa
Fotografie di Francesco Castaldo
La terza tappa italiana dei The Darkness vede la band esibirsi a Milano, all’Alcatraz di via Valtellina. Arriviamo poco prima delle 18 al locale e già la fila di fan in attesa di entrare si allunga fino alla fine della via e prosegue per quella seguente. Alle 19, ora fissata per l’apertura delle porte e dello sportello accrediti, solitamente separato da quello principale, scopriamo per oggi di dover fare tutta la coda per poter arrivare all’ingresso. Dopo 85 minuti di coda ed un controllo molto severo da parte della polizia all’ingresso riusciamo ad arrivare nel locale, comunque ancora semivuoto, per l’esecuzione dell’ultimo brano da parte del duo acustico The River 68’s. Ci scusiamo quindi con i lettori per l’assenza del report del set dei due ragazzi di Glasgow. Lentamente la gente riesce ad entrare, ma le 21, ora prevista per l’inizio dello show dei The Darkness, si avvicinano a grandi passi. Arrivano dunque le nove, ma nulla succede; rimaniamo così nell’attesa guardandoci attorno ed osservando i presenti: decisamente vario il pubblico stasera, con seriosi signori di mezza età accompagnati da mogli in tenuta più ‘da tè con le amiche’ che per un concerto rock, fianco a fianco con glamster variopinti e metallari classici. Passano le 21:15 e anche le 21:30 e qualche fischio si leva, accompagnato da mugugni e bestemmie, ma tutto molto contenuto. Ore 21:40, infine: la musica diffusa come sottofondo si spegne – ben quaranta minuti di ritardo! – ed il concerto dei The Darkness può iniziare.
THE DARKNESS
Finalmente le luci vanno giù sollevando le grida della venue intera. I The Darkness entrano, come di consueto, sulle note di “Arrival” degli Abba, per poi lanciarsi nella divertente “Barbarian”, strana opener del nuovo album; Justin Hawkins prende la parola e si scusa con i presenti per l’inizio posticipato del concerto. Il simpatico frontman spiega che la band ha deciso di ritardare la partenza dello show per dare la possibilità a tutti coloro ancora in fila all’esterno per i controlli di polizia di poter accedere al locale per vedere il concerto dall’inizio; perciò, continua Hawkins, per scusarsi con i fan milanesi e per premiarli per la pazienza avuta, questa sera ci sarà una variazione alla setlist del tour per offrire più musica che nelle altre date, notizia, questa, accolta con vera gioia. Il pubblico si accende con due brani dal debutto, “Growing On Me” e “Black Shuck”, cantati da tutti gli astanti, prima del ritorno al presente con “Mudslide”. Justin tra un brano e l’altro afferra il microfono e parla a ruota libera, ma il suo inglese cockney è decisamente molto stretto e la sua parlantina è troppo veloce e ricca di versetti per rendere intelligibili i discorsi, tanto che dal pubblico si alza un clamoroso urlo ‘Oh, non si capisce un cazzo!’, urlo che causa una risata nei fan e che verosimilmente viene compreso anche dal cantante, che da questo punto cambierà approccio, buttandola molto più sulla simpatia slapstick-style. “Givin’ Up” dà luogo ad una gag incredibile, con un fan che passa la propria macchina fotografica a Justin, il quale la prende e si fotografa nelle mutande davanti e dietro, nella grande ilarità e simpatia generale. “Roaring Waters” porta al primo vero highlight di stasera, “One Way Ticket”, introdotta da Frankie Poullain che si becca anche un gran coro, subito doppiata dall’amatissima “Love Is Only A Feeling”, cantata a squarciagola da tutti. Viene portata una tastiera al centro del palco, con il cantante che offre una nuova gag caricandosela sulle spalle e fingendo sia pesantissima; Justin preme qualche tasto e constata che lo strumento non sta funzionando a dovere, così improvvisa una fantastica “Friday Night” a cappella duettando con tutto il pubblico, fino a che la tastiera infine si accende ed il brano viene riproposto dall’inizio, seguito da “English Country Garden”, sempre con il frontman impegnato sullo strumento. “Every Inch Of You” è spassosissima, così come “Rack Of Glam”, al termine della quale viene portata l’attenzione su colui che c’è alle pelli della batteria, ovvero Rufus Taylor, figlio di Roger, batterista dei Queen, all’indirizzo del quale parte un fragoroso coro. Il pubblico è davvero felice e partecipe, e canta come se non esistesse un domani; la band, da par suo, è straordinariamente in forma, con Justin Hawkins costantemente sugli scudi, a sciorinare falsetti a ripetizione e improvvisare gag su gag. Il concerto avvia alla conclusione e Justin, in verticale di fronte alla cassa della batteria battendo le gambe a tempo, dà il via a “Get Your Hands Off My Woman”; “Stuck In A Rut” porta a “I Believe In A Thing Called Love”, accolta con un boato incredibile e cantata da tutto l’Alcatraz, e quindi alla pausa. L’encore si apre con “Open Fire”, la sorpresa annunciata ad inizio set ed assente dalle scalette dei precedenti concerti; la cover dei Radiohead “Street Spirit”, molto apprezzata, porta al finale di “Love On The Rocks With No Ice”, durante la quale Justin sale sulle spalle di un membro della security, uscendo sul parterre ed attraversando il locale da destra a sinistra tra i fan i delirio. Il concerto si conclude in maniera abbastanza atipica, con la band che lascia il palco in fretta e furia, come se si trattasse di un’ulteriore pausa, lasciando comunque i fan soddisfatti pienamente. Abbiamo infatti assistito ad un’ulteriore prova maiuscola dei The Darkness, che hanno nuovamente conquistato il pubblico milanese tra grande musica e gag irresistibilmente comiche. Citando una scritta letta sul muro esterno dell’Alcatraz durante l’ora e mezza passata in fila per entrare, ‘I Believe In A Thing Called The Darkness’!