Report a cura di Gennaro Dileo
Sembra oramai impossibile arginare la vertiginosa ascesa di consensi che di recente sta caratterizzando la prolifica vita artistica dei The Dead Daisies. I navigati protagonisti stanno meticolosamente diffondendo la propria arte in giro per il mondo attraverso una serie di impressionanti esibizioni, in grado di testimoniare che il rock non è morto, tutt’altro. Il recente album dal vivo “Live & Louder” rappresenta una nitida testimonianza di quanto appena descritto e, a tal proposito, le nostre aspettative di assistere ad un concerto indimenticabile sono state ampiamente appagate. Nonostante ci imbattiamo in un grigio lunedì sera estivo, annotiamo sin dalle prime battute una consistente affluenza di un pubblico malcelatamente entusiasta di assistere ad una performance dei propri beniamini, che si rivelerà a dir poco clamorosa. Ci scusiamo con i sostenitori dei The Stone Garden per non essere riusciti ad assistere alla loro (acclamata) performance, ma non appena riusciamo faticosamente a divincolarci tra i numerosi presenti, gli Headless si presentano sul palco con un ospite d’eccezione…
HEADLESS
Seppur lievemente fuori contesto, in una serata caratterizzata da sonorità sporche e sudate, il collettivo nostrano palesa con garbo la propria classe esecutiva nella mezz’ora ad esso concessa. Guidati dalla voce cristallina di Göran Edman, celebre ai più per aver dato il suo contributo nell’ottimo “Eclipse” di Yngwie Malmsteen, i protagonisti forgiano una miscela di raffinato metal progressivo sulle orme dei Queensrÿche più radiofonici, amalgamata ad un notevole gusto per il rock melodico caratterizzato da ritornelli di facile presa. “Melt The Ice Away” e “When Dreams And Past Collapse” rimangono scolpite nella nostra testa, per via di un afflato strumentale lievemente arzigogolato ma denso di sostanza, dal quale l’ugola d’oro del frontman scandinavo si esprime con classe ed esperienza. I considerevoli volumi degli strumenti coprono un pelo la voce di Edman, abile comunque ad attirare l’attenzione su di sé grazie al suo timbro duttile ed incisivo. Lo zenit emozionale della perfomrance viene però toccato dalla reinterpretazione dell’intensa power ballad “Save Our Love”, celebre composizione inclusa nel già citato “Eclipse”, dalla quale emerge un’evidente coesione tra i musicisti. Una maggiore dinamicità ed empatia nei confronti dei presenti avrebbe probabilmente conquistato qualche potenziale fan in più ma, a questo punto, siamo davvero curiosi di vederli all’opera magari in un ambiente a loro più congeniale.
THE DEAD DAISIES
Durante il cambio del palco notiamo che l’affluenza dei presenti nel club orobico è oramai alle stelle. Nonostante la temperatura interna abbia raggiunto dei livelli proibitivi, l’ingresso dell’acclamato collettivo sulle note di un azzeccato mash-up di “Whola Lotta Love” e “War Pigs” viene salutato da un boato incontenibile. Sin dal primo riff dell’incalzante “Long Way To Go” è evidente che assisteremo ad uno show travolgente, esperienza che si rivelerà da tramandare ai posteri. La botta sonora è di quelle che difficilmente si scordano, per merito del muro eretto dai chitarristi David Lowy e Doug Aldrich, quest’ultimo impeccabile artefice di assoli spettacolari. La scaletta segue nella forma e nella sostanza quella inclusa in “Live & Louder”, amplificandone giocoforza l’intensità dei watt ed il trasporto emotivo. Il tentacolare batterista Brian Tichy è un motore ritmico inarrestabile, al quale spetta il compito di tessere una fitta tela ritmica da cui si snodano le innumerevoli ed eclettiche note scandite dal carismatico bassista, nonché acclamato ‘latin lover’, Marco Mendoza. Come un infervorato ultrà, il musicista originario di San Diego incita tutti i presenti a partecipare in maniera attiva, regalando poi un’incursione in platea circondato da un entusiasmo difficilmente descrivibile a parole. L’aura del rocker vissuto permea la figura quasi mistica del frontman John Corabi, il quale sacrifica come un martire le sue corde vocali fino all’ultimo secondo, accompagnandoci per mano attraverso le immense lande assolate di “Mexico”, per poi imbracciare come un poeta-vagabondo la sua chitarra acustica all’altezza dell’introspettiva “Lock’n’Load”. “Make Some Noise” si presenta come un fragoroso anthem che segue le orme di “We Will Rock You” dei Queen, amplificata all’eccesso da un groove al cardiopalma, mentre “The Last Time I Saw The Sun” descrive con acume i pregi e i difetti della vita on the road. Il meglio però deve ancora incredibilmente venire, in quanto, durante la presentazione di ogni singolo componente, i Nostri assumono le vesti di goliardici giocolieri, avventurandosi in frammentari rifacimenti di celebri hit come “Dirty Deeds, Done Dirt Cheap”, “Run To The Hills”, “Black Night”, “Heaven And Hell” e “La Bamba” (!). Da lì in avanti, i The Dead Daisies decidono di pagare dazio alle proprie origini, rinnovando lo spirito mai domo della saltellante “Join Together” dei The Who, della rude “Helter Skelter” dei The Beatles, della celebrativa “We’re An American Band” dei Grand Funk Railroad e del roboante chiasso perpetrato attraverso le stordenti note di “Midnight Moses” dei The Sensational Alex Harvey Band. Quando i giochi sembrano oramai conclusi, i The Dead Daisies, galvanizzati come pochi altri, ci regalano una versione terremotante di “Highway Star” dei Deep Purple, a testimonianza di un evento che testimonia uno stato di salute strepitoso per il classic rock. Fenomenali.