11/08/2015 - THE DILLINGER ESCAPE PLAN + BLACK TUSK + IF I DIE TODAY @ Magnolia - Segrate (MI)

Pubblicato il 20/08/2015 da

A cura di Giovanni Mascherpa

Una data dei The Dillinger Escape Plan al Magnolia da tempo non è più un evento: è solo una consuetudine. Ad ogni tour, gli autori del seminale “Calculating Infinity” passano a far visita in zona Idroscalo di Milano. Questo non vuol dire che il loro concerto vada inteso come un’esibizione di routine, tutt’altro! I post-corer americani seminano il panico come pochi durante le loro esibizioni, sono maestri nel far perdere i freni inibitori, a provocare propositi di lotta e ribellione nei propri fan che sfociano in inenarrabili mischie a bordo stage. L’energia contagiosa che eruttano i quattro ogni volta che salgono sul palco è micidiale, irresistibile, non arginabile. Basta andare a vedere qualche video su Youtube per accorgersene. Quindi, anche se gli uomini di Brian Weinman sono di casa da queste parti, anche se una performance dei Nostri non è affatto cosa rara per chi gravita in zona Milano e dintorni, e nonostante l’unico show italiano di questo tour avvenga a metà agosto, nella fase di massimo deserto metropolitano, il Magnolia va lentamente riempiendosi man mano che ci si avvicina all’ora X, fissata per le 22.30. Prima, la giovane ciurma di patiti di questo seminale gruppo era sciamata con serafica calma verso la venue, lasciando parecchio spazio libero davanti al secondo stage per capienza dell’area estiva –non sappiamo come mai non sia stato utilizzato il palco più grosso all’esterno del locale – quando si erano dati battaglia i due validi opening act, i piemontesi If I Die Today e i Black Tusk. Noi però eravamo approdati per tempo sul luogo del delitto e vi raccontiamo con piacere una serata che si è svolta brillantemente e senza intoppo alcuno. Un ultimo dettaglio da segnalare prima di parlarvi delle performance delle singole band: per darvi l’idea di cosa ci si aspettava, considerate che nelle vicinanze dell’entrata stazionava un’ambulanza…

the dillinger escape plan - milano 2015

IF I DIE TODAY

Con il terzo full-length “Cursed” in uscita ufficialmente a ottobre (già disponibile, invero, al banco del merchandise del gruppo), i ragazzi di Mondovì sanno di giocarsi carte importanti davanti a un pubblico che, a parte qualche raro caso, non sa bene cosa aspettarsi da loro. Però lo capisce in fretta, il tempo di mettere a posto i suoni bassi dei primi minuti, portarli a decibel consoni per un concerto hardcore, e lasciare finalmente che tutti i cavalli nel motore della formazione possano sfogarsi senza ritegno alcuno. Sotto la guida sfrontata dell’ottimo frontman Marco Fresia, gli If I Die Today transitano con la grazia di un carrarmato sul contenuto stage dove sono costretti ad operare. La base è un hardcore metallico Anni ’90 che ha in Integrity e primi Converge la sua primaria fonte d’ispirazione, gravitante attorno a tempi medi spezzettati e rissosi, quella via verso la gloria e la complessità perseguita attorno a metà anni ‘90 da gente come gli Snapcase, tra i primi a capire che non di sole rapidità e isteria potesse vivere l’hardcore. Urla belluine tranciano l’aria, mentre le chitarre sparigliano il campo flettendosi fra riff nerissimi Louisiana-style, minimalismi punk e una generale attenzione ad appesantire le trame, invece che a far schizzare note a raffica dagli strumenti. Buona parte del merito dell’incedere moderatamente aggrovigliato e costantemente groovy va dato ai pattern di Davide Gallo, bravo nello scomporre ogni pezzo in tronconi più ragionati e altri disperatamente feroci. Fresia scende anche dal palco per cantarci a un centimetro dal viso, Barbablu hardcore dalle inesauribili tonsille, desideroso di un po’ di contatto fisico con gli astanti. La partecipazione non è fenomenale, però il quintetto se ne frega e sfodera una prestazione decisamente buona: non saranno pochi coloro che si avvicineranno interessati a fine concerto ai dischi e alle magliette prodotte finora.

BLACK TUSK

Freddati dalla morte del simpatico bassista Jonathan Athon, deceduto in un incidente stradale nel novembre del 2014, i Black Tusk non si sono persi d’animo e hanno reagito nell’unico modo possibile di chi ha fatto di un palco la propria dimora: suonare ovunque, senza sosta, con addosso quel sacro fuoco che li portati negli anni a diventare una live band rispettabilissima. Varietà e classe difficilmente verranno a popolare il loro songwiriting, ma la scena ha bisogno anche di gente di questo tipo, uomini che cavalchino lungo e dentro le frontiere di qualsiasi paese li voglia accogliere per professare idee semplici, che provengono dalla pancia del movimento, da un cuore pulsante passione indomita e una gran voglia di far gazzarra. In questo i Black Tusk non si battono: quando c’è da strizzare gli amplificatori fino a farli sanguinare, a ridurli a un colabrodo di distorsioni imbizzarrite, bastonare le corde di basso e chitarra affinché vomitino putridume maleodorante in forma di sludge thrasheggiante, il trio della Georgia non ammette repliche né confutazioni. Le luci molto basse giocano a favore del gruppo nell’esacerbare la propria indole assassina, si vedono in controluce Andre Fidler (chitarra) e Corey Barhorst (basso) scavare solchi nello stage a forza di percorrerlo in tutta la sua esigua larghezza. Una, due, tre voci rantolanti coniugano urgenza e ignoranza, in combutta con chitarre untissime assemblano un quadro dove il proto-thrash sembra sguazzare nel fango delle paludi e poi spogliarsi della sua connotazione originaria affogando in una caciara quasi hardcore, con qualche momento groovy a dare un attimo di respiro. Quaranta minuti sono fin eccessivi quando la ricetta è così semplice come quella dei Black Tusk, ma impeto e dedizione non si comprano al mercato, e queste due qualità, detenute in abbondanza dalla band, bastano ai Nostri per portare a casa una performance meritevole del nostro massimo rispetto.

THE DILLINGER ESCAPE PLAN

Non esistono artifizi retorici che possano minuziosamente spiegare cosa comporti vedere all’opera i The Dillinger Escape Plan. Forse chi è uso a esperienze ‘al limite’ nell’uso di sostanze psicotrope potrebbe essere più preciso, raggiungendo in un alterato stato cognitivo quella capacità dialettica che tenga il passo delle sincopi, degli attorcigliamenti, dei teoremi di suono complicatissimi architettati dai cinque Dillinger; dilemmi astrusi risolti in un battito di ciglia proprio dai loro stessi autori, ogni qual volta a una parentesi psyco/prog/avantgarde pongono fine con una scarica di colpi squisitamente grind, oppure hardcore, pop, alternative o altro ancora. Il motivo per cui questi pazzoidi, nella cui line-up i musicisti si sono alternati con un turnover pari quasi a quello di una società di consulenza, vanno ammirati dal vivo almeno una volta nella vita, è il fatto che praticamente ridicolizzano se stessi nella dimensione in studio. Sì, perché quando Greg Puciato in tutta la sua testosteronica corpulenza, bronzo di Riace in spaventosa espansione durante il concerto stesso, sorta di Incredibile Hulk dal colorito non verdognolo, zompa con un balzo gattesco già al primo pezzo (“Prancer”) tra le prime file senza neanche avvisarle del tuffo kamikaze, e una volta agguantato continua a cantare come se nulla fosse, già si capisce che proprio un concerto normale non lo sarà. È una sfida ginnico-musicale quella scatenata da questi ragazzi, “Good Neighbor” mette le cose in chiaro e non lascia adito ad alcun dubbio sullo stato di salute di una formazione che è nata con i prodromi di una rivoluzione in divenire, l’ha fatta deflagrare, non ha finora mostrato il fianco ad alcun indebolimento o segno di declino. Weinman si gira su se stesso, brandisce la chitarra a mo’ di scimitarra lanciandola attorno a sé, la riprende e intanto non perde il filo degli algoritmi ritmici promulgati dagli esordi di fine Anni ’90 ad oggi. La precisione non cede il posto alla benché minima sbavatura, neanche quando la smodata carica ipercinetica di pezzi come “Panasonic Youth” sembra sul punto di far deragliare il tutto in un maelstrom indistinto; il controllo resta ferreo, non importa che ci si stia dando alla pazza gioia sulle acrobazie della conclusiva “43% Burnt” (a distanza di sedici anni scardina mandibole come la prima volta che la si è udita in età-adolescenza) o ci sia da omaggiare uno scampolo alternative/crossover come nel caso del ritornellone di “We Are The Storm”. Guardandoci attorno, osserviamo quanto i The Dillinger Escape Plan abbiano mantenuto un’audience relativamente giovane, il grosso dei presenti sta tra i venti e i trent’anni, non oltre, un dato non così scontato per una band che a conti fatti è in giro da quasi vent’anni, eppure continua ad avere una freschezza e a comunicare un’idea ‘avanguardistica’ che nessuna melodia più o meno facile, più o meno cantabile ha finora potuto intaccare. Alcune leggere ‘debolezze’ delle prove in studio vengono rase al suolo sul fronte live, quei pochi momenti nel corso dei dischi in cui pare emergere una sottile ripetitività nello scorticante tumulto di concatenazioni di riff, tempi, melodie, arrangiamenti fra il cubista e l’espressionista, su di un palco scompaiono, travolte dall’impeto sovrumano di tutti gli strumentisti. Vuole un discorso a parte Greg Puciato, vero erede di Mike Patton sul fronte estremista: se i The Dillinger Escape Plan sono, già da “Miss Machine”, assimilabili agli autori di “The Real Thing” in molte soluzioni, trasportate ovviamente in un contesto dieci volte più esasperato nel tecnicismo e nella velocità d’esecuzione, buona parte del merito va a un singer che non teme confronti sia nel ruolo di urlatore, sia in quello di soffuso pop singer mainstream (incredibili alcune piccole puntate nel falsetto), sia a maggior ragione in quello di seduttore da night-club. A livello di intrattenimento, scovateci altri svalvolati del genere, con un chitarrista, il solito Weinman, che si lancia sul pubblico e poi si fa issare per riuscire a suonare in posizione eretta galleggiando sulle teste delle prime file in equilibrio quasi ottimale pur nella sua precarietà: va oltre, e non poteva essere altrimenti, Puciato, novello King Kong che si arrampica in perfetto stile da free climber su una delle colonne di sostegno al palco, perseguendo nel proporre le sue linee vocali appeso con una mano sola e l’altra avvinghiata al microfono. Facile, no? Quando, al termine di un’ora e dieci circa di suprema arte dell’incastro sonoro tridimensionale, la band chiude il suo set con “43% Burnt”, di nuovo tre su quattro non perdono l’occasione di un ultimo jump tra la folla, mentre del set di batteria viene fatto completo scempio. Nessun encore, ma non crediamo se ne possa ricavare un motivo di delusione: il nome dei The Dillinger Escape Plan rimane una garanzia di assoluto delirio esibizionista, un must se si vuole comprendere fin dove si possano spingere in creazioni psicotiche degli esseri umani, quando nessuno interviene a placarne l’inventiva.

Setlist:
Prancer
Milk Lizard
Good Neighbor
Happiness Is A Smile
One Of Us Is The Killer
We Are The Storm
Nothing’s Funny
Panasonic Youth
Highway Robbery
Baby’s First Coffin
Sunshine Of Your Love / Sunshine The Werewolf
Farewell, Mona Lisa
When I Lost My Bet
43% Burnt

4 commenti
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