25/01/2017 - THE DILLINGER ESCAPE PLAN + HO99O9 + PRIMITIVE WEAPONS @ O2 Forum - Londra (Gran Bretagna)

Pubblicato il 06/02/2017 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa

Completata la corposa fase nordamericana del tour di commiato, i The Dillinger Escape Plan sbarcano in Europa. La campagna di conquista inizia dal Regno Unito, omaggiato di ben otto appuntamenti fra Inghilterra, Scozia e Galles. L’epicentro dello sfavillante luna park dillingeriano non può che essere la data londinese, che in mezzo a una settimana al solito zeppa di eventi per la capitale britannica raduna all’O2 Forum di Kentish Town un pubblico affamato, pronto a godersi una delle ultime recite dei post-corer statunitensi. C’è il tutto esaurito, l’occasione è troppo ghiotta per restare fuori e vi è già un’ordinata coda intorno al locale quando arriviamo in loco all’orario di apertura porte. Gli act di supporto non sono gli stessi per l’intera tournée nel Vecchio Continente, per lo spezzone in Terra d’Albione ad aprire ci sono i Primitive Weapons, usciti lo scorso con il secondo album “The Future Of Death” sotto il cappello della Party Smasher Inc. di Ben Weinman. Si tratta di una formazione molto affine stilisticamente ai TDEP, invischiata in sonorità matte e libertine, dove melodia e astrusità cercano di andare il più possibile d’accordo. Mentre la scelta degli ho99o9 ci spiazza completamente. Qua andiamo in territori hip-hop, ammorbato da industrial ed elettronica sprezzante; un suono grondante malessere, disturbante, incline a portare disagio. In pratica, i miasmi dei ghetti neri statunitensi vomitati in musica, con due vocalist uno più minaccioso dell’altro a incutere un crudo timore reverenziale. Un bel pacchetto di scuotimenti, alterazioni ritmiche, sperimentazioni a briglia sciolta che vanno in scena con leggero ritardo, quando l’O2 Forum è ancora mezzo vuoto e la temperatura interna abbastanza fredda. Ma si alzerà in fretta…

 


PRIMITIVE WEAPONS

Molto sbattimento, molta corsa, ansia di stupire, vocalizzi a effetto, ritmi spastici e orecchiabilità: i Primitive Weapons ci mettono tanto impeto, sudore, passionalità, ma a convincerci del tutto proprio non ce la fanno. Chiamati a ricoprire un ruolo importante davanti a platee ben propense ad accogliere suoni come i loro, i quattro denotano sicuramente un approccio sfacciato e verace, non ancora una solidità contenutistica, né un’esecuzione adamantina, tali da farci credere di aver scovato la beneamata ‘next big thing’. Complici suoni impastati, le canzoni scorrono confuse, manifestando uno stato d’indecisione solo in parte dovuto a deficit di missaggio. Siamo dalle parti dello sludge mastodoniano imbastardito dal math-core, ricetta non sconvolgente oramai, che comporta un obbligatorio tributo all’intricatezza con l’utilizzo di stacchi in tempi dispari e spigolosità improvvise nel riffing. Ai Primitive Weapons non piace complicare troppo le cose, e allora a rapidi annodamenti seguono corse a perdifiato fra thrash e hardcore, mitigate da sortite in pulito dello snodato singer, cui si contrappongono le rauche grida del chitarrista. Non stiamo dietro all’isterismo dei pezzi, che ondeggiano svagati fra ritmi più groovy e accelerazioni a testa bassa verso l’ignoto, mettendo a dura prova la nostra comprensione di cosa stiamo veramente ascoltando. L’impressione è che negli sviluppi melodici e relativamente lineari la band abbia una sicurezza che va perdendosi quando la concitazione prende il sopravvento e i brani sono trivellati da un funambolismo non ancora orchestrato al meglio. Niente di disastroso, intendiamoci, i Primitive Weapons divertono e a intermittenza prendono il largo in sequenze debordanti, dove incanalano al meglio follia e urgenza espressiva. Devono registrare alcune cose, eliminare alcune svolte in eccesso nel percorso, abbandonarsi più spesso alla linearità. Rimandati, ma con onore.

HO99O9

Di tutt’altra pasta si rivela essere l’esibizione dei ho99o9. L’immaginario del trio, composto da due inquietanti individui di colore e un più composto ragazzo caucasico alle pelli, mette assieme in un unico calderone non proprio velati richiami alla cultura afro e ai riti vudù (se ci scherzino sopra o ci credano, non è dato di sapere, e non ci sbilanciamo in pronostici), rabbia rivoltosa tipica di chi è cresciuto in quartieri degradati, indole hardcore e una  fame scellerata per disturbi e percussionismo assordante. Peccato che tutta la farcitura (ottima) di chitarre granulose sbrecciate d’effetti e di industrial comatoso arrivi da basi già impostate, il che toglie un pizzico di genuinità e pathos; il doppio attacco vocale e il drumming furibondo, invece, sono reali e devastanti, pugni nello stomaco e nelle parti basse che non riusciamo a parare con sufficiente prontezza. Fisico tirato e tatuaggi ovunque, i cantanti prendono possesso dello stage con movenze ginniche un po’ studiate e un po’ istintive. Rappano come se dalle loro parole potessero scaturire pallottole, e i proiettili si conficcassero mortalmente nel corpo dei loro odiati nemici. theOGM si presenta con indosso un vestito da donna bianco che pare tagliato secondo la foggia ottocentesca, Eaddy, denotante una forte somiglianza con l’ex-cestista Dennis Rodman, appare a torso nudo, un fascio di nervi pronto a scagliarsi addosso a chi commetta un movimento indesiderato. La sala recepisce benissimo quanto suonato, nascono i primi focolai di mosh e la parte avanzata del parterre dimostra di conoscere bene le liriche degli ho99o9, seguendo per quanto possibile le metriche indiavolate dei due demoni neri. A un certo punto Eaddy scavalca la transenna e va a farsi circondare dai fan invasati, ingenerando una tensione superficiale fortissima in tutti i presenti, che quasi si attendono che scoppi una babele senza padroni proprio di fronte al palco. Non succede nulla, ma lo stato di agitazione permane, d’altronde gli scorticamenti uditivi grondano costantemente minaccia e il lavoro alle pelli non è secondario nel creare ansia. Avevamo molti dubbi sull’effettivo valore della band, la performance londinese li ha fugati a colpi di machete.

THE DILLINGER ESCAPE PLAN

Fin dalle ultime rifiniture del soundcheck si alza un rumoreggiare sempre più acceso, all’interno di una venue completamente gremita. L’intro vero e proprio dura poco, battiti di percussioni elettroniche che mettono in vibrazione il diaframma mentre le luci stroboscopiche pulsano freddi fasci luminescenti dal fondo del palco in penombra. L’allestimento dello stage è scarno, alla band della scenografia non è mai fregato nulla. E’ “Limerent Death” ad accendere l’interruttore fisico ed emotivo, scatenando tumulti disordinati nell’intero parterre. Formidabili personaggi da live, dimensione nella quale allargano l’insurrezione originaria dei pezzi a una bestialità schizoide eguagliabile da pochi altri ensemble, i cinque si fanno beffe di una lucidatura dei suoni abbastanza approssimativa e si scagliano selvaggi addosso a un pubblico che sembra si sia caricato per settimane a dei generatori di corrente, per sfogare tutto ciò che ha dentro nel tempo ristretto del concerto. Le luci mietono vittime quasi quanto la musica, aumentando l’effetto di epilettica solleticazione degli istinti, intanto “Panasonic Youth” grida contorta rovesciandoci in testa un’eccitazione vertiginosa, che sembra doverci piallare completamente e ridurci in polvere. Si subisce e basta, si viene tramortiti e scagliati ora in un turbinio di violenza insensata, ora in atmosfere elegantemente fumose. Come accade sui dischi, non ci sono mai troppi pezzi sulla stessa falsariga uno dietro l’altro, il primo attimo di respiro arriva con la pacata “Symptom Of Terminal Illness”, che consente a Puciato di poter trattare la voce con meno irruenza e sfoderare le sue doti di suadente interprete da jazz club. “Sugar Coated Sour” fa paura oggi come all’epoca dell’uscita di “Calculating Infinity”, i suoni non propriamente nitidi non ne intaccano l’anima hardcore né mortificano le inconcepibili – per quegli anni – combinazioni di note suonate a velocità impossibili, trasfigurando i generi e tranciando ogni legame con la normalità. Oltre che massacrarsi a spintoni e andare fuori di testa percorrendo sotto costrizione labirinti sonori multidimensionali, i fan dei TDEP vogliono anche cantare quelle strambe hit alternative-psicotiche entrate in circolo da “Miss Machine” in avanti. Allora è la zigzagante linea obliqua di “Black Bubblegum” ad aizzare i sing-along, a cui veniamo strappati dagli strattoni punk di “Surrogate” e dalla centrifuga colorata di “Hero Of The Soviet Union”, episodi ancora più strazianti quando arrivano dopo alcuni minuti lievemente più soft. Vi è mai accaduto di rimanere in totale apnea durante un concerto? È quello che accade durante il forsennato swing metallico di “Milk Lizard”, vero simbolo dell’entusiasmo esagerato immesso dall’audience londinese. L’O2 Forum quasi trema per il saltellare di decine di persone, mentre l’intonazione del refrain va quasi a coprire Puciato, circondando come una festosa mareggiata la band. Ci vuole un po’ per riprendersi, il gruppo non se ne cura minimamente della spremitura di risorse energetiche arrecata ai dirimpettai e riparte con la sarabanda di coltellate e arcobaleni di “Low Feels Blvd”. Il singer non può prodursi nei suoi salti da stuntman dalla balconata, dato che appena sotto di essa c’è la scaletta di accesso al pit, ci pensa Weinman a issarsi in piedi sulle primissime file, posizione dalla quale domina con sguardo spiritato l’intera platea. Prosegue il gioco di ambivalenze, all’ordito lineare ma inquieto di “One Of Us Is The Killer” si contrappone l’esagitazione fra sogno e sbigottimento di “Nothing To Forget”. Coi Dillinger l’abitudine e la calma non sono contemplate, “Farewell, Mona Lisa” mette al centro la versatilità di Puciato, le strofe pulite ammiccanti incastonate in mezzo a urla belluine e scampoli di assurda morbidezza, grotteschi se rapportati all’olocausto cibernetico che vi sta attorno. “Sunshine The Werewolf” provoca terremoti nella coda perentoriamente sludge-epica, “Prancer” affonda i denti nella corteccia cerebrale ormai esaurita e la strappa di netto. I musicisti s’accomiatano in fretta. Tutto finito? No. L’encore si apre sulle note di piano di “Mouth Of Ghosts”, una delle rare perle di vera dolcezza sfornate in carriera dai Nostri, e deraglia nella mattanza futurista di “43% Burnt”, conosciuta a memoria in ogni singolo anfratto dai presenti. Abbandonando in ultimo piani di fuga cerebrali e rompicapi enigmatici, è “Wish” dei Nine Inch Nails a tambureggiare lurida sulla nostra spossatezza, coi The Dillinger Escape Plan che sembrano planare sulla Terra al termine di un lunghissimo volo acrobatico, per ricordarci che, in fondo, sono una rock band come le altre. Una cover riuscitissima, ennesimo colpo di teatro di una prestazione insubordinata e sregolata come lo è stata tutta la storia della formazione dagli esordi ad oggi. La splendida cornice e la voglia di divertimento di tutti l’hanno resa memorabile.

Setlist:
Limerent Death
Panasonic Youth
Symptom of Terminal Illness
When I Lost My Bet
Sugar Coated Sour
Black Bubblegum
Surrogate
Hero of the Soviet Union
Milk Lizard
Low Feels Blvd
One of Us Is the Killer
Nothing to Forget
Farewell, Mona Lisa
Sunshine the Werewolf
Prancer
Encore:
Mouth of Ghosts
43% Burnt
Wish

 

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