Report e foto di Riccardo Plata
Nonostante l’hype nei loro confronti sia un po’ calato rispetto ad un paio di anni fa – quando, poco dopo l’uscita di “Rumble Of Thunder”, fecero il loro trionfale esordio sul suolo italico nella prestigiosa cornice dell’Alcatraz – il ritorno da headliner in terra meneghina dei The Hu è sempre un evento da non perdere, quindi anche la tappa ai Magazzini Generali in una tiepida giornata di fine estate fa registrare una discreta affluenza di pubblico, a dispetto di prezzi non proprio popolari.
Ad aprire la serata gli svedesi Solence, quartetto piuttosto distante dalla formazione mongola ma comunque capace d’intrattenere a dovere un pubblico apparentemente altrettanto eterogeneo per età e gusti, se pur con una minor quota di stranieri e connazionali della band rispetto ad un paio di anni fa.
Sebbene siano in attività da una dozzina d’anni ed abbiano ormai quattro album all’attivo, per loro stessa ammissione i SOLENCE non erano mai passati dall’Italia: nella mezz’ora a loro disposizione il quartetto svedese, in divisa da paramedici in ottemperanza al loro ultimo singolo “A Banger a Day Keeps the Doctor Away”, ha dunque modo di presentarci per la prima volta il meglio della loro produzione, all’insegna di un electronic-core festaiolo che chiama in causa Electric Callboy, Blind Channel, Smash Into Pieces e Siamese.
Pur senza particolari orpelli scenografici, e con una formazione a quattro elementi orfana del basso, gli svedesi mostrano di sapere tenere egregiamente il palco con il cantante Markus Videsäter e lo scenografico chitarrista David Strääf (con dei dreadlock degni del miglior Lenny Kravitz) a dividersi nel ruolo di mattatori della serata, mentre il tastierista Johan Swärd li supporta occasionalmente con una pianola a tracolla.
Musicalmente nulla di particolarmente innovativo, ma la contaminazione tra sonorità ‘-core’ ed elettronica viene bene accolta dal pubblico che si trova ad accompagnare, verosimilmente pur avendole sentite per la prima volta, la già citata “A Banger a Day Keeps the Doctor Away” o “Fuck The Dad Vibes”.
Geograficamente e musicalmente siamo come detto abbastanza lontani dagli headliner, ma la strana coppia di formazioni risulta alla fine bene assortita, conquistando gli applausi del pubblico prima di lasciare il palco dopo mezz’ora spaccata.
E’ un allestimento necessariamente più ampio, se pur privo di particolari scenografie, quello che accoglie alle nove in punto i THE HU, disposti su tre file come in formazione militare: davanti ci sono ovviamente i quattro frontman/membri fondatori – Gala, Jaya, Enkush e Temka – a dividersi le parti vocali con gli strumenti tipici, mentre in seconda e terza fila trovano posto i turnisti addetti agli strumenti più ‘tradizionali’ della musica metal: chitarra (Jamba), basso (Davaa), batteria (Odko) e percussioni (Ono).
L’impatto visivo in termini di affollamento può ricordare quello di alcune formazioni folk dell’Europa centro-settentrionale, ma anche dal punto di vista dell’interazione col pubblico la formazione mongola si mostra parecchio disciplinata, limitando al minimo i movimenti e pause in ottemperanza al ritmo marziale di “The Gereg” e “Shoog Shoog” poste in apertura del set.
Chi non li ha mai visti potrebbe figurarsi uno strano incrocio tra Rammstein, Apocalyptica e Korpiklaani in salsa asiatica, ma la verità è che l’immaginazione non rende giustizia al colpo d’occhio, così come dal vivo canzoni come “Triangle” o “Bosoo” guadagnano punti rispetto alla versione in cuffia.
Certamente il rischio, una volta superato l’effetto sorpresa e complice la difficile comprensione del cantato in lingua madre, è quello di una certa ripetitività di fondo, ma anche qui la band si mostra abile piazzando a metà setlist un break semi-acustico con la ballad “Mother Nature” seguita dalla simil-country “Sell The World”, prima di giocare il jolly con l’attesa cover di “Through The Never” dei Metallica (rilasciata nell’edizione celebrativa del Black Album e fedele all’originale pur in questa versione riarrangiata e tradotta), sulle cui note si scatena il primo timido mosh nelle prime file.
L’amore della band per l’’album nero’ per antonomasia non è certo un segreto, e così dopo i battimani di “Yuve” e il ruggito animalesco di “Wolf Totem”, ci avviciniamo alla fine con “This Is Mongol”, ritmicamente simile ad “Enter Sandman”, prima dell’encore con “Sad But True”, anch’essa resa in versione più vicina a quella di “S&M” e fatta propria dal punto di vista vocale.
Dopo un’ora e venti è tempo di saluti e di bilanci: un’esperienza sicuramente sui generis e da provare almeno una volta, anche se per tornare a calcare palchi più grandi da headliner servirà probabilmente qualche variazione sul tema.
THE HU
SOLENCE