Report a cura di William Crippa
Fotografie di Bianca Saviane
7 febbraio, una serata in cui un ricchissimo panorama musicale interessa Milano: è di scena a Trezzo sull’Adda Devin Townsend, mentre all’Alcatraz di via Valtellina sono in programma gli A Day To Remember; quindi, la decisione più logica è selezionare la terza opzione nell’imbarazzo della scelta, The Pretty Reckless al Fabrique. La band guidata dall’attrice Taylor Momsen è in tour sull’onda del successo ottenuto dall’ultimo lavoro da studio “Who You Selling For”, maturo ed estremamente positivo. Ad aprire, gli sconosciuti The Cruel Knives. Appena arrivati al locale ci mettiamo in fila per entrare, ma percepiamo immediatamente che qualcosa è andato storto, visto che guardandoci attorno siamo gli unici adulti maschi, non contando i genitori presenti per accompagnare le figlie; al nostro ingresso la sensazione di trovarci ad un concerto degli One Direction è concreta, visto che tutto il locale è popolato da ragazzine molto giovani dai capelli multicolor completamente coperte da tatuaggi, forse senza neppure l’età per ordinare una birra. Attendendo l’inizio degli show in posizione defilata, non ci sorprende quasi che una ragazza con i capelli verdi ci chieda di chi è “Sweet Emotion”, classico degli Aerosmith, diffusa dagli altoparlanti. Per fortuna le 20.00 arrivano in fretta e le luci si spengono per l’inizio delle ostilità.
THE CRUEL KNIVES
La serata è aperta da un giovanissimo gruppo, The Cruel Knives, di recente formazione e con solamente un EP all’attivo. La band inglese, guidata dagli ex Heaven’s Basement Sid Glover e Rob Ellershaw, irrompe sulle assi del Fabrique sulle note di “The World We Were Sold”, accolta in maniera grandiosa dalla venue; esteticamente una boy band o quasi, da subito il gruppo si mostra invece in grado di suonare un rock alternativo davvero valido e catchy, e la seguente “On A Fucking Leash”, dal mood blueseggiante, conferma l’impressione. Sorridente e vitale, Sid Glover intrattiene il pubblico degnamente, mentre i compagni danno il meglio di loro stessi con una prestazione decisamente positiva, suonando forte l’alternative rock dal forte appeal radiofonico della band. “Kill The Messenger”, “Squeeze”, ”Maybe I Should Know” ed “Itch” si susseguono in rapida sequenza, tutte opportunamente presentate dal cantante al pubblico che non le conosce ma che si sforza di seguire con palpabile interesse, prima che “The Promised Land” porti alla finale “Crawl”. Una prestazione positiva, per una band della quale verosimilmente sentiremo ancora parlare in ambito alternative.
Giunge presto l’ora degli headliner. Campane a morto accolgono sul palco Taylor Momsen e compagni, che irrompono tra le strilla di gioia delle fan eseguendo “Follow Me Down”, doppiata senza pause da “Since You’re Gone”, che scatena il delirio di fronte alla band. Taylor, che per le prime canzoni, come d’abitudine, terrà i capelli fissi davanti alla faccia fino alla fine del tempo concesso ai fotografi sotto il palco, annuncia il brano seguente, del quale uscirà a giorni un videoclip: ovviamente si tratta di “Oh My God”, accolta con grandi strilli dal parterre. “Hangman”, ossessiva, oscura e rallentata notevolmente nella sua parte centrale, anticipa uno dei più grandi successi del gruppo, quella “Make Me Wanna Die” che aprì la strada del successo all’ex Gossip Girl e compagni, eseguita in una versione più veloce e quasi punk. È tempo della catchy “My Medicine”, che la Momsen canta in tono cantilenante e quasi rituale. Ottimo il suono per questa data meneghina, con la band che accompagna la frontgirl in maniera ottimale strumentalmente parlando; ma visivamente, Ben, Mark e Jamie sembrano un poco troppo spenti, quasi anonimi, costantemente immobili, con il solo batterista, ogni giorno che Dio manda in terra sempre più simile a Bray Wyatt, che ogni tanto mostra segni di vita; la Momsen dal canto suo sembra posseduta, magra come un chiodo si aggira per il palco come una folle e passa interminabili momenti assente appesa all’asta del microfono guardando il vuoto, come in trance. Ma questo, unito alla sua particolarissima voce, non fa che aumentarne il carisma nei confronti del pubblico, che caldo e fremente accompagna ogni brano con grida e cori. Una cosa decisamente fastidiosa va segnalata, ovvero le luci che si spengono sullo stage tra un brano e l’altro, quasi la band non sappia come gestire il tempo quando non suona. “Prisoner” anticipa una violenta versione di “Sweet Things”, prima che una dolce e rilassata “Light Me Up” prenda il sopravvento facendo dimenare tutto il pubblico. Un gran coro all’indirizzo della cantante introduce la title track dell’ultimo “Who You Selling For”, seguita dalla ritmatissima “Living In The Storm”, che scatena un leggero mosh sotto il palco, per passare poi all’intensa e struggente “Just Tonight”. Ci avviciniamo a grandi passi al finale con l’accoppiata “Heaven Knows” e “Going To Hell” accolta da un gran boato dalla folla. “Take Me Down”, con Taylor alla chitarra, porta alla pausa; un solo brano per l’encore, “Fucked Up World”, che incorpora un assolo di batteria da parte di Jamie Perkins, durante il quale la cantante finalmente sorride al pubblico, cosa che per tutta la durata dello show non aveva fatto. Le solite foto di rito dalla pedana della batteria chiudono il concerto, con le giovanissime fan impazzite di gioia che lasciano il Fabrique cantando sorridenti, e questo, a conti fatti è ciò che conta.