Report a cura di Giovanni Mascherpa
Quindici anni. Questo l’importante traguardo raggiunto dai The Saddest Landscape nel 2017. Un anniversario che la formazione statunitense, tra le leader underground del movimento screamo, ha voluto celebrare con un piccolo tour europeo, poco più di una settimana per andare a trovare amici vecchi e nuovi dall’altra parte dell’Atlantico. Il genere frequentato vive oggi di molti richiami in contesti hardcore e metal, ma non è che chi vi si dedica anima e corpo da tempo immemore possa vantare per tale motivo un seguito oceanico. Le venue ospitanti il gruppo sono di dimensioni contenute, come accade a Milano, dove è il Ligera di Via Padova a ospitare la serata. Interessante la combinazione di band in programma: difatti, ad accompagnare in questo giro ‘mordi-e-fuggi’ fra Germania, Polonia, Austria, Francia, Italia e Belgio, ci sono gli inglesi Svalbard, sperimentatori di incroci irrequieti fra sludge, post-hardcore, alternative, grind e shoegaze, una di quelle entità che allo screamo vecchia maniera deve una fetta non piccola del suo corredo d’ispirazioni. La sala, abbastanza vuota quando cominciano a suonare i milanesi Bordo, di spalla solo per la data meneghina, andrà riempiendosi gradatamente, fino ad approdare a una numerosità dignitosa per gli headliner. Sull’act di apertura, purtroppo, non abbiamo granché di positivo da dire. Si sente che c’è ancora molto da lavorare e limare, nell’indie rock di competenza i ragazzi debbono ancora trovare la loro strada e affinare la composizione, oltre che il modo di stare sul palco. Già per loro natura un po’ fuori contesto rispetto agli ospiti stranieri, i giovani musicisti denotano poco tiro e dispersività, non aiutati da un comparto vocale a due voci drammaticamente debole e reso banale dal cantato in italiano. Comunque i Bordo avranno tempo per rifarsi e anche una data zoppicante come quella del Ligera potrà aiutarli a crescere.
SVALBARD
Puntuali su un programma che prevede di iniziare presto e di non finire alle ore piccole, gli Svalbard si presentano con una line-up riveduta e corretta rispetto a quella ufficiale. Impossibilitata ad andare in tour, non è della partita la cantante/chitarrista Serena Cherry. Al suo posto abbiamo il chitarrista dei Group Of Man, Mark Scurr, mentre alla voce è presente Nicolas dei The Tidal Sleep. Entrambi amici della band, si rivelano due innesti assolutamente all’altezza, ben integrati con gli altri membri. Il risicato tempo a disposizione – mezz’ora – non è un problema per una compagine che sa condensare idee poliedriche e urgenza espressiva in pochi minuti, intersecando ansia, fragilità e rabbia spumeggiante in un dedalo di ritmi frenetici e finemente scomposti. I tempi grind sono quello che ci vuole per dare adrenalina a una platea dall’età media piuttosto ridotta, che si mostra vivamente interessata al materiale proposto nonostante il coefficiente metal molto marcato, nettamente superiore agli headliner. Convince tutto degli Svalbard, dal dualismo corrosione/diluizione delle due chitarre – una violentata fra crust, d-beat, sludge, l’altra protesa a tremolanti note di sapore shoegaze – al rincorrersi delle voci, con il grido ferino di Nicolas intervallato, oppure raddoppiato, dallo sgolamento impulsivo del chitarrista Liam Phelan. Atmosfera, imprevedibilità, voglia di stupire rimanendo coi piedi per terra e una purezza d’intenti genuinamente hardcore conquistano ineluttabilmente i presenti. Ottima prova, i riscontri che gli Svalbard si stanno guadagnando in giro e le date di supporto a nomi di rilievo, già avvenute oppure programmate a breve, sono assolutamente meritati.
THE SADDEST LANDSCAPE
Andy Maddox afferra il microfono prima di iniziare a suonare e arringa il pubblico, già bello su di giri e pronto a far nascere qualche mischia per scatenare l’animosità in corpo. Sono tutti molto carichi, band e ragazzi nelle prime file, ci vuole veramente poco perché si inizino a subire i primi spintoni e tentativi di crowdsurfing da parte dei più scalmanati. Il quartetto sente l’evento, in senso buono s’intende; ha una voglia matta di rendere la serata memorabile, non di eseguire semplicemente le proprie canzoni, salutare e andarsene. E se il frontman è il soggetto più sconvolto – ondeggia pericolosamente, fa barcollare il microfono avventandocisi contro, cerca il contatto fisico con chi ha davanti – gli altri non stanno di certo fermi a capo chino. L’instabilità è il tratto comune ai movimenti degli strumentisti e alla musica, un condensato di sentimenti tristi che cercano di salire scomposti, e vengono rigettati indietro per quanto possibile da invettive furibonde, condotte fra screpolature e rasserenamenti. A volte impeto e pace viaggiano su binari paralleli, mentre la batteria avvampa di ardore, in altri si accordano per aprirsi a panorami estatici vagamente in odore di post-rock. In scaletta c’è un po’ di tutto, dalle prime pubblicazioni al recente “Darkness Forgives” del 2015, e le reazioni all’annuncio dei pezzi non sono mai tiepide, il grosso di chi è presente ha buona conoscenza della discografia dei The Saddest Landscape e non si tira indietro nel dimostrarlo, cantando i testi e sgolandosi nei refrain. Dal vivo, il piglio è assieme più grintoso e drammatico che su disco, la sfrontatezza punk viene comunque bilanciata da un pizzico d’introversione, anche se appena questa affiora, è un attimo prima che venga spazzata via da uno stacco terremotante e una pennellata chitarristica dai colori accesi. Maddox fende il locale in tutta la sua lunghezza per portare un ultimo, decisivo attacco ai nostri cuori, e salutarci grondando sudore, dopo aver spremuto tutto il possibile da se stesso. Con risultati veramente notevoli. Quando si dice un anniversario ben celebrato.