A cura di Marco Gallarati e Maurizio “MoRRiZz” Borghi
The Unholy Alliance, parte seconda: dopo il passaggio con Slipknot ed Hatebreed, risalente ormai a ben due anni fa, i metalgods Slayer tornano al Mazdapalace di Milano per (ri)mettere a ferro e fuoco il capoluogo lombardo, questa volta supportati da un più cospicuo plotone di pard che, sebbene forse sia di richiamo leggermente inferiore alla precedente calata, certo sa bene il fatto suo: un opener da noi semi-sconosciuto, Thine Eyes Bleed, una band di nomea ormai consolidata e da poco fuori con un nuovo lavoro, Lamb Of God, e due entità europee di gran successo e affermate a livello internazionale, Children Of Bodom ed In Flames, hanno contornato più che degnamente la performance di Tom Araya e soci, svoltasi in una venue decisamente piena e surriscaldata! Stranamente puntuale nel suo evolversi, si suppone perciò l’evento abbia soddisfatto tutti i presenti, suscitando solo qualche momento di perplessità durante gli show di Lamb Of God e Children Of Bodom, quando tutto l’impianto tecnico ha avuto bruschi cedimenti. Ma andiamo con ordine e torniamo al tardo pomeriggio, quando, con il palazzetto in fase di rapido riempimento, i canadesi Thine Eyes Bleed hanno aperto le ostilità…
THINE EYES BLEED
Uhm…il bassista della band si chiama Johnny Araya…e i Thine Eyes Bleed fanno da opener della serata agli Slayer: impossibile non supporre che un minimo di ‘buona parola’ il fratellone Tom ce l’abbia messa, affinchè la formazione di Johnny potesse avere la ghiotta opportunità di mostrare il proprio valore di fronte ad arene gremite. Ma non diamo troppo peso – proprio noi italiani poi! – a questo tipo di operazioni e concentriamoci sulla performance dei cinque: il gruppo si presenta sul palco con attitudine moderna e fisica, quasi fossero un incrocio tra Hatebreed e Lamb Of God, ovviamente con minor carisma, minor presa sonora e minor potenza. La loro musica, però, è basata essenzialmente su un thrash vecchio stile, a metà strada tra le formazioni della Bay Area e qualche accelerazione più nichilista di stampo tedesco. I venticinque minuti a disposizione dei Thine Eyes Bleed vengono utilizzati nel migliore dei modi, permettendo al combo di lasciare una buona impressione, sebbene, si sa, del loro nome a fine serata si avrà solo un flebile ricordo.
LAMB OF GOD
I Lamb Of God sono affamati, e lo dimostrano con un impatto devastante saltando sul palco dell’Unholy Alliance. Non è un mistero che negli US il loro posto in line-up sia decisamente più in alto, mentre qui in Europa il gruppo si esibisce subito dopo gli esordienti di Araya Jr. E’ lampante come Randy Blythe sia la componente più animalesca del gruppo: se i compagni di squadra, tecnicamente ineccepibili, si limitano a un headbangin’ variegato rimanendo quasi immobili, il frontman si danna l’anima per saltare e contorcersi in ogni lato del palco, vomitando bestialmente le sue growl al limite dell’umano. Purtroppo i suoni sono quello che sono e, come sempre avviene, le prime band sono penalizzate. Relegato in secondo piano, in questo caso, il fenomenale batterista Chris Adler: a poco è valsa la millimetrica precisione con cui il drummer ha montato il suo drum kit per quasi due ore, le sue magie su piatti chinas e campane sono rimaste quasi inudibili. Vista la brevità del set il gruppo si affida ai suoi assi migliori, come “Redneck”, “Now You’ve Got Something To Die For”, “Ruin” e “Walk With Me In Hell”. Sulla tre quarti però, la scaletta viene interrotta da una brusca interruzione di corrente, il cui ripristino accorcia di molto il già esiguo tempo a disposizione. Il gruppo di Richmond si scusa e ringrazia il pubblico davvero caloroso, ma l’amaro resta nella bocca di tutti. Sfortunati.
CHILDREN OF BODOM
Forti di una fedele e combattiva schiera di fan appassionati, i Children Of Bodom si ripresentano in Italia dopo l’ormai lontana data di inizio 2006. La folla li attende trepidante e, non appena viene scoperto il drappo nero con il nome del gruppo e con la mano del Reaper, ecco che un boato preannuncia l’imminente venuta dei Bambini finlandesi: l’intro è in stile ‘presentazione grande evento’, con una voce impostata ad annunciare ‘ladies & gentlemen, Children Of Bodom!’, precedendo di pochissimo la sprezzante “Silent Night, Bodom Night”, immancabile opener della setlist di Alexi Laiho e compari. Il quintetto si dimostra in discreta forma, molto mobile – almeno i tre membri che possono portarsi appresso gli strumenti – e carico il giusto. I suoni sono accettabili, sebbene le solite fastidiose tastiere di Janne Warman siano, in fase d’assolo, fin troppo predominanti e ‘plasticose’. Laiho non è mai fenomenale al microfono e neanche in questa occasione stupisce per bravura, però i ragazzi ci danno dentro e, tutto sommato, tirano fuori una prestazione più che sufficiente. La scaletta è ben congegnata, con un paio di estratti dall’ultimo “Are You Dead Yet?” e poi con tracce sparse delle loro precedenti release (esclusa però “Something Wild”), fra le quali segnaliamo “Sixpounder”, “Needled 24/7”, “Hate Me!” e un’ottima “Angels Don’t Kill”. Anche i finnici, come i Lamb Of God, hanno avuto la spiacevole sfortuna di vedersi collassare la corrente di punto in bianco in piena esecuzione di brano, ma, tralasciando questo inconveniente, lo show non è stato malvagio!
IN FLAMES
Ormai di casa, quando mettono piede dalle nostre parti, gli In Flames sono attesi da una probabile riconferma del buon show tenuto lo scorso aprile in quel del Rolling Stone. Quello che però molti non si aspettavano – e men che meno chi scrive – è stata la magniloquente prova di forza e grandeur visiva che la band scandinava ha messo in mostra al Mazdapalace: la cinquantina di minuti a disposizione del gruppo è stata usata in maniera perfetta e possiamo tranquillamente dire che da anni gli In Flames non si esibivano con tale vigore, contagiante entusiasmo, perfezione di suoni e una scaletta finalmente sorprendente! Anche Anders Fridèn, a furia di cantare in giro per il mondo, è ora diventato un frontman trascinante e capace, prendendosi la scena ma lasciando, come al solito, gli altri ragazzi liberi di scorrazzare per il palco. Fin dalla classica apertura di “Pinball Map” – introdotta però da un geniale prologo, impostato sulla sigla del telefilm-cult “Supercar” e con luci rosse a muoversi in orizzontale, ricordanti la presenza del computer parlante KITT – gli svedesi sono parsi in forma smagliante, attivi e grintosi più che mai. Un impianto luci ben cangiante, la scelta di usare pochissimo ghiaccio secco e quella di dare massima visibilità ai musicisti, hanno reso piacevole l’osservazione dello show, certo incentrato su una setlist ottimale: “Leeches”, “Behind Space”, “Trigger”, una versione spettacolare di “Cloud Connected”, “The Quiet Place”, “Only For The Weak”, “Take This Life”…tutti pezzi eseguiti alla grande e con trasporto, giusto per testare la reazione del pubblico, spesso saltellante all’unisono e applaudente oltre misura. Toccante l’esecuzione di “Come Clarity”, cantata a squarciagola da molti dei presenti, mentre davvero gradito è stato il rispolvero di “Resin”, un bellissimo brano tratto da “Colony”. E subito dopo ciò, la sorpresona della serata: invece di riproporre, da “The Jester Race”, la solita “Moonshield”, i nostri hanno tirato fuori dal baule in soffitta la micidiale “Graveland”, arrembante scheggia impazzita di death melodico, quello originale! Erano anni che agli In Flames si rimproverava di non piazzare qualche chicca del passato accanto ai brani nuovi: era pure ora che ci ascoltassero! Poteva chiudere le danze solo la magia di “My Sweet Shadow”, posta a termine di un ottimo concerto, sottolineato da scroscianti applausi che sembravano proprio non voler finire…e che sono certo stati quelli più forti della serata!
SLAYER
Quando la temperatura è a livello di girone infernale e il Mazda Palace è umido e sudato pure sul soffitto, è tempo di assistere alla performance degli attesissimi Slayer. Il pubblico è in allerta alla scoperta di due file di Marshall a mezz’aria, poste ai lati del palco, che compongono due enormi croci rovesciate. Più che un live set, il concerto dei quattro Dei del thrash è una vera e propria celebrazione, dove centinaia e centinaia di adepti possono partecipare, portandone di nuovi. Inossidabili, gli Slayer-fan dimostrano di non chiedere nulla di più che i classici di sempre: la scaletta infatti, sintesi di anni di onorato servizio nel campo dell’estremo, è intoccabile e quasi insostituibile. Una minoranza, comunque poco rilevante, si lamenta del “solito” show degli Slayer, ma basta guardare la presa che il gruppo, pesantemente segnato dall’età, riesce ancora ad avere sull’audience per godere appieno dello spettacolo offerto, e lasciarsi trascinare ancora una volta in un headbanging sfrenato. Se King è sempre più tatuato e palestrato, il suo compagno Hanneman, seppur abbia ancora una fluente chioma bionda, risulta davvero appesantito e sfoggia la solita divisa: sotto la jersey nera da football i pantaloni mimetici e addirittura dei parastinchi neri. Araya è barbuto ma sorridente, e la sua voce è in stato di grazia, mentre il rinsecchito Lombardo è davvero invisibile, tanto è sommerso dalla nube perenne di ghiaccio secco che lo copre per quasi tutto il set. Come anticipato, il tempo fa il suo corso e le pause tra una canzone e l’altra sono obbligatorie e sempre più lunghe, ma è da riconoscere che sono contrapposte a un’intensità esecutiva che ha davvero pochi rivali. “South Of Heaven”, “Die By The Sword”, “Mandatory Suicide” e gli altri classici sono inframezzati da due sole tracce prese dal recente “Christ Illusion”: il singolo prossimo alla pubblicazione “Eyes Of The Insane” e la anthemica “Cult”, che fa esplodere i presenti nel coro “I made my choice, six six six!”; non trova spazio invece la moderna “Jihad”. Dopo la solita pausa, il trittico composto da “Raining Blood”, “Postmortem” e “Angel Of Death” mette a ferro e fuoco l’audience stremata e senza ossigeno. Come non inginocchiarsi davanti a tanta potenza?