27/11/2015 - THREESTEPSTOTHEOCEAN + GOODBYE, KINGS + WINTER DUST @ Lo-Fi - Milano

Pubblicato il 10/12/2015 da

Report a cura di Giovanni Mascherpa

Appuntamento ciclico al Lo-Fi, la ‘Post-rock evening’ va in scena in una serata tardo novembrina sfoggiando una line-up completamente tricolore e di ampie vedute. A capitanarla ci pensano i milanesi threestepstotheocean, autori quest’anno del terzo album “Migration Light”, piccolo gioiello di post-metal progressivo strumentale che ha ulteriormente consolidato il quartetto tra i migliori esponenti italiani di questi suoni. Assieme a loro, vanno in scena degli habitué del club in zona Rogoredo, ovvero i Goodbye, Kings, visti all’opera nella medesima location in estate assieme a Squadra Omega e Sunpocrisy. In apertura, un collettivo molto giovane e già sufficientemente preparato per non sfigurare fuori dalla propria sala prove, i padovani Winter Dust, che come i threestepstotheocean hanno sfornato nuovo materiale nella corrente annata solare, il secondo full-length “Thresholds”, edito a settembre. Vista l’ottima affluenza nella data dei Mono assieme a The Ocean e Sòlstafir tenutasi al Bloom a fine ottobre, speravamo potesse esserci una discreta affluenza per sonorità della medesima famiglia come queste, pur facendo la tara a una minore rinomanza dei nomi in campo. Per fortuna, nonostante le abitudini milanesi portino a un’uscita di casa ad ora piuttosto tarda, già in apertura qualcuno gironzola per il locale in attesa che si inizi a suonare. In corrispondenza dei Goodbye, Kings, il numero di presenze raggiungerà grosso modo quello che poi avremo anche per gli headliner, stimabile in un centinaio di unità: dato lusinghiero vista la veste underground dell’evento, a cui ha sicuramente contribuito anche il costo molto contenuto del biglietto (5 euro). Andiamo quindi a raccontarvi il più dettagliatamente possibile quanto è accaduto, potendovi anticipare come sia dal lato artistico che da quello di partecipazione concreta dell’audience si sia trattato indubbiamente di un pieno successo.

 

threestepstotheocean - locandina concerto Lo-Fi - 2015

WINTER DUST

‘Post-rock evening’, prima parte e prima interpretazione di un sottogenere assai di moda negli ultimi anni e che grazie all’entrata in circolo massiccia nel circuito metal attrae oramai un ventaglio di ascoltatori di difficile catalogazione. I Winter Dust si pongono nel mezzo fra il cosiddetto post-metal e il post-rock propriamente detto, offrendo in modo diremmo salomonico caratteristiche di entrambi i generi, secondo un ventaglio di proposizioni musicali mature e avvincenti. Del metal, i ragazzi veneti prendono muscolarità ritmica e urgenza espressiva, nella rabbia dei sentieri ritmici e negli sfregi di alcuni riff esce anche un retaggio hardcore/punk, ancora più evidente nei rari interventi vocali di urla strozzate, un po’ alla Cult Of Luna. Nel desiderio di non perdersi per lunghi minuti in arpeggi languidi e sognanti abbiamo la conferma che ai Winter Dust piacciano assai le cadenze ampie e vellutate, ma che da esse non intendano farsi condizionare: gli arpeggi sognanti e le melodie pastellate ci sono in abbondanza, però tendono a essere catturate in tempi ragionevoli dalla ragnatela delle chitarre ritmiche e ad assumere un compito di leggera rappacificazione dei momenti più rabbiosi, non a estendere all’infinito stati di artificiosa grazia. L’ambivalenza dei sentimenti veicolati nella musica si fa strada anche nella tenuta del palco, visto che i musicisti sembrano quasi un po’ indecisi se lasciarsi andare del tutto all’istintività, oppure restare impassibili e concentrati su quanto stanno suonando. I buoni equilibri raggiunti in console non fanno sfigurare nemmeno le accorte modulazioni di synth e nel corso dei quaranta minuti di set, a parte alcune insistite ripetizioni armoniche di sapore shoegaze, alla lunga un po’ assopenti, abbiamo l’impressione di avere di fronte un buon gruppo, che potrà diventare ottimo qualora dovesse elevare il coefficiente di audacia e lanciarsi verso sperimentazioni che lo distacchi dai canovacci di settore. Compito alla portata dei Winter Dust.

GOODBYE, KINGS

Concerto molto atteso questo per il combo più leggero del lotto, in fase avanzata di scrittura delle musiche per il prossimo album previsto per la primavera 2016. Stasera è prevista l’esecuzione di due inediti e tutto sembra essere pronto per dare un saggio di quello che sarà inciso l’anno prossimo. Si capisce subito che, a differenza dell’ultima occasione in cui li abbiamo visti all’opera, ci sarà un po’ da soffrire. Uno dei due chitarristi, quello dal suono più duro e che funge un po’ da guida per tutti gli altri strumenti, nei primi minuti lotta con le luci posizionate dritte negli occhi, situazione scomoda che gli limita il dialogo coi compagni e non permette di suonare con la dovuta scioltezza. Nonostante questo evidente disagio, l’introduttiva (e nuovissima) “How Do Dandelions Die” mette in rilievo le doti di tenui poeti del pentagramma già ammirate in passato: synth, piano, effetti punteggiano con affabile timidezza fiumi di placide chitarre, strumento addolcito nell’esecuzione fino a risultare un matassa setosa in languido scorrimento nei nostri padiglioni auricolari. Il drumming quasi jazzato a sua volta interiorizza qualsiasi irrequietezza, la progressione verso una liberatoria deflagrazione neuronale avviene con calma lentezza, secondo una crescita d’intensità percettibile solo quando si è giunti al climax conclusivo. La cover di “A Warm Place” dei Nine Inch Nails è un piccolo vezzo forse non apprezzato appieno da parte del pubblico, a causa di una lacunosa conoscenza del pezzo e dell’interpretazione decostruttiva da parte della band, brava comunque nel non rivedere un pezzo altrui in maniera sussiegosa e calligrafica. L’esibizione prende vero slancio sui due estratti di “Au Cabaret Vert”, “Ototeman” e “A Crack Of Light Will Destroy This Comedy”, suonate con una disinvoltura ancora da trovare sul materiale di più recente creazione. La seconda soprattutto ha una chiusura da brividi, con tutti i membri della band che uno per volta lasciano gli strumenti e si dedicano solamente alle percussioni, in un finale potentissimo che sembra donare una vitalità iraconda perfino alle rarefazioni gentili che rimangono, in ogni caso, la componente principale nel suono dei Goodbye, Kings. Quello che doveva essere il piatto forte, ovvero l’altro inedito “The Bird Whose Wings Made The Wind”, in teoria aperto da una struggente chitarra acustica, viene appunto troncato di questa introduzione: il suono dello strumento non soddisfa, non c’è tempo per dare una regolazione adeguata e così, dolorosamente, si decide di fare a meno dell’acustica e di proseguire soltanto con la parte che non ne prevede l’utilizzo. La qualità della musica riesce per fortuna a non alienare le simpatie di una platea che, pur conscia di non aver ammirato i Goodbye, Kings nel loro formato migliore, ha saputo coglierne lo spessore artistico, emerso nonostante tutto nel tempo a disposizione.

THREE STEPS TO THE OCEAN

Una cascata di fumo inonda il Lo-Fi appena i threestepstotheocean mettono piede sul palco: una nuvola artificiale che non rimane in mezzo a chi sta suonando, scende su di noi e ci avvolge in una spessa nebbia, rendendo i contorni di chi abbiamo davanti quasi indistinti. Il suono invece ci abbatte con una compattezza mostruosa, primo segnale della cura certosina infusa dai quattro per far sì che lo spettacolo sia pienamente all’altezza dei dischi. Se le due band precedenti stavano un po’ sulle loro, muovendosi quasi in punta di piedi e denotando grande pacatezza, i threestepstotheocean ci mettono un fervore aggressivo da vero ensemble metal. Bando quindi alle cogitabonde disillusioni del post-rock e spazio a ruvidezze di stratificato metallo moderno, per nulla addolcito dall’esplicarsi in sola modalità strumentale per l’intero show. Basta e avanza quanto hanno da offrire chitarra, basso, batteria e tastiere, coese a formare una palla di titanio duttile e malleabile, aperta alle contaminazioni e implacabile nello scuotere e piallare i presenti. Forse solo una minoranza di costoro si sarebbe aspettata una prestazione così viscerale, assassina, vissuta con trasporto dagli strumentisti e condensante uno spettro di influenze multiforme e propenso sia alla fluidità e all’impatto nudo e crudo, sia all’espansione e metamorfosi di scuola progressiva. Il tutto passato sotto la lente distorsiva di certo sludge/doom di ultima generazione, oltre che di una pesantezza e una densità che potrebbe quasi far pensare alle parti più atmosferiche fiorite nel death evoluto di scuola Ulcerate. Alle derive psichedeliche e agli scioglimenti in estasi di buona parte dei colleghi dediti a movimenti interamente strumentali, i threestepstotheocean preferiscono una viscosità aggressiva che non evapora nemmeno nelle necessarie dilatazioni a scopo ‘paesaggistico’, quei lunghi momenti in cui si cerca di far viaggiare la mente di chi ascolta e fargli percepire appieno il contesto ambientale richiamato dal gruppo. Le tastiere in questo caso conducono le danze in totale sicurezza, facendo echeggiare un qualcosa di alieno all’interno di una proposta che viaggia molto più nel concreto della maggioranza della concorrenza, non rinunciando a nulla in tema di complessità, ricercatezza, profondità. Anche il lato scenico, in mancanza di studiati accorgimenti estetici, viene appagato dalla simbiosi comportamentale dei membri del progetto, percettibilmente un tutt’uno con quanto stanno facendo scaturire dai rispettivi strumenti. Così, poco ci accorgiamo di quanto tempo stia passando e che prescindendo da pause prolungate e onanismi si arrivi in fondo stanchi, ma nient’affatto annoiati, al termine di un’ora di concerto intensa e priva di sbavature. Quando si dice che il rapporto costi/benefici pende nettamente a favore dei secondi, ecco, questo è il caso di questa “Post-rock evening”!

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