Introduzione di Giacomo Slongo
Report di Giacomo Slongo e Maurizio “Morrizz” Borghi
Foto di Moira Carola
Parlare della serata che ha visto succedersi Thy Art Is Murder, Whitechapel, Fit for an Autopsy e Spite sul palco dell’Alcatraz di Milano significa necessariamente affrontare due questioni: la prima, ovviamente, è quella della cacciata a sorpresa del frontman CJ McMahon dai ranghi del gruppo death-core australiano, avvenuta a ridosso della pubblicazione del nuovo “Godlike” e di questa imponente tournée europea; la seconda, meno spinosa, si lega all’evidente rinascita di un movimento che fino a qualche anno fa sembrava prossimo alla scomparsa, e che oggi – anche nelle sue connotazioni più adulte – ha saputo tornare prepotentemente alla ribalta, con il locale di Via Valtellina (settato comunque in versione B) preso d’assalto fin dall’apertura porte da una platea vasta e variegata, tra spettatori figli della generazione Z e fan ‘attempati’ dal look meno trendy e sgargiante (varie maglie di band come Obituary e Nile in sala).
Tanta la carne al fuoco, sia dal punto di vista mediatico che da quello prettamente artistico, al punto che non basterebbe lo spazio concesso da un live report per sviscerare interamente la faccenda, ma qualche considerazione – in primis sul licenziamento del frontman – la vogliamo comunque fare, perché se è vero che la scelta di ri-registrare le voci per la versione digitale dell’album continua a suonarci discutibile, nulla possiamo dire (senza anticiparvi troppo) sulle qualità del sostituto Tyler Miller (Aversions Crown), con il passato non proprio lineare dell’ex beniamino, tra addii e ripensamenti sul restare o meno a bordo del progetto, a rendere, forse, un po’ meno sorprendente la notizia dello scorso 22 settembre, trattandosi di un personaggio quantomeno controverso (cosa poi avvalorata dalle recenti e poco lungimiranti uscite sui social). Ma bando alle chiacchiere da Novella 2000 del metal, e passiamo a quello che conta davvero…
Primi a calcare il palco sono gli SPITE, formazione proveniente dalla Bay Area salita alla ribalta nel 2017 grazie alla firma con Stay Sick, l’etichetta di Chris Fronzak degli Attila. Dopo aver pubblicato un secondo disco appoggiandosi a Rise Records, eccoli proseguire spediti nei ranghi del death-core più ignorante e contaminato, con un riffing binario e una sovrabbondanza di breakdown che diverranno ampiamente contrastanti con le altre band della serata. Dopo aver recentemente perso il chitarrista originale Lucas Garrigues e il batterista Josh “Baby J” Miller (ora full time nei Darko), gli Spite sono ora la band dei fratelli Darius (voce) ed Alex (chitarra) Tehrani, che insieme al bassista Ben Bamford e ad un nuovo batterista (al momento non identificato, ma coi baffi e il mullet di Baby J) creano da subito scompiglio grazie alla partecipazione del pubblico già numeroso e ben disposto, che tempo un paio di pezzi si divertirà nell’ormai celebre pratica del ‘vogare’ in mezzo al pit. Un frontman in costante ‘overacting’ e delle palesi influenze nu metal fanno alzare il sopracciglio a qualcuno tra i presenti, ma tutto sommato gli Spite convincono, soprattutto grazie ad un batterista particolarmente scoppiettante e a quella voglia di imporsi che ne certifica, in questo loro periodo delicato, la fame. Ci aspettavamo l’esecuzione della nuovissima “Thank You, Again” insieme a Phil Bozeman, ma sarà per un’altra volta. (Maurizio Borghi)
Avevamo salutato i FIT FOR AN AUTOPSY in gran forma poco più di un anno fa, headliner sul palco dello Slaughter Club di Paderno Dugnano, e li ritroviamo nelle medesime condizioni di salute oggi, complice un’attività live incessante che, fra Vecchio e Nuovo Continente, li ha ormai trasformati in delle macchine incapaci di sbagliare un colpo. Per forza di cose, il set di stasera è ridotto rispetto a quelli che sono gli standard recenti, ma il quintetto del New Jersey (come da prassi, il chitarrista/leader Will Putney non ha seguito in tour i compagni perché troppo occupato con la sua attività di produttore nei Graphic Nature Audio) non si è certo risparmiato in termini di impegno e di grinta, massimizzando il tempo a disposizione per accontentare i fan di lunga data e folgorare chi, per un motivo o per un altro, non si era ancora immerso nel contenuto musicale dei vari “Oh What The Future Holds” e “The Sea of Tragic Beasts”. Quelli dei Nostri sono da sempre inni death-core per un mondo alla deriva; amari, apocalittici e per nulla inclini alle facilonerie del genere, e la doppietta “A Higher Level of Hate”/“Black Mammoth” posta in apertura ne esemplifica il lavoro di personalizzazione delle radici Whitechapel/Gojira in un assalto quadrato ma dinamico, brutale ma catchy che spazza via la parentesi degli opener dando ufficialmente il via alla carrellata di piatti forti del pacchetto. Ottima, come sempre, la performance di Joe Badolato al microfono e di Pat Sheridan e Tim Howley alle chitarre, mentre Josean Orta dietro le pelli si conferma il vero asso nella manica della band, svettando per il mix di incisività e fluidità di ogni pattern e spingendo ai suoi massimi lo show sia nei momenti più violenti e caustici (“Savages”), sia in quelli più solenni e atmosferici (la conclusiva “Far from Heaven”). Tanta sostanza, poche pose: anche stasera, i FFAA hanno portato a casa la pagnotta legittimando il loro ruolo di leader silenziosi e concreti della scena. (Giacomo Slongo)
Per ragioni quasi inutile da sottolineare, chi scrive era convinto che ai WHITECHAPEL sarebbe stato riservato uno slot da co-headliner o giù di lì, visto il peso specifico esercitato sul genere da un’opera seminale come “This Is Exile” o da un capitolo più recente come “The Valley”, spartiacque che nel 2019 ha saputo introdurre la melodia nell’universo musicale della band senza attirarsi le infamate e gli spergiuri dei talebani del metal. Invece, basta poco per accorgersi di come, soprattutto a livello di setting sul palco, Phil Bozeman e compagni non godano di un trattamento superiore rispetto a Fit for an Autopsy e Spite, con batteria posizionata a lato stage, impianto luci ridotto e suoni mai davvero potenti e definiti dall’inizio alla fine dello show (una quarantina di minuti). Insomma, non importa che i Nostri siano tra le più valide e longeve realtà del filone, senza il cui operato gli stessi headliner della serata, probabilmente, non esisterebbero neppure: l’intenzione del tour è evidentemente quella di dare massimo risalto ai Thy Art Is Murder, senza eccezioni, anche a costo di ‘penalizzare’ (le virgolette sono d’obbligo) dei veterani fatti e finiti. Appurata la questione, è bene dire che la formazione di Knoxville si sia comunque resa protagonista della solita, inattaccabile prova di forza e professionalità, dosando trasporto e mestiere come del resto comprensibile dopo quasi vent’anni di carriera e letteralmente migliaia di concerti alle spalle. Si parte con “I Will Find You”, unica occasione di saggiare la timbrica pulita del frontman, si pesca a più riprese dal suddetto “The Valley” e si finisce in modalità amarcord con le derive gore e apocalittiche di “End of Flesh”, “Prostatic Fluid Asphyxiation” e “This Is Exile”, con il pubblico via via sempre più coinvolto (nonostante i volumi smorzati e il palco in penombra) il sestetto che, dal canto suo, non sbaglia praticamente un colpo. Il growl di Bozeman – a causa di una condizione fisica non ottimale, come da lui stesso confermato – non è esattamente al top, ma il trentottenne si conferma un concentrato di carisma in grado di irretire la platea con un gesto e un paio di sguardi, mentre i suoi compagni – tra cui spicca il chitarrista Zach Householder, complice una bella longsleeve di “Vile” dei Cannibal Corpse – ci ricordano come e perché la musica dei Whitechapel possa da sempre contare su uno spessore e un dinamismo importanti, giocando con le modulazioni del guitar work e della sezione ritmica per orchestrare un assalto accattivante sia durante le parentesi più tecniche e frastagliate, sia in quelle più pesanti e dirette. Come detto, spiace per la resa un po’ povera del concerto, ma dal punto di vista puramente esecutivo, anche stasera, i sei americani hanno chiamato solo applausi. (Giacomo Slongo)
Freschi del decennale di “Hate” e – soprattutto – del dramma CJ McMahon, i THY ART IS MURDER sono pronti a spiegare il pieno potenziale di fuoco in una performance da headliner che mira a certificare la propria posizione all’interno della scena, anche dopo le esibizioni maiuscole di un pacchetto di band che si è dimostrato davvero forte. Curiosità e fermento rendono l’atmosfera bollente e l’aria frizzante, in un contesto in cui il pubblico ha risposto bene a livello di numeri, nonostante qualcuno manifesti il proprio dissenso indossando magliette con la scritta “Thy Art Is Woke, #Justice4CJ“. Fa piacere constatare come, in un’atmosfera anche un pochino tesa, i TAIM siano ancora abbastanza scemi da introdurre il proprio set con la sciocca dance dei Vengaboys, prima che l’imponente “Destroyer Of Dreams” cambi lo scenario ed accenda i riflettori sui protagonisti. L’imponente impianto luci sul retro viene finalmente acceso, Jesse Beahler siede per primo sulla batteria rialzata al centro del palco e la formazione prende posizione in maniera ordinata. Per ultimo arriva Tyler Miller, nuovo frontman che avrà le attenzioni di tutta la sala per l’intero set e che si presenta in atteggiamento da battaglia, composto e concentrato ma motivatissimo. Esteticamente, sembra un contractor uscito da Call of Duty, con cappello, guanti e giubbotto antiproiettile (!), andando saldamente a prendere in mano la situazione, comandando il pubblico ed incitando a più riprese wall of death e circle pit in diverse parti della sala. Inattaccabile anche la sua prova vocale, con un timbro abbastanza simile al suo predecessore e una professionalità estrema, che vede dosare perfettamente la performance senza mai calare durante l’ora abbondante di concerto. Presentando sé stesso a metà set, Miller sembra pure posato ed umile, qualità che unite ad un profilo privato di Instagram lo rendono con tutta probabilità un ottimo investimento per gli australiani. Ad un certo punto, tra le sirene di “Death Squad Anthem”, il groove di “Make America Hate Again” e l’impatto di “Blood Throne”, ci vien quasi da associare i TAIM alle performance spietate ma chirurgiche e ad alta produzione di formazioni affermate come i Lamb Of God, ed anche se i pyros non troveranno posto sul palco, la neve/schiuma nell’emozionante performance di “Bermuda” conferma ulteriormente le nostre impressioni. Una setlist priva di sbavature e concentrata sull’ottimo “Godlike” trova il culmine nelle tesissime “Keres” ed “Everything Unwanted”, ma è chiaro che ci sia ancora tempo per un paio di classici nell’encore, affidato alle storiche “Reign Of Darkness” e “Puppet Master”.
Ricapitolando: il death-core sta risorgendo in una nuova ondata, “Godlike” è uno degli album più maturi e massicci della discografia del gruppo e c’è un nuovo frontman che, subentrato in corsa ed in silenzio, ha spazzato via ogni dubbio esclusivamente coi fatti: è chiaro come ai Thy Art Is Murder non basti essere delle colonne portanti del movimento, vogliono esserne alla guida, e chi c’era questa sera ha testimoniato come ci siano tutte le carte in regola per un salto in avanti. (Maurizio Borghi)
SPITE
FIT FOR AN AUTOPSY
WHITECHAPEL
THY ART IS MURDER