Report di Enrico Ivaldi
Alla vigilia dei dieci anni di attività (che verranno celebrati con l’edizione 2024), il Tons Of Rock si presenta per la terza volta nella splendida location del parco di Ekeberg della capitale norvegese, dopo cinque edizioni tenutesi nella altrettanto suggestiva fortezza di Halden. Dei grandi festival rock e metal norvegesi , il Tons Of Rock è da sempre quello con l’appeal più mainstream, rappresentando di fatto il fratello (minore) dello Sweden Rock, con il quale condivide spesso parte della line-up.
Per chi ha avuto la fortuna di partecipare ad un festival nel nord Europa, la cosa che viene immediatamente all’occhio è l’estrema cura per i dettagli, un organizzazione impeccabile e un atmosfera generale sempre rilassata. Divisa su tre palchi (di cui uno al coperto), l’area su cui si svolge il festival diventa ogni anno un polo musicale e culturale, in cui oltre alla musica dal vivo troviamo lo studio radiofonico mobile di NRK (l’emittente radio televisiva nazionale), una trentina di stand per cibo e bevande per tutti i gusti, numerosi stand per tatuatori, negozi di dischi, eventi con degustazioni varie e persino un ufficio postale, per chi non vuole caricarsi le valigie di merchandise vari.
Con un aggiunta al biglietto base è anche possibile acquistare il pass VIP, che permette di accedere ad un area privata con servizi igienici ad hoc, tribune coperte e zone con aria condizionata. Tutti i servizi sono estremamente efficienti, da quelli igienici all’acqua potabile, utilizzabile tramite delle borracce gratuite distribuite dalle due farmacie mobili, che provvedono protezioni dal sole per le ore più calde e un servizio di primo soccorso.
Il Tons Of Rock è un’esperienza completa, che riesce quasi sempre a coinvolgere tutti i presenti, grazie anche alla estrema varietà di band presenti ogni anno. La caratteristica di un festival come questo è sempre stata infatti una grande eterogeneità in cui si va dal rock più classico passando dal punk fino al metal più estremo, in un contesto sempre coerente e sensato.
Di seguito la nostra cronaca di questi quattro giorni di musica.
MERCOLEDÌ 21 GIUGNO
Come da tradizione, l’apertura è affidata ai BLACK DEBBATH (praticamente la versione norvegese di Elio e le Storie Tese in versione stoner-doom). Noi arriviamo, tra una cosa e l’altra, nel primo pomeriggio sotto una pioggia torrenziale e giusto in tempo per vedere gli AT THE GATES che, complice anche il grigiore della giornata, regalano un concerto grandioso. La scaletta vede in apertura tre brani dagli ultimi due lavori che servono solo ad anticipare l’esecuzione in toto del capolavoro “Slaughter Of the Soul” con il pubblico che risponde in modo estatico. Come sempre la band è precisissima, i suoni sono ottimi e lo stesso Tomas Lindberg ci pare più in forma del solito. Sicuramente un ottimo inizio di giornata.
Nemmeno dieci minuti di pausa con la pioggia che ci dà finalmente tregua, ed è il tempo di spostarci al coperto sul Moonlight Stage per vedere una parte del set di CARPENTER BRUT, che con la sua synthwave pesante e dalle atmosfere retrò riesce ad intrattenere ogni tipo di spettatore. Il musicista francese è aiutato sul palco da Adrien Grousset (chitarra) e Florent Marcadet (batteria) degli Hacride, che aggiungono ulteriore pesantezza al sound. Da segnalare nella setlist l’ottima e divertente cover di “Maniac”, brano tratto dal film “Flasdance”, che riesce a scatenare addirittura una danza collettiva.
Dopo una manciata di brani, complice anche un timido sole, ci avviamo verso il palco principale, chiamato Scream Stage, per i GENERATION SEX, tribute band formata da Billy Idol e Tony James dei Generation X e Steve Jones e Paul Cook dei Sex Pistols. Con una scaletta che sciorina una dopo l’altra tutte le canzoni più famose dei due storici gruppi punk, da “Problems” a “Pretty Vacant”, passando per “King Rocker” fino a “God Save The Queen”, i quattro, nonostante gli anni riescono ancora a trasmettere l’urgenza e la sfacciataggine tipica del primo punk inglese, con una menzione speciale dovuta per Billy Idol, che corre e salta sul palco con un energia invidiabile. Azzeccata la chiusura con la cover di “My Way”, cantata da tutti i presenti.
Il tempo di dare un’occhiata ai numerosi stand, tra cui quello del negozio di dischi Neseblood, ovvero il successore dell’ Helvete di Øystein Aarseth, ed è momento per gli SKID ROW, che si presentano con il talento svedese Erik Grönwall alla voce. Il suono degli americani, a metà tra il glam e l’heavy metal, è preciso e coinvolgente e fa subito presa sul pubblico che si è ammassato sotto il Vampire Stage.
La tecnica della band è come sempre stellare e lo stesso Grönwall si conferma un ottimo frontman sia dal punto di vista vocale che di tenuta del palco, riuscendo persino nel difficile intento di reggere il confronto con Bach con gran parte del set che prende a piene mani dai primi due dischi, con “Slave To The Grind” il più rappresentato.
Quasi contemporaneamente, i MUNICIPAL WASTE raccolgono sorprendentemente un grande numero di persone sotto il tendone del Moonlight Stage e sparano sedici canzoni in quarantacinque minuti scarsi, il tutto all’insegna del loro thrash-core tiratissimo e pesantemente influenzato da band come Nuclear Assault o Evil Dead. Dave Witte alla batteria non sbaglia un colpo e carica di groove brani come “Mind Eraser”, “Beer Pressure” o “Unleash The Bastards”, per una setlist che prende da tutti loro lavori tralasciando solo il debut. Sotto il palco si scatena un pogo continuo, soprattutto tra i più giovani, la band si diverte tantissimo e accontenta i norvegesi che storicamente impazziscono per i suoni old-school. Quella dei thrasher americani è sicuramente il concerto più divertente della giornata, anche e soprattutto per il caldissimo responso dei presenti.
Sono quasi le otto di sera, le nuvole sono ormai un ricordo e si avvicina il momento di salire sul palco per i GUNS ‘N ROSES, che si presentano per questo tour con delle visual abbastanza scarne, tre maxischermi e delle grafiche in linea con l’immagine della band. Con il loro consueto ritardo di una ventina di minuti la band sale finalmente sul palco, attesa da una marea di gente che ha ormai riempito ogni singolo spazio disponibile. Dall’impianto escono le prime note di “It’s So Easy” che vengono coperte dall’enorme boato dei presenti, seguita da “Bad Obsession” e dalla cover di “Slither” dei Velvet Revolver. La band è abbastanza in forma, soprattuto Duff McKagan e Richard Fortus, forse il vero motore trainante dei Guns attuali, col suo lavoro di chitarra sempre perfetto e i suoi assoli di classe superiore.
Slash cambia chitarra ad ogni canzone facendo quello che sa fare meglio, mentre la nota dolente arriva da Axl Rose che, pur mettendoci energia ed impegno, va spesso in difficoltà coi cambi di registro, cosa questa che lo obbliga spesso a rimanere su una tonalità non proprio gradevole. La band rispolvera quasi tutto il suo catalogo, prendendosi il lusso di suonare persino brani da “Chinese Democracy” e “The Spaghetti Incident”, ma sono principalmente i classici ad accendere il pubblico. Da questo punto di vista non ne manca nessuno, da “Welcome To The Jungle” a “Rocket Queen”, passando per una lunghissima versione di “November Rain” con tanto di pianoforte a coda sul palco, fino ad arrivare a “You Could Be Mine” e “Sweet Child Of Mine”. Slash e soci regalano alla fine dei conti uno spettacolo nostalgico e godibile ma troppo lungo (con una scaletta di quasi tre ore!) dispersiva (troppe le cover suonate) e non più adatta alle capacità vocali di Axl Rose, spesso in difficoltà e che lascia cantare il pubblico per buona parte del tempo. Tra i momenti migliori della serata da notare comunque una bellissima “ Knocking On Heaven’s Door” e la spettacolare chiusura con “Paradise City” con tanto di fuochi d’artificio a calare il sipario su questa prima giornata di festival.
GIOVEDì 22 GIUGNO
Per questa seconda giornata di festival, in cui purtroppo mancheranno i NIGHWITSH (sostituti dai MADRUGADA) per problemi di salute di Floor Jansen; arriviamo verso le 15, utilizzando uno dei numerosi shuttle bus messi a disposizione dal servizio di trasporto pubblico, giusto in tempo per vedere una parte dell’esibizione degli HALESTORM sotto un sole caldo e un cielo senza nemmeno una nuvola, qualcosa di insperato viste le premesse del giorno prima. La band della Pennsylvania, grazie alla propria esperienza, regala un concerto energetico e non si fa spaventare dal suonare così presto, aiutata dal carisma di Lzzy Hale e dal suo alternative metal diretto e senza fronzoli, che piace soprattutto al pubblico più giovane.
Dei gruppi successivi in scaletta scegliamo di seguire i VOIVOD che suonano alla stessa ora degli AVATAR. L’invincibile band canadese sta vivendo una vera e propria seconda giovinezza grazie ad una line-up stabile, una serie di lavori di altissimo livello, e soprattutto con l’entrata di Dan ‘Chewy’ Mongrain come chitarrista, a sostituire il mai troppo compianto Piggy. È la prima volta da parecchi anni che Oslo vede i Voivod suonare in un contesto da festival, ma il risultato è sempre lo stesso: un gruppo che si diverte e fa divertire, con uno show diretto in cui sono le canzoni le protagoniste. Con il loro mix di attitudine punk, aggressività thrash metal e atmosfere aliene e dissonanti, Snake e soci usano la loro ora a disposizione prendendo a piene mani da quasi ogni disco, aprendo con “Killing Technology”, passando per “Macrosolution To Megaproblems”, senza dimenticare una sempre meravigliosa “Fix My Heart”, una “Rise” (direttamente dal periodo con Eric Forrest) assolutamente inaspettata, fino alle seminali “Thrashing Rage” e “Voivod” come sempre in chiusura. A dimostrazione del loro grandissimo stato di forma artistico è bene evidenziare come tutti i nuovi brani risultino perfettamente integrati in una scaletta che contiene veri e propri capolavori passati. Possiamo dire che quello dei Voivod si candida già come una delle esibizioni migliori del Tons Of Rock di quest’anno.
Abbiamo il tempo di assistere ai primi quindici minuti dei POWERWOLF che trasformano lo Scream Stage in una festa fatta di effetti pirotecnici, gag con pubblico e power metal di scuola teutonica fatto di brani epici e diretti, prima di tornare al palco coperto per i SOULFLY.
I brasiliani si presentano con una scenografia spartana fatta di teli mimetici e vanno subito al sodo aprendo con “Back To The Primitive” e “No Hope = No Fear”. Nonostante un Max Cavalera visibilmente appesantito e non proprio in perfetta forma, la performance è estremamente aggressiva e coinvolgente anche per chi non hai mai apprezzato troppo la sterzata nu-metal dell‘ex Sepultura.
Nota di merito va al ventenne Zyon Cavalera, figlio di Max che impara bene la lezione dallo zio Igor e, seppur non sempre perfetto, fa da traino principale per il groove dei Soulfly dal vivo. Immancabile la cover di “Refuse Resist” della band madre e “Jumpthefuckup”, con Max che obbliga tutti i presenti ad accovacciarsi per un salto collettivo all’attacco del brano che chiude un’esibizione onesta, tra gli applausi del pubblico norvegese che dimostra sempre estremo calore ed affetto verso il frontman brasiliano.
I CLUTCH sono da sempre una vera e propria band di culto in Norvegia (paese storicamente amante dei suoni stoner e bluesy), capace di fare sold-out praticamente sempre, e infatti il numero enorme di gente presente sotto il Vampire Stage non è che l’ennesima riconferma. Lo storico gruppo americano lo sa bene e confeziona un concerto praticamente perfetto per tecnica, coinvolgimento e groove, con uno stoner rock caldo e mai troppo pesante, che ben si adatta ad un una giornata di sole e temperature più mediterranee che nordiche. Un’ora abbondante in cui non mancano i brani storici del loro repertorio come “Profits Of Doom”, “Burning Beard”, “X-Ray Vision” e “The Wolfman Kindly Requests…” mentre il frontman Neil Fallon si diverte e fa divertire i compagni e il pubblico, rendendosi protagonista di lungo assolo con bottleneck durante “Electric Worry”. Assistere ad un concerto dei Clutch fa capire il perché i rocker del Maryland si siano guadagnati un seguito così fedele.
È un dato di fatto che non ci può essere un festival in terra norvegese senza i MAYHEM. Da anni a questa parte, almeno uno di questi ha visto la band black metal presente nella propria line-up. Dopo la combo Inferno Festival e Beyond The Gates nel 2022, quest’anno tocca al Tons Of Rock ospitare Hellhammer e soci, che mancavano dall’edizione del 2019.
Chi li ha visti recentemente sa bene cosa aspettarsi, un gruppo ormai stabile nella sua formazione che difficilmente delude. La scaletta è come da anni a questa parte divisa in tre parti, la prima focalizzata sul periodo post Euronymous, la seconda in cui i nostri suonano una selezione di brani da “De Mysteriis Dom Sathanas” e la terza che prende direttamente dal periodo “Deathcrush”. L’unico problema di un live dei Mayhem di oggi è sempre lo stesso: ogni qual volta attaccano brani come “Buried By Time And Dust” “Funeral Fog” o Freezing Moon” tutto il resto – per quanto a volte ottimo come nel caso di Daemon – viene spazzato via per atmosfera ed oscurità, con Attila vero e proprio maestro cerimoniere.
Da una band che gioca in casa ad un’altra che qua in Norvegia è quasi di casa, visti gli innumerevoli concerti suonati negli ultimi anni: i BEHEMOTH tornano infatti dopo tre anni sullo stesso palco, questa volta ad un ora più tarda e con un’ esibizione molto più coinvolgente. Pur in sede di festival Nergal e soci non rinunciano infatti al solito show pirotecnico fatto di fuoco e fiamme, che viene riproposto qua in una versione semplificata ma ugualmente efficace. Il presenti sono visibilmente esaltati, e la cornice del palco, con il sole che tramonta alle sue spalle, regala una cornice inedita ma ugualmente suggestiva. Che piacciano o meno, sulla bravura dal vivo del gruppo polacco c’è poco da discutere e grazie alla presenza scenica di Nergal e all’intensità di Inferno dietro le pelli, i quattro regalano una selezione dei loro brani migliori, da “Blow Your Trumpets Gabriel”, a “Chant For Eschaton 2000” passando per “Bartzabel” o la violentissima “Daimonos”. L’unica mancanza è quella di “O Father, O Satan O Son!”, che avrebbe potuto essere una chiusura perfetta.
Con la stanchezza che inizia a farsi sentire e la necessità di metter qualcosa sotto i denti, decidiamo di seguire i VOLBEAT seduti sulla parte laterale della collina, aiutati dai maxischermi. La band danese è da sempre un unicum nel panorama metal europeo che col suo mix di metal, rockabilly e alternative è sempre stata capace di riempire arene dalla Germania fino alla Scandinavia, senza mai raggiunger gli stessi livelli di popolarità nella parte più meridionale dell’ Europa.
La dimostrazione di questo successo non è nemmeno l’essere stati scelti come headliner, ma più che sia il fatto che, quando inizia il concerto ci troviamo di fronte allo stesso numero di spettatori della sera prima per i Guns ‘n Roses. Chi scrive non può considerarsi un fan dei danesi ma è innegabile la loro estrema bravura e la loro capacità di intrattenere continui siparietti, capaci di mantenere il contatto tra band e pubblico anche su un palco grosso ed impegnativo come quello del main stage di un festival europeo.
La musica dal canto sua fa il resto, mescolando la pesantezza del metal con un atteggiamento scanzonato e irriverente preso dal rockabilly e che rende brani come “Halleluiah Goat”, “The Devil Rages On” o “Shotgun Blues” dei veri e propri momenti di festa collettiva. Divertente e allo stesso tempo esplicativo come il frontman Michael Poulsen dichiari ai presenti che tra i suoi idoli di sempre ci siano Johnny Cash e gli Entombed, con tanto di accenno a “Ring Of Fire” prima di “Sad Man’s Tongue”. Le due ore abbondanti di show passano in fretta e possiamo dire senza problemi che, tra i primi due headliner di questo Tons of Rock, i Volbeat abbiamo decisamente sorpassato Axl Rose e compari. Decidiamo di tornare a piedi verso il centro di Oslo con una rilassante passeggiata tra i boschi della collina, con la luce della notte nordica e pensando alla giornata di domani, con quello che è forse il concerto più atteso di questa edizione.
VENERDÌ 23 GIUGNO
La prima band ad aprire la giornata del venerdì sono le WITCH CLUB SATAN, trio di Oslo che ha fatto parecchio parlare di sé negli ultimi mesi in terra natia. Le tre ragazze, con il loro black metal estremamente grezzo e le loro esibizioni teatrali e provocatorie sono addirittura state invitate come ospiti (insieme a Sylvaine) durante l’apertura della mostra sul black metal norvegese alla libreria nazionale e suoneranno anche al Roskilde Festival a luglio. Coperte dal tendone del Moonlight Stage in una giornata estremamente calda, le Witch Club Satan tirano fuori uno show di un’ora estremo e unico. Sebbene la proposta musicale non sia nulla di estremamente originale (un raw black metal a metà tra il suono classico norvegese e quello delle Gallhammer), la loro capacità di creare uno spettacolo allucinato ed estremamente curato nei tempistiche fa centro, ed infatti il responso delle numerose persone sotto al palco presenti è caldissimo. Tutto il concept Witch Club Satan ruota attorno a tematiche femministe ed occulte che portano la band a concludere i loro show quasi totalmente nude, coperte di sangue in un delirio satanico che ha il solo fine di esser il più disturbante possibile. E ci riesce in pieno.
Dai pentagrammi black metal delle Witch Club Satan si passa agli ‘heartagrammi’ dell’ex Him VILLE VALO: il finlandese si presenta sul palco principale con la sua band in un completo nero, sotto un sole caldissimo e un grande numero di persone ad attenderlo.
La presenza spettrale di Ville, estremamente magro, non agilissimo nei movimenti ma abbastanza in forma a livello vocale, crea un atmosfera unica e intima, complice anche una scaletta furba in cui vengono suonati in parti eguali canzoni del disco solista (che non sfigurano per nulla) e quelle più note della band madre. I suoni sono ottimi, inaspettatamente pesanti e rendono ancora più efficace l’esecuzione di brani ormai storici come “Right Here In My Arms”, “Poison Girl”, e “Join Me In Death” che chiude l’esibizione assieme ad una pesantissima versione ai limiti del doom della nuova “Saturnine Saturnalia”. Con aspettative non proprio altissime, dobbiamo invece dire che Ville Valo ci regala una delle sorprese più belle del festival.
Nati dallo scioglimento dei mai troppo compianti Windir, i VREID tornano sui palchi di un festival norvegese, dopo l’Inferno Festival dello scorso anno, acclamatissimi come sempre dai presenti. Il loro mix di viking, heavy metal e black ‘n roll funziona benissimo nel contesto live e, nonostante l’ora non sia proprio adatta per un concerto come il loro, i norvegesi la buttano tutta sul divertimento e sul coinvolgimento del pubblico, tirando fuori una esibizione diretta, epica e tecnicamente ineccepibile.
Non c’è spazio per la nostalgia e la scaletta si focalizza esclusivamente sulla seconda metà della loro discografia, tralasciando brani dei Windir ma trovando spazio per la cover di “Noen Å Hate” delle leggende rock norvegesi Raga Rockers. È così che si susseguono una dopo l’altra le furiose “One Hundred Years “ e “Lifehunger”, l’epica “Into The Mountains” e la cupa “Pitch Black” a chiudere un’ora godibile e senza cali.
Giusto il tempo di un paio di brani dei TNT, storico gruppo dell’ heavy metal classico norvegese del guitar hero Ronni Le Tekrø, ( tra le altre cose produttore dei 1349 e collaboratore di Enslaved e Cadaver), e ci dirigiamo verso il tendone del Moonlight Stage per i NAPALM DEATH.
Notiamo subito la mancanza di Shane sul palco (sostituito da Matt Sheridan dei Pro-Pain) per motivi personali come dichiarato da Barney ad inizio concerto. Vedere i Napalm Death live è quasi sempre una sicurezza e, nonostante gli anni che passano e nonostante una formazione per motivi diversi non proprio stabile, il loro lo fanno sempre bene: certo, la voce di Barney non è più quella di una volta ma l’instancabile frontman inglese, con la sua andatura totalmente scoordinata e una dose di energia che sembra non finire mai, non ne sbaglia una e tra una dichiarazione politico-sociale e l’altra la band spara una quindicina di brani suddivisi tra vecchio e nuovo.
Il segreto di un gruppo come i Napalm Death è sempre stato quello di riuscire a rendere coerente una discografia estremamente eterogenea, ed è cosi che nella stessa scaletta troviamo schegge di violenza come “Control”, “You Suffer” o “Siege Of Power” insieme a momenti decisamente più sperimentali come “Amoral” dalle sue tinte quasi post-punk, le dissonanze della gotica “Contagion”, e una serie di classici intramontabili come le versioni velocissime di “Siege of Power” e “Suffer The Children” che fanno esplodere il delirio sotto lo stage. Brani nuovi come la pesantissima “Invigorating Clutch”, il piglio hardcore di “Narcissus” non sfigurano accanto ad una “Unchallenged Hate” e l’ora di show viene chiusa con la solita “Nazi Punks Fuck Off”, a ribadire da dove arrivino le loro origini. Sgraziati, non perfetti ma con una ferocia e una attitudine da vendere, i Napalm Death centrano sempre il bersaglio.
Il tempo di metter qualcosa sotto i denti e si passa da un gruppo inglese ad un altro, con gli ARCHITECTS a rappresentare un suono più moderno. Che il gruppo di Sam Carter sia una macchina quasi perfetta live è ormai cosa assodata e, nonostante chi scrive non sia un grande fan, la loro esibizione è tra le migliore della giornata. Lasciatosi da parte gli inizi di carriera caratterizzati da un suono tecnicissimo ed asfissiante, è con l’ingresso in formazione di Carter che gli inglesi fanno il salto di popolarità, avendone saputo sfruttarne appieno le capacità vocali ed evolvendosi verso un metal melodico, vicino ai connazionali Bring Me The Horizon. La scaletta prende a mani basse dal penultimo “For Those Tha Wish To Exist” con le sue “Lungs”, la commerciale “Meteor”, che viene cantata da buona parte del pubblico, ed “Animals” lasciando qualche spazio al recente lavoro con “Deep Fake” e la rammsteiniana “Tear Gas” per tornare indietro nel 2016 con una ottima versione di “Nihilist”.
Sam è perfetto sia come frontman che come cantante, gestendo alla perfezione i cambi di registro tra melodico e scream, e la band è precisissima nel sostenerlo. Insomma memori dell’esibizione dei Bring Me The Horizon dello scorso anno possiamo dire con certezza che Architects battono Oliver Sykes e soci a mani basse. Sono quasi le sette di sera, la temperature si fanno gradevoli e danno una mano alla marea di gente ammassata sotto il palco principale per quello che è probabilmente il concerto più atteso di tutto il festival.
Un enorme telone nero col banner PANTERA in rosso nasconde momentaneamente l’intero palco che viene rivelato alle prime note di “A New Level”, coperta da un boato fortissimo. È innegabile che per chi non ha mai avuto la possibilità di assistere ad un concerto della band texana al completo questo sia un momento particolarmente emotivo, e siamo sicuri che sia cosi per un sacco di persone presenti.
Sin dalle prime battute si sente che i quattro sul palco hanno una ottima alchimia, e tutti gli occhi sono puntati sui sostituti dei compianti fratelli Abbott, due musicisti con una personalità talmente ingombrante da far nascere numerosi dubbi sulla reale riuscita di questa operazione nostalgica.
Dubbi che però vengono spazzati via man mano che la scaletta avanza, con un Charlie Benante sempre precisissimo e attento a mantenere i groove micidiali di Vinnie Paul senza mai sacrificare totalmente il suo stile. Stesso discorso si può fare per Zakk Wylde, uno che di personalità ne ha da vendere di suo ma che si cala umilmente nel ruolo di turnista cercando di rendere omaggio a Dimebag Darrell nel migliore dei modi, mantenendo quella fortissima vena southern che da sempre accompagna i Pantera ma a modo suo. I sopravvissuti Phil Anselmo e Rex Brown sono anche loro in buona forma, con il frontman che non ha più la prorompente fisicità dei bei giorni (e ci mancherebbe altro) ma rimedia con una performance solida, tributando continuamente i suoi compagni scomparsi e tirando fuori una buona prova vocale.
Come prevedibile per l’ora e un quarto di show gli americani non fanno mancare nessuno dei brani più storici che toccano tutti i lavori da “Cowboys From Hell” in avanti: micidiale la combo iniziale con la già citata “New Level” e “Mouth For War”, a cui segue il poker “Strenght Beyond Strenght”, una grandiosa “Becoming” con un Benante perfetto, “I’m Broken” con un lungo solo di Wylde che fa esplodere i presenti e “5 Minutes Alone”, tutte da “Far Beyond Driven”.
Si alzano i bpm con “Fucking Hostile” e “Suicide Note Pt2” separate da una “This Love” in cui Anselmo ce la mette tutta per non sfigurare, sebbene tutta la prima parte di “Hollow” viene sostituita come da copione con “Domination”, dimostrando di fatto che la sua capacità nei melodici è un ricordo lontano. Piccola sorpresa durante “Walk” con Satyr Wongraven dei Satyricon che sale sul palco come guest (i due sono ottimi amici sin dai tempi del tour del 2000) mentre Phil ricorda al pubblico di casa quanto sia un fan di Satyricon e Darkthrone. Arriva il momento di “Cowboys From Hell”, cantata da praticamente tutti i presenti, a chiudere un concerto onesto, molto nostalgico, ma che ha il pregio di rendere un buon omaggio alla carriera di due musicisti mai troppo compianti.
Nonostante dopo i Pantera l’atmosfera sia quasi quella da fine festival, i GOJRA sul Vampire Stage ci ricordano che la giornata non è affatto finita. Chi ha assistito ad un live dei francesi sa bene che il loro impatto sia dal punto di vista sonoro che tecnico è enorme e non ci si stupisce se sono diventate loro una delle band di punta del panorama metal odierno. Lo show messo in piedi dai fratelli Duplantier davanti ad una quantità enorme di gente è sempre notevole, complici uno stile musicale personale, moderno e tecnico senza sacrificarne l’impatto e una bravura strumentale rara, specialmente del batterista Mario vero e proprio motore della band. Nell’ora abbondante a loro disposizione il gruppo riesce, pur dando priorità all’ultimo lavoro, a rappresentare il meglio della propria carriera ed è cosi che trovano spazio brani come una sempre stupenda “L’Enfant Sauvage”, “Flying Whales”, la devastante “Backbone” e la lunga “The Art Of Dying”, assieme alle più recenti “Stranded” e “Silvera” tra le più apprezzate dal pubblico. Come già ampiamente dimostrato dal sold out dello scorso anno sempre in quel di Oslo, i Gojira in terra nordica sono una delle band attualmente più acclamate e non c’è da stupirsi se nei prossimi anni li si vedrà in veste di headliner.
Sono le nove e mezza e il palco principale si è trasformato per l’occasione nella grande cattedrale blasfema dei GHOST. Così come già detto per i Gojira, anche Tobias Forge e anonimi compari sono reduci da una data sold-out lo scorso anno nella capitale, e la loro popolarità sembra inarrestabile ma c’è qualcosa nella prestazione di questa sera che non quadra del tutto. Tolti i problemi tecnici video iniziali, in cui i maxischermi smettono di funzionare per una decina di minuti, e quelli audio con delle basse a volte troppo invadenti durante tutta l’esibizione, la band appare meno fresca del solito, quasi fosse visibilmente stanca e con lo stesso Forge, meno teatrale del solito.
Certo la situazione festival finisce per limitare inevitabilmente uno show curato e spettacolare come quello degli svedesi, ma a mettere una pezza ci pensano loro presentandone una versione semplificata che ne mantiene i momenti chiave, come il solo di sax della salma di Papa Nihil, puntualmente portato sul palco in una teca.
La scaletta, anch’essa sacrificata per rientrare nelle due ore scarse, si concentra comunque sui brani più famosi e tralascia, ad eccezione di “Year Zero”, del tutto i primi due lavori, per concentrarsi sull’ultimo “Miasma”. Vista anche l’enorme popolarità derivata da TikTok non ci stupiamo che il pubblico di questa sera sia il più omogeneo dell’intero festival, in cui si possono vedere, famiglie, ragazzini e metallari, quasi tutti impegnati a cantare sulle note di hits come “Rats”, “Mary On a Cross”, “Cirice” o della sempre bella “Square Hammer” che ha ormai sostituito “Monstrance Clock” come pezzo di chiusura. Eppure questa volta i Ghost non riescono a bissare l’esibizione praticamente perfetta della scorsa primavera lasciando un po’ di amaro in bocca e una sensazione di compitino ben eseguito ma senza particolari picchi. Rimandati alla prossima volta.
L’ora è tarda ma il sole delle notti estive norvegesi è sempre lì che illumina il cielo e ci accompagna a casa nella nostra consueta camminata notturna tra i boschi di Ekeberg, stanchi ma pronti per la giornata di chiusura di domani.
SABATO 24 GIUGNO
Per ragioni logistiche arriviamo giusto in tempo per vedere gli ultimi tre brani degli AURA NOIR, che sembrano decisamente in forma e sparano il loro black metal dalle radici thrash ad un volume altissimo, all’ombra del Moonlight Stage, mentre sul palco principale si esibiscono gli STAGE DOLLS, storico gruppo hard rock norvegese. Con una formazione stabile ormai dal lontano 1996, Blasphemer, Aggressor e Apollyon sono una macchina rodata e precisissima fatta di riff old school e ritmi velocissimi che funzionano alla perfezione dal vivo.
Un veloce cambio di backline e sullo stesso palco si presentano i BURY TOMORROW, che col loro metalcore massiccio e venato di hardcore si trovano a loro agio, con un buon numero di fan ad accoglierli e a scatenare un moshpit quasi costante.
Dopo una quindicina di minuti decidiamo però di muoverci verso il Vampire stage dove stanno suonano i THE DOGS, gruppo punk dalle venature garage di Oslo, in cui milita Kristopher Schau, già frontman dei Mongo Ninja assieme Bård Faust. Il loro è un concerto fenomenale, irriverente e senza un minimo di tregua, in cui Schau recita il ruolo di mattatore come suo solito, scherzando e interagendo continuamente col pubblico che si diverte parecchio fino alla fine che arriva con una acclamatissima “Olso” sorta di inno punk dedicato al capoluogo norvegese.
Col cartellone di oggi decisamente fitto e che non dà un attimo di tregua raggiungiamo il main stage alle prime note degl IN FLAMES, che ritornano al Tons Of Rock dopo una discreta prova nel 2019. Gli svedesi, freschi del nuovo album “Foregone” nella quale si sono riviste timidamente alcune cose del periodo più prettamente death metal, si presentano con una formazione ancora una volta rimaneggiata (al basso troviamo come turnista questa volta Liam Wilson, ex Dillinger Escape Plan) e ci regalano un ora abbondante di concerto.
Ora, se dal punto di vista tecnico, sonoro e di tenuta del palco Friden e soci sono tendenzialmente inattaccabili, le loro esibizioni danno sempre la sensazione di un qualcosa di freddo, poco coinvolgente e costruito, e nemeno un brano come “Behind Space” suona come dovrebbe, sempre troppo tirato e lucido e senza quell’aggressività che ci si aspetterebbe. Se ci si aggiunge il fatto che tutta la scaletta, ad eccezione di “Only For The Weak”, e “Cloud Connected” si concentra quasi esclusivamente sugli ultimi lavori, l’interesse scema parecchio. La sensazione è che gli In Flames siano da tempo in un impasse artistico, una finestra musicale che non soddisfa in maniera completa probabilmente nessuno, sempre a ridosso di un passato ingombrante e una evoluzione che di fatto suonava già datata quindi anni fa.
Dall’amarezza però passiamo alla soddisfazione, con l’esibizione dei CANDLEMASS. Rinati ad una nuova giovinezza artistica, gli svedesi si presentano con la stessa formazione del capolavoro “Epicus Doomicus Metallicus” e sono protagonisti di una esibizione di grandissimo livello, vicina a quella del Beyond The Gates dello scorso anno in cui suonarono tutto “Nightfall”. Questa volta la scaletta prende esclusivamente dai primi tre (capo)lavori ad eccezione della title-track del nuovo “Sweet Evil Sun” e dall’opener “Mirror Mirror”, passando per “Bewitched”, “Dark Are The Veils Of Death”, fino alla conclusiva “Solitude”, la band è praticamente perfetta, con un Johan Längquist in splendida forma sia sui suoi pezzi che su quelli più impegnativi dell’era Messiah Marcolin.
Tutto il Moonlight Stage si trasforma in una grande cattedrale sonora grazie all’atmosfera decadente e funerea di brani immortali, resi in maniera suprema sa una band in forma smagliante e che scrive il suo nome tra i top di questo Tons Of Rock 2023.
L’atmosfera sul Vampire Stage si fa misteriosa e il palco viene preparato con una strana struttura metallica a due piani sulla quale troneggia un grosso schermo a led che manda in loop immagini di rumore statico e flash di telegiornali da tutto il mondo. È arrivato il momento per quello che è forse il concerto più atteso da chi sta scrivendo: i PUSCIFER di Maynard James Keenan. Sinceramente non sapevamo cosa aspettarci, se non che sarebbe stato uno show surreale e divertente come già anticipato dal recente “Live At Arcosanti”, e gli americani non tradiscono le aspettative. L’intero concept sul quale si fondano i Puscifer attuali è quello di una band di Men in Black in incognito, travestita da rock band e con il solo scopo di tenere sotto controllo, un’ imminente invasione aliena.
Ovviamente il tutto in sala ironica e surreale, con l’intera band sul palco a recitare la parte di attempati di mezza età che cercano di passare per metallari con movenze imbarazzanti e cliché vari. Da questo punto di vista è incredibile la performance di Maynard, completamente truccato come una specie di Donald Trump da fumetto e Carina Round che oltre a cantare in maniera impeccabile si occupa anche delle varie scenografie e balletti vari. Con una setlist che prende molto dal recente “Existential Reckoning”, tutto lo show è un susseguirsi di divertenti scenette in cui compaiono costumi da alieni, improbabili combattimenti a suon di presunte armi giocattolo ad ultrasuoni, il tutto mentre la band fa da colonna sonora col suo mix tra post-rock e elettronica raffinata dalle dinamiche sempre ricercate. Bellissime le versioni di “Apocalytptical” e “The Underwhelming”, una “Momma Sed” in versione remix, e “Bullet Train to Iowa” con un Maynard strepitoso, ma tra i momenti più alti ricordiamo però una soffusa “Horizons” e “The Remedy” che chiude uno show a modo suo unico sia per la proposta musicale che visivamente.
Nemmeno il tempo di riprenderci e fare una veloce cena, che sentiamo riecheggiare dal palco principale una serie di suoni di chitarra in loop, drone e feedback ad annunciare il ritorno in quel di Oslo del padrino del punk IGGY POP.
In una line-up ampliata da una sezione di fiati, compare in formazione anche la talentuosa Sarah Lipstate, originale chitarrista dal background molto sperimentale e che si confermerà come il vero centro focale di un live energico e sperimentale per le influenze varie che collidono brano dopo brano. Lo stesso Iggy non smette di stupire, e alla veneranda età di settantasei anni si conferma come uno dei frontman migliori tra quelli visti in questi giorni, correndo da una parte all’altra del palco e interagendo coi presenti raccontando spesso aneddoti sui vari brani. Come prevedibile, gran parte dello show verte sulla discografia del periodo Stooges, con la furiosa “T.V. Eye”, il rockabilly sotto steroidi di “Raw Power”, e una lunghissima versione di “I Wanna Be Your Dog” in cui tutta la band si lancia in una improvvisazione dal sapore acido e psichedelico. “Passengers” e la conosciutissima “Lust For Life” hanno il compito di rappresentare la carriera solista di James Newell Osterberg Jr, mentre tutta la seconda metà di questa quasi ora e mezza è una sequenza di rock and roll tiratissimo, dall’attitudine punk e suonato a volumi altissimi, con “Search And Destroy” e “Down On The Street” a consacrare una performance che rimarrà probabilmente nella storia del Tons Of Rock. Immortale.
Sono le otto passate e sebbene ci siano gli HAMMERFALL sotto il tendone del Moonlight Stage, decidiamo di seguire i WARDRUNA, curiosi nel vedere come un progetto così intimo e abituato a suonare in teatri o location del tutto inconsuete (e comunque quasi mai alla luce del sole) si comporti in un contesto totalmente differente come quello di un festival. Il risultato è, manco a dirlo, grandioso, aiutato anche dalla luce suggestiva del sole che inizia a nascondersi dietro le colline alle spalle del palco. Con una musica che si discosta decisamente dalla media delle band di un festival rock e metal, Einar Selvik e soci fanno totalmente centro, donando un’ora abbondante di spiritualità ed intensità a questa settimana fatta di chitarre e decibel sparati a mille, giusto prima della conclusione.
Suoni notturni e corvi in lontananza danno inizio alle danze con “Kvitravn”, seguita dalla rituale “Skugge” e dalla suggestiva “Solringen”, stupendo inno dedicato al sole, che arriva con una puntualità disarmante mentre gli ultimi suoi raggi fanno capolino da dietro al palco. Il tempo sembra quasi fermarsi e tutta la collina di Ekeberg riecheggia al ritmo del folk primordiale della band di Bergen che chiude il suo rituale con il trittico “Fehu”, “Rotlaust Tre Fell” e la consueta “Helvegen”, congedo funebre cantato dalla maggior parte dei presenti. Chi scrive ha perso il conto delle volte a cui ha assistito ad una esibizione dei Warduna dal vivo ma, sebbene questa fosse una prova non facile visto il contesto non proprio congeniale, possiamo dire che anche oggi abbiano dimostrato in pieno il loro stato di leader del dark folk.
Ecco arrivato il momento dell’ultimo headliner, che ha il difficile compito di mettere la parola fine questa edizione del Tons Of Rock. Se a molti può sembrare strano che questa responsabilità venga data ad una band relativamente giovane come gli KVELERTAK, va ricordato che il gruppo della provincia del Rogaland è di fatto una realtà musicali più grosse e seguite in terra natia e la band stessa lo sa bene avendo preparato uno show curatissimo e spettacolare per tutte le numerosissime persone presenti.
Ne sono passati di anni da quando i sei norvegesi, allora totalmente sconosciuti, giravano per l’Europa di spalla ai Converge, e vederli oggi davanti a decine di migliaia di persone come band di chiusura per il festival più grosso della Norvegia è sicuramente un qualcosa di strano ma del tutto meritato, frutto anche di una proposta musicale originale che mescola il black metal, armonizzazioni di chitarre quasi maideniane al punk dei Turbonegro in un mix che piaccia o no funziona alla grande.
Aiutati da un’evoluzione negli ultimi dischi che rasenta quasi il rock da stadio, l’impatto dal vivo è grandioso, divertente e orecchiabile quanto basta per piacere anche a chi non è avvezzo a generi più pesanti, tanto che quando la band si ferma apposta a metà di “Blodtørst” tutto il pubblico si fa trovare pronto per cantare il riff principale. Tutti le canzoni più conosciute vengono suonate una dopo l’altra e soprattuto durante “Kvelertak”, “Evig Vandrar”, “Braue Brenner” o “Nattesfer” il delirio diventa collettivo con tanto di fuochi d’artificio dal palco. I cori di supporto all’inno “Rogaland” risuonano per tutta la collina e la chiusura con l’epica e spettacolare “Bråtebrann” (parola norvegese per indicare un incendio controllato) vede effetti pirotecnici, fiamme sul palco e persino sopra tutta la zona dell’ingresso/uscita alle nostre spalle, in un abbraccio di fuoco veramente suggestivo. La scelta di piazzare i Kvelertak come band di chiusura ha dunque pagato alla grande, congedando in modo spettacolare un grande Tons Of Rock 2023.
Ci dirigiamo insieme alla massa di persone in coda verso l’uscita e dall’impianto lo una voce ci da appuntamento per l’edizione del 2024. Se la qualità è la stessa non ce lo faremo ripetere due volte.