Report di Enrico Ivaldi
Foto per gentile concessione di Karianne Eull
Sin dalla prima edizione del 2014, il Tons Of Rock si è candidato come il festival di musica più importante della Norvegia, piazzandosi esattamente a metà strada tra eventi prettamente metal come l’ Inferno Festival di Oslo e il Beyond The Gates di Bergen, e quelli più indie come L’Øya Festival.
In occasione del decimo anno di carriera Jarle Kvåle (bassista dei Vreid e Windir) e il suo staff hanno fatto le cose in grande, con un edizione che verrà ricordata in quel di Oslo, sia per line-up che degli standard organizzativi a livelli praticamente di perfezione assoluta.
Basterebbe la presenza di Metallica, Tool e Judas Priest, nelle prime tre giornate a rendere l’idea, ma il successo di questa edizione 2024 passa anche e soprattutto dalla grande capacità organizzativa dei paesi nordici e una quantità di gruppi che da soli avrebbero potuto fare da headliner.
I quasi duecentomila partecipanti di quest’anno (record assoluto per il Tons Of Rock) hanno potuto godere di una quattro giorni di concerti tecnicamente perfetti con una qualità sonora praticamente senza problemi, molti stand per il merch, un’area Vip con servizi aggiuntivi, una zona di servizi igienici generosa e senza code, numerose postazioni con acqua potabile, un ufficio postale e una grande selezione di cibo e bevande, tra cui un tendone con una quindicina di produttori di birra artigianale.
Certo i costi, soprattutto degli alcolici, sono più alti rispetto agli standard europei (una birra va dai 12 ai 16 euro) cosa che potrebbe spaventare chi arriva da fuori, ma sono comunque ragionevoli se paragonati al costo della vita di una città come Oslo.
Una cosa che ci ha lasciato abbastanza a bocca aperta è stata la pulizia generale dell’intera zona, con numerose stazioni per il riciclo sparse per tutta l’area, aiutata dalla scelta di far pagare 20 corone aggiuntive al momento del primo acquisto di una bevanda che che vengono restituite tramite token o scalate sull’acquisto successivo riportando il bicchiere, il che ha limitato enormemente il numero di rifiuti sparsi per terra.
I collegamenti per e dal parco di Ekeberg non hanno mai rappresentato un problema, grazie ai continui servizi di navette e tram e, per chi abbia avuto l’intenzione di farsela a piedi, il sentiero di ritorno attraverso i boschi della collina a strapiombo sul fiordo ha rappresentato un pittoresca camminata di quaranta minuti.
Ma basta parole, è ora di raccontare come sono andati questi quattro, intensi giorni di musica.
MERCOLEDÌ 26 GIUGNO
Col tempo dalla nostra parte e sotto un sole decisamente caldo, come da tradizione è il divertente ed ironico stoner metal dei BLACK DEBBATH ad aprire il Tons Or Rock 2024, che intrattiene i già numerosi presenti con un’ora di musica alternata dai siparietti irriverenti del bassista Egil Egeberg, mentre sotto il telone del Moolight stage i BETTER LOVERS di Greg Puciato dimostrano tutta la loro esperienza.
Nonostante un orario che non aiuta (non sono nemmeno le due di pomeriggio) il gruppo di Buffalo è comunque devastante per intensità, presenza scenica e precisione.
Il tempo di spostarci verso il Vampire Stage e sulle note di “Psychonaut” salgono i MOTORPSYCHO che con un’ ora scarsa a disposizione, cosa rara visti i concerti fiume a cui ci hanno abituati, scelgono intelligentemente una scaletta diretta e senza troppi fronzoli, tra cui spiccano le splendide “Hyena”, “Hay Jane” e “Mountain” congedandosi con la cover di “Into The Sun” dei Grand Funk Railroad. Lo show, compatto e dal sapore vintage non sarà altro che l’ennesima conferma, ammesso che ce ne sia ancora bisogno, della grandezza di un gruppo quasi irreale nella sua costanza.
La mezz’ora delle NERVOSA conferma le impressioni di un album come “Jailbreak” per una band che suona una thrash metal onesto, senza particolari picchi di originalità ma che dal vivo diverte e si diverte. “Jailbreak”, “Death!” e “Masked Betrayer” creano un discreto moshpit e in generale l’impressione è migliore di quella avuta nell’ultimo Inferno Festival con le compagne di etichetta Crypta.
Quasi cinquant’anni di carriera non sembrano scalfire di un millimetro la solidità dei SAXON, che si presentano in formissima e freschi dell’entrata in formazione di Brian Tatler, storico chitarrista dei Diamond Head, che sarà anche ospite di uno storico featuring più tardi. Come previsto tanti sono i classici in scaletta con “Crusaders”, “Princess Of The Night” e “Denim And Leather” cantate da tutti i presenti, decisamente numerosi sotto il palco principale.
Biff Byford è in ottima forma e corre da un lato all’altro del palco, mentre il resto della band trasmette un’energia contagiosa, tanto che anche le nuove “Hell, Fire And Damnation” e “Madame Guillottine” non sfigurano accanto ai classici. Per chi scrive questo era il primo concerto dei Saxon dopo quasi vent’anni dall’ultima volta e l’impressione è quella che il tempo non sia quasi passato.
Buona impressione hanno fatto anche gli ALIEN WEAPONRY con il loro groove metal quadrato e figlio dei Gojira ma non privo di una certa dose di originalità. Sebbene il gruppo dei fratelli Duplantier rimanga una fortissima fonte d’ispirazione, si sentono le influenze della cultura maori nella musica dei neozelandesi specialmente a livello ritmico, cosa che funziona decisamente bene in sede live, vista anche la calda reazione dei presenti sotto il tendone del Vampire Stage.
Non riusciamo ad assistere all’esibizione dei MAMMOTH WVH di Wolfgang Van Halen perche sul palco principale si esibiscono gli EUROPE, di nuovo in quel di Oslo dopo il grandioso concerto del 2022 proprio al Tons Of Rock.
Nemmeno a dirlo, gli svedesi di Norum e Tempest si riconfermano come uno dei gruppi più in forma di tutti tra quelli provenienti dagli anni Ottanta. Con un sound ancora più compatto ed aggressivo rispetto agli album, per tutti i settanta minuti di concerto non assistiamo mai ad un calo, con una scaletta che ben bilancia ballad storiche come “Carrie” a canzoni più dure come la quasi power metal “Scream Of Anger”, passando per inni come “Final Countdown” e “Rock The Night”.
Giocando quasi in casa, il responso del pubblico è prevedibilmente entusiasta e non potrebbe essere altrimenti, visto lo stato di forma dei Nostri.
Sono quasi le diciannove e il metalcore la fa da protagonista con i WHILE SHE SLEEPS e PARKWAY DRIVE di cui riusciamo ad assistere a una manciata di brani ciascuno. Se per gli inglesi l’impatto hardcore misto ad atmosfere più emotive crea un atmosfera carica di tensione, quello che succede sotto il palco del gruppo australiano invece è un vero e proprio delirio, con un enorme wall of death ad accompagnare ogni breakdown. Pur non trattandosi del genere preferito per il sottoscritto, l’intensa attività ed esperienza negli anni ha reso entrambe le band tra le più amate in sede live.
Le atmosfere si incupiscono sotto il telone del Moolinght Stage, dove una gigantografia di “La Danse du Sabbat” di Émile Bayard attende gli ellenici ROTTING CHRIST, ultima band prima ad esibirsi prima degli headliner.
Sakis e soci sembrano aver preso una rotta ben precisa da almeno una decina di anni senza grossi cambiamenti stilistici, ma quando si assiste ad un loro concerto, ci capisce perchè il loro metal che mescola black, atmosfere gotiche e musica esoterica funziona alla perfezione.
Ad eccezione della cover di “Societas Satanas” dei Thou Art Lord e della storica “Non Serviam”, la scaletta prende esclusivamente daglu ultimi quattro lavori, con la nuova “Like Father Like Son” unico momento tratto dal recente “Pro Xritous”. Per il resto la tribale “Agape Satana”, la furiosa “Kata Ton Daimona Eaytoy” e l’anthemica “Grandis Spiritus Diabolos” concludono un’ora abbondate che non fa che dimostrare il perchè i greci sono sulle scene da quasi quattro decenni. Nulla di nuovo, un po’ di mestiere ma sempre livelli eccelsi.
Arriviamo ora al momento più atteso dell’intero festival, che fa della giornata del mercoledì quella in assoluto più affollata. Dopo sei anni tornano i METALLICA in suolo norvegese e quale migliore occasione se non partecipando al decimo anniversario del Tons Of Rock? “È un sogno che diventa realtà” aveva confessato Jarle Kvåle in una recente intervista e non fatichiamo a crederlo, dopotutto i Four Horsemen hanno rappresentato la porta di ingresso verso il metal per una infinita schiera di musicisti ed appassionati di musica in generale.
Sono le 20:43 e l’impianto dello Scream Stage spara “It’s a Long Way to the Top (If You Wanna Rock ‘n’ Roll)” degli ACDC, ma è quando risuonano le note di “The Ecstasy of Gold” che tutti si rendono conto che i quattro di Los Angeles stanno salendo sul palco, accompagnati da un boato che raramente si è sentito in quel di Ekeberg.L’inizio è di quelli migliori, con Lars e soci che sciorinano un classico dopo l’altro, aprendo con una “Whiplash” – a dire il vero difficile da riconoscere subito, visti i suoni non proprio perfetti, con la cassa della batteria altissima e troppo impastata e le chitarre non sufficientemente aggressive.
Ma questo non rappresenta una sorpresa, viste le critiche alle date precendenti, specialmente quella italiana. Si continua con “Creeping Death” e una grandiosa “For Whom the Bell Tolls” nella quale i suoni migliorano decisamente, specialmente dopo esserci spostati (con fatica) al centro e un pelo più lontani dal palco. La massa di gente infatti è tale da rendere qualsiasi movimento difficile ma tutti sembrano apprezzare, accompagnado ogni brano con cori altissimi.
“Enter Sandman” fa tremare il suolo e anticipa “72 Season” e “If The Darkness Has A Son” dall’ultimo lavoro, due brani che si difendono abbastanza bene ma fanno comunque fatica a reggere il peso di certi classici.
Come da tradizione James introduce Robert e Kirk che si esibiranno col loro solito siparietto cantando una canzone famosa (o presumibilmente tale) di ogni paese visitato. Per la Norvegia è il turno di “”Vill, Vakker & Våt” delle leggende hard rock locali CC Cowboys, col il pubblico che apprezza ed canta ogni verso, coprendo la discutibile pronuncia di Trujillo, che merita comunque un plauso.
Siamo a metà concerto, il sole è ancora sopra l’orizzonte che illumina la collina con una bellissima luce color arancio e “Shadows Follow” prova a farsi spazio tra due ingombranti brani quali “Fade To Black” e soprattutto la meravigliosa cover di “Am I Evil?” dei Diamond Head, suonata per l’occasione insieme al chitarrista originale Brian Tatler, che torna sul palco dopo l’esibizione coi Saxon di qualche ora prima.
Inutile dire che l’emozione per i presenti e per gli stessi Metallica è grande, tale da rendere questo un momento a suo modo storico.
Ci si rilassa ulteriormente con un’ottima “Nothing Else Matter” quando è lo stesso James a risvegliare gli animi chiedendo se fosse arrivato il momento di qualcosa di più pesante. Puntuale arriva infatti il trittico “Sad But True”, una “Lux Æterna” che, nella sua semplicità, si conferma come uno dei miglior brani del recente corso del gruppo e una lunga “Seek And Destroy” durante la quale la band si sposta sul palco al centro del pit mentre una trentina di enormi palloni vengono lanciati sul pubblico.
La band si dimostra in forma e assolutamente presa, forse non sempre precisissima ma comunque capace di trasmettere energia.
Discorso a parte per James Hetfield, che si conferma come uno dei migliori frontman di sempre, a suo agio a comunicare col pubblico e praticamente perfetto alla chitarra, sia che si parli di ritmiche che di assoli. Fiamme, elicotteri e spari introducono “One”, resa decisamente bene, ma il momento più alto si ha con l’immortale “Master Of Puppets”, con cui la band si congeda promettendo un ritorno in terra norvegese.
Ognuno dei quattro membri si prende il tempo per ringraziare personalmente il pubblico e il festival con Lars che visibilmente emozionato lo fa in lingua danese, idioma che i norvegesi capiscono senza problemi. S
i può concludere che un concerto dei Metallica nel 2024 rimane un’esperienza sincera e velata da un pizzico di nostalgia, per una band che, con tutti i suoi difetti riesce in fin dei conti a rendere ancora giustizia alla propria carriera.
Sono quasi le undici e nonostante l’efficiente servizio di navette, decidiamo per prender la via del ritorno lungo i sentieri del bosco di Ekeberg, provati ma già pronti per la giornata di domani che promette di essere la più densa ed interessante.
Setlist Metallica:
Whiplash
Creeping Death
For Whom the Bell Tolls
Enter Sandman
72 Seasons
If Darkness Had a Son
Kirk & Rob’s covering: CC Cowboys’ “Vill, Vakker & Våt”
Fade to Black
Shadows Follow
Am I Evil? Feat. Brian Tatler
Nothing Else Matters
Sad but True
Lux Æterna
Seek & Destroy
One
Master of Puppets
GIOVEDÍ 27 GIUGNO
Il secondo giorno di festival si apre con DORO a cui bastano quarantacinque minuti per settare il mood sotto un sole che comincia a farsi sentire.
Scaletta divisa a meta tra pezzi dei Warlock come “Metal Racer”, “Hellbound” e “Burning The Witches” e altri presi dalla carriera solista della cantante tedesca come “Children Of The Dawn” e “Revenge”.
Il concerto è tirato, con il bravo Bill Hudson (presente anche domani con il tributo ai Morbid Angel) che spesso ruba la scena a suon di assoli da tipico guitar hero.
Un ottimo antipasto quindi, mentre all’ombra del Moonlight Stage si sta preparando il francese IGORRR, che prende idealmente lo slot che fu di Perturbator e Carpented Brut degli scorsi anni.
Che il progetto di Gautier Serre abbia incuriosito i presenti è dimostrato dall’enorme massa di gente accorsa e, vista la proposta musicale eccentrica, spesso parossistica ma capace di intrattenere, non si fatica a comprendere il perché di cosi tanto seguito.
Chi scrive non è proprio un fan del metal contaminato da musica barocca ed elettronica di Igorr ma è innegabile come il tutto, sebbene a volte disorientante, renda bene dal vivo. “Camel Dancefloor”, “Spagehtti Forever” e “Himalaya Massive Ritual” fanno danzare quasi tutti e un lungo applauso a fine esibizione fa quasi commovere Gautier, che forse non si aspettava un così caldo responso ad un ora non proprio congeniale (sono a malapena le tre del pomeriggio).
Dopo la forzata cancellazione del Tons Of Rock 2022 finalmente i KATATONIA buttano alle spalle le sfighe varie e riescono a salire sul palco di Ekeberg, per un live sulla carta non facile.
Il metal dai toni grigi e depressivi di Renkse e soci non è propriamente adatto ad un palco estivo, ma la classe infinita degli svedesi fa sì che per l’intera ora a disposizione veniamo trasportati in un posto freddo e oscuro, dimenticandoci completamente del sole che quasi brucia la pelle.
Con una formazione rimaneggiata in cui manca Anders Nyström, sostituito qua dal solo Sebastian Svalland alla chitarra, i quattro di Stoccolma non sembrano risentirne più di tanto e, con una scaletta che si divide a metà tra l’ultimo “Sky Void Of Star” e i quattro album precedenti, riescono ad emozionare tutti presenti. Picchi si raggiungono con la splendida “Colossal Shade”, la toccante “Old Heart Fall”, “My Twin” ed “Atrium” a far calare il sipario e riportarci all’assolato giovedì di giugno.
Un live senza fronzoli, fatto solo di belle canzoni suonate da musicisti che riescono a trasportare i presenti nel loro mondo, a prescindere da tutto.
Ci si sposta di qualche centinaio di metri ma si rimane in quel di Stoccolma con gli OPETH, di ritorno dopo due anni, e questa volta “promossi” al main stage. Åkerfeldt e soci sembrano essere in una fase di transizione dopo la dipartita di Martin Axenrot, con un’attività live ridotta e lunghi silenzi.
Il concerto di oggi vede una scaletta scelta dai fan il che, come commentato dallo stesso Mikael, “contiene un sacco di roba vecchia, ma il problema è che spesso questi brani sono lunghissimi e oggi abbiamo solo un’ora di set”.
A fronte di qualsiasi dubbio c’è da dire che chi si aspettava una “Black Rose Immortal” o una “Forest Of October” rimarrà deluso, e con il tempo a disposizione assistiamo a soli cinque brani, con “Demon Of The Fall” a rappresentare quello meno recente.
Sorprende l’assenza di canzoni da “Still Life”, mentre immancabili sono “The Grand Conjuration” in apertura e penalizzata da un suono di chitarra un po’ troppo basso, una bella versione di “The Drapery Falls” e le pesantissime “Heir Apparent” e “Deliverance”, che con il suo incedere monolitico rappresenta una chiusura perfetta.
Un live onesto e un livello tecnico, manco a dirlo, eccellente ma con qualche problema a livello di suoni, con le chitarre che sembravano a tratti troppo zanzarose. Buona anche la prova del giovane Waltteri Väyrynen che, pure non avendo la classe di Lopez o la potenza di Axenrot, suona con precisione ogni passaggio. Solito siparietto ironico di Mikael che dice di aver fatto spostare lo slot degli Opeth prima delle Heart così da potersi godere il concerto in pace con una birra. Con la defezione dello storico gruppo hard rock per problemi medici, il buon Mike dovrà accontentarsi di Blackie Lawless.
Sono a malapena le cinque di pomeriggio e dalle atmosfere autunnali degli Opeth si passa al rock energico degli EXTREME, tornati l’anno scorso con il loro sesto lavoro dopo una pausa di quindici anni. Molti i classici dai primi tre tre album e tre da “SIX”, con “More Than Words” che prevedibilmente fa cantare la maggior parte della gente.
Poco da dire sulla performance, diretta, solida e con picchi di virtuosismo come l’immancabile “Flight of the Wounded Bumblebee” in cui Nuno Bettencourt lascia tutti a bocca aperta. Se l’anno scorso ci eravamo divertiti con gli Skid Row, quest’anno il testimone del metal stradaiolo passa a Gary Cherone e soci, che non deludono.
Agli W.A.S.P. tocca il compito di sostituire le Heart, e se i dubbi iniziali erano parecchi vista la forma fisica non proprio ottimale di un Lawless reduce da una delicata operazione alla schiena, dalle prime note di “Blind In Texas” si capisce l’andazzo.
Seppur costretto a suonare su uno sgabello, il buon Blackie appare in forma vocale ottima, con la band che lo accompagna nel migliore dei modi. “Love Machine”, “Wild Child” scuotono i presenti ma il picco si ha con una bellissima e lunghissima versione di “The Idol” e “Chainsaw Charlie (Murders in the New Morgue)” dal capolavoro “The Crimson Idol”.
Un’esibizione sorprendente per carisma, attitudine e compattezza quella del gruppo americano, che riesce pure a rubare gente dal Moonlight stage dove suonano contemporaneamente i THY ART IS MURDER, che non riusciamo a vedere per evidenti questioni di tempo.
Dopo il forfait forzato dei Faith No More nell’edizione del post-covid per i noti problemi personali di Mike Patton, il frontman californiano, rimessosi in forma (e con un’acconciatura orrenda), si presenta quest’anno con i suoi MR.BUNGLE, band che chi scrive attendeva più di ogni altra.
Forti della ri-registrazione del loro demo “The Raging Wrath of the Easter Bunny” Patton, Lombardo, Ian, Spruance e Dunn si presentano poco prima delle otto per un’ora e dieci di puro delirio surreale.
Si può discutere all’infinito se questi siano o meno i veri Mr. Bungle, ma se presi nel contesto di un lavoro di fatto thrash-core come il loro primo demo non crediamo si possa chiedere di meglio.
Ben diciassette i brani suonati, di cui la metà saranno cover, e una performance stellare da parte di Mike, che spazia da registri gutturali ad altri avanguardistici, ricordandoci poi di essere forse il più grande cantante rock degli ultimi decenni con veri e propri momenti di classe assoluta, come le cover di “Hopelessly Devoted to You“ dalla colonna sonora di Grease e “All By Myself”, rinominata per l’occasione “Go Fuck Yourself” con tanto di aneddoto ironico sul fatto che lui ed un suo amico si fossero trovati in una baita su di un lago norvegese a pochi chilometri da Oslo per sacrificare bambini, animali e mangiare pesce (?!?!).
La schizofrenia zorniana di “My Ass Is On Fire” anticipa una pesantissima cover di “Territory” dei Sepultura, che insieme a quella di “Hell Awaits” fa scatenare un moshpit devastante. Superfluo parlare della prova tecnica dei cinque, con menzione particolare però per l’estro di Spruance, da sempre uno dei chitarristi più sottovalutati di sempre.
Non riusciamo a vedere gli TSJUDER che condividono lo slot con i Mr Bungle, e mentre il cielo si colora di un arancione irreale il pubblico sotto lo Scream Stage ha già occupato ogni centimetro disponibile per l’imminente esibizione dei TOOL.
Questo per Maynard e soci rappresenta il primo concerto outdoor in Norvegia dal 2007, e come prevedibile le aspettative sono altissime.
Aspettative che non vengono deluse sin dalle prime note delle pesantissima “Jambi”, capace di scuotere tutti presenti con i suoi tempi contorti e un Maynard in ottima forma.
I suoni sono da subito enormi, e i pochi difetti scompaiono con l’arrivo di “Fear Inoculum”, che ipnotizza anche grazie alle bellissime visual sui maxischermi, sui quali non viene mai proiettato nessun membro della band, ma solo le loro classiche grafiche visionarie.
Si continua con gli ultimi due album per il combo “Rosetta Stoned” e “Pneuma”, quest’ultima assolutamente disorientante nella sua complessità ritmica e che dimostra quanto questi lunghi anni di silenzio non abbiano scalfito minimamente la loro compattezza in sede di concerto.
Arrivati a metà si torna indietro nel tempo con due brani per ognuno dei primi tre lavori, col pubblico che risponde in maniera entusiasta alla scelta di includere “The Grudge”, una versione estesa di “Schism”, “Intolerance” e soprattutto la coppia “Ænema” e Stinkfist” in chiusura.
Due ore di uno spettacolo praticamente senza sbavature, sia a livello di performance che di atmosfera, per una band estremamente divisiva ma che merita rispetto, al netto di una fanbase a volte un po’ troppo ottusa.
Nuvole nere e vento si alzano quando scoccano le undici ed essendo previsto un brutto temporale il pubblico viene fatto uscire immediatamente dopo l’ultimo concerto per ragioni di sicurezza. Noi torniamo a casa soddisfatti e pronti per il giro di boa delle ultime due giornate.
Setlist Tool:
Third Eye (Intro)
Jambi
Fear Inoculum
Rosetta Stoned
Pneuma
Intolerance
Schism (Extended)
The Grudge
Flood
Ænema
(-)Ions
Stinkfist
VENERDÌ 28 GIUGNO
La paura del nubifragio notturno è fortunatamente alle spalle e, nonostante una discreta quantità d’acqua scesa nella notte, ci rendiamo subito conto che l’area del festival ha tenuto benissimo e non ci sono rischi di capitare in mezzo ad un pantano. Intelligentemente, infatti, l’organizzazione ha deciso di coprire la zona a ridosso del palco principale con una pavimentazione temporanea di plastica, il che ha scongiurato ogni minima traccia di fango.
Primi a salire sul palco sono i VALENTOURETTES, che pagano tributo a Jokke & Valentinerne dello scomparso Joachim Nielsen, una delle quattro band storiche del rock norvegese. Per quanto pare abbastanza strano vedere alle due del pomeriggio un main stage praticamente strapieno, c’è da dire che si sta parlando di uno dei gruppi più amati dai norvegesi che intonano ogni brano con sincera emozione, tanto che il Moonlight Stage non vede presente moltissima gente quando si esibiscono le NOVA TWINS, che per la sovrapposizione di orari non riusciamo a vedere.
Ci avviciniamo invece con curiosità per gli EMPIRE STATE BASTARD di Simon Neil (BIffy Clyro) e Mike Vennart (Oceansize) qua senza Dave Lombardo, che abbandonano i suoni rock e progressivi delle rispettive band madri in favore di un metal schizofrenico figlio di Fantomas, Fugazi e appesantito da influenze grind e sludge.
L’impatto dei quattro dal vivo è sicuramente devastante e l’intero disco di debutto viene proposto per intero, il che non fa altro che confermare la bontà di tale progetto. Simon è un ottimo frontman che non ha problemi ha cambiare registro continuamente, passando da parti urlate e in growl ad altre più melodiche, mentre Vennart si dimostra come uno dei chitarristi più sottovalutati della scena indie, utilizzando un grande spettro di suoni differenti.
Tempo per assistere a dieci minuti del pesante set degli ORANGE GOBLIN prima di spostarci verso lo Scream Stage dove stanno iniziando gli URIAH HEEP, impegnati in un intenso tour estivo.
La band inglese, sponsorizzata indirettamente anche da Fenriz che ha in più occasioni dichiarato di aver iniziato ad ascoltare metal grazie all’ album “Sweet Freedom”, ha un seguito parecchio grande in Norvegia, e il calore che i presenti riservano al gruppo di Mick Box durante l’ora e dieci di concerto è decisamente sorprendente.
Molti i classici tra cui “Gyspy”, “Stealin’ ” e Lady In Black” affiancati da altre canzoni più recenti quali “Hurricane” che non sfigurano affatto, grazie ad una esperienza decennale che cinquantacinque anni di carriera non sembrano scalfire affatto.
Col vento alzatosi nel frattempo e le temperature scese sensibilmente, si prepara l’atmosfera perfetta per l’entrata in scena di ABBATH sul Vampire Stage che, per l’occasione presenterà una selezione di brani tratti esclusivamente dalla discografia degli Immortal, scelta che soddisferà un sacco di persone, incluso chi scrive.
Ogni concerto del blackster norvegese è sempre un terno al lotto, vista l’instabilità che spesso ha caratterizzato il personaggio, culminata con l’abbandono del palco dell’Inferno Festival 2017 dopo nemmeno mezz’ora, ma oggi Olve Eikemo sembra in ottima forma.
Dieci canzoni che ripercorrono – ad eccezione del solo “Blizzard Beast” – tutta la discografia degli Immortal fino a “All Shall Fall”, e già dalle prime note di “Call Of The Wintermoon” veniamo investiti da una tempesta di riff gelidi ed atmosfere epiche. Ben tre brani da “Sons Of Northern Darkness”, con l’immancabile “Tyrants”a scatenare un crowd surfing continuo specialmente tra i giovanissimi, passando per il black venato di thrash di “Damned In Black” e le epiche “Withstand The Fall Of Time” e “At the Heart of Winter” dall’omonimo capolavoro.
Il frontman scherza come sempre col pubblico, con poche ed incomprensibili parole nel dialetto di Bergen ad annunciare ogni brano e la performance generale è di buon livello sia tecnico che di presenza scenica, con veri e propri picchi di intransigenza come “The Sun No Longer Rises”.
Sicuramente il miglior concerto di Abbath da un po’ di tempo a questa parte su un palco norvegese, e siamo sicuri che molto sia da attribuire ad una scaletta che ha presentato solo classici, con buona pace per i suoi lavori solisti.
Si cambia completamente mood quando i TURNSTILE si presentano alla folla sotto lo Scream Stage per presentare il loro hardcore punk venato di suoni e soluzioni alternative ed elettroniche.
Quello che salta subito all’occhio è che, nonostante l’ottima tenuta sul palco di tutti i membri, una band come loro rende sicuramente meglio su un palco più compatto, ma tale dispersività viene bilanciata da una ottima resa dei brani, specialmente quelli più contaminati, nei quali Brendan Yates e compagni sembrano completamente a loro agio, confermando di fatto sensata la scelta di virare su una proposta meno classicamente hardcore.
Certo, non siamo agli stessi livelli di una band come i Refused, ma “BLACKOUT”, “ALIEN LOVE CALL” o la anthemica “HOLIDAY” scatenano i numerosi presenti dimostrando come il loro crescente successo sia meritato e genuino.
Spendiamo i dieci minuti che ci separano dalla prossima band nella nostra lista sotto il palco dei GLUECIFER, storica band norvegese che tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila si divideva la corona del garage punk nordico insieme ai Turbonegro ed Hellacopters. Quello che ne esce è uno show energico e con la giusta attitudine scanzonata e strafottente.
Un Moonlight Stage strapieno attende invece gli I AM MORBID. Con la situazione Trey Azagthoth e Morbid Angel per nulla chiara, va dà se che il gruppo di Vincent e del rientrato Sandoval rimanga l’unica occasione per ascoltare in sede live i brani dello storico combo americano.
I dubbi su una tale operazione svaniscono immediatamente con le prime note di “Immortal Rites” nei quali veniamo violentemente catapultati in una bolgia infernale e dalle atmosfere lovecraftiane.
Dave è un frontman perfetto, lontanissimo dalla stanca e disinteressata esibizione di qualche mese fa con gli Vltimas all’Inferno Festival, mentre Sandoval dimostra quanto sia solo ed esclusivamente lui il batterista capace di rendere immortali e micidiali canzoni come “Fall From Grace”, “Dominate”, “Rapture” o “Maze Of Torment”. Ogni brano è eseguito con una ferocia e una compattezza incredibili ed è da applausi il lavoro di Bill Hudson alla chitarra, che quasi non fa rimpiangere l’assenza di un colosso come Azagthoth, riproducendo alla perfezione ognuno degli allucinati assoli.
Curioso vedere un numero enorme di giovanissimi che scatenano moshpit e che surfano sul pubblico: dimostrazione, questa, che i classici trascendono sempre mode e trend. Finale claustrofobico e da incubo quando le prime battute di “God Of Emptiness” si abbattono sui presenti con un suono denso e fangoso, che si congeda solo con la furia di schizofrenica di “World Of Shit (The Promise Land)”. Una dimostrazione di classe per quello che si candida come uno dei momenti estremi più alti del festival.
Sono arrivate le nove di sera e sulle note di “War Pigs” dei Black Sabbath il palco principale è pronto per dare spazio alla storia.
Forti di un ritorno solidissimo, i JUDAS PRIEST irrompono aprendo le danze con una “Panic Attack” che funziona alla grande come apertura e ci consegna un Rob Halford in forma smagliante e quasi immune dal passare degli anni.
La coppia Fulkner-Sneap fa un grandissimo lavoro nel sostituire due colossi come Tipton-Downing, e quando partono in sequenza classici quali “You’ve Got Another Thing Comin’”, “Riding The Wind” e “Breaking The Law” il pubblico li accompagna ogni secondo con cori ed applausi.
“Invincible Shield”, insieme alla già citata “Panic Attack” sono gli unici brani del nuovo corso con Halford, e la scelta è quella di suonare solo classici, cosa che mette alla prova lo stesso Rob, il quale però si difende davvero bene contro un repertorio così impegnativo.
Da brividi “Victims Of Changes”, stampata nella mente dei presenti come momento migliore della serata, come anche una “Painkiller” devastante che chiude la scaletta e congeda la band, ma solo in attesa dell’ imminente encore che spara in serie “Electric Eye”, “Hell Bent for Leather” e una “Living After Midnight” che risuona dalla collina di Ekeberg fino ai quartieri periferici di Oslo.
C’è poco da aggiungere quindi, se non la conferma di una band dal carisma colossale e che riesce, ancora dopo quasi sessant’anni di carriera a incarnare l’estetica del metal più puro, trascendendo generi, preferenze personali e generazioni.
Viste le temperature che sono scese fino a sotto i dieci gradi, questa volta il ritorno sarà tramite bus, per risparmiare energie in attesa dell’ultima giornata.
Setlist Judas Priest:
Panic Attack
You’ve Got Another Thing Comin’
Rapid Fire
Breaking the Law
Riding on the Wind
Devil’s Child
Sinner
Turbo Lover
Invincible Shield
Victim of Changes
The Green Manalishi (With the Two Prong Crown)
Painkiller
The Hellion
Electric Eye
Hell Bent for Leather
Living After Midnight
SABATO 29 GIUGNO
Sole e vento ci accompagneranno per tutta la giornata del sabato, che inizia con un altro storico gruppo del rock norvegese: i SEIGMEN, attivi sin dai tardi anni Ottanta e di ritorno col recente “Resonans”, dopo una pausa forzata di quasi dieci anni a causa di una lunga malattia del frontman Alex Møklebust, per fortuna ripresosi completamente.
Quello dei Seigmen è un rock venato di metal e con influenze industriali, gotiche e dark, in un ideale ponte tra l’iconografia degli Einsturzende Neubauten e i Rammstein più riflessivi. Tanti sono i classici suonati, a partire dalla classica “Ohm” – coverizzata a suo tempo anche dagli svedesi Shining – passando per “Metropolis”, “Berlin” e una “Agnus Dei” che pare uscita dalla discografia dei Dead Can Dance.
Un concerto emozionante, al pari di quello dei Valentourettes di ieri per i norvegesi presenti che sono cresciuti con dischi come “Total” o “Metropolis”. Una band assolutamente da scoprire.
Non riusciamo ad assistere al concerto degli ALL THEM WITCHES per questioni di tempo, ed la nostra prossima tappa saranno i CAVALERA, di ritorno ad Oslo dopo la data sold-out dello scorso novembre.
La formula è la stessa – brani quasi esclusivamente dal primissimo periodo dei Sepultura con l’aggiunta questa volta del repertorio di “Schizophrenia”, ri-registrato anch’esso di recente.
Un’ora scarsa ma tiratissima, suonata da una band che ha ritrovato l’entusiasmo dei tempi migliori. “Since 1984, the real Sepultura!” grida Max prima del trittico “Morbid Vision”/”Mayhem”/”Crucifixion”, e gli unici momenti in cui i tempi rallentano sono il medley “Refuse Resist”/”Territory”.
Grandiosi i momenti tratti da “Schizophrenia”, che dimostrano una volta per tutte (se ce ne fosse ancora bisogno) il valore di quelle grandissime canzoni spesso vissute all’ombra dei due capolavori successivi.
Al netto della recente operazione iniziata con “Morbid Visions”, che può essere piacere o meno, fa veramente piacere vedere i fratelli Cavalera di nuovo insieme, in forma a calare i palchi come una volta.
La mezz’ora rimasta del teatrale ed affascinante set dei BATUSHKA di Bartłomiej Krysiuk, ci separa dall’altra band storica della scuola thrash estrema presente oggi.
Mille Petrozza e i suoi KREATOR si presentano su uno Scream Stage pesantemente addobbato da finti cadaveri appesi e l’enorme busto della storica mascotte Violent Mind ad ergersi inquietante dietro la batteria.
I Kreator del 2024 sono una delle band più professionali e costanti del panorama thrash mondiale, capaci di regalare sempre concerti impeccabili, complice anche una carriera che presenta pochi passi falsi. Certo, c’è tanto mestiere e gli ultimi lavori, assestati su di un thrash venato di melodia presa in prestito da un certo death, non riescono a concorrere con i classici, ma nel quadro generale è raro che i tedeschi falliscano l’obiettivo quando si trovano su un palco, e l’ora di concerto di oggi non fa eccezione.
Con una setlist che pesca quasi esclusivamente da “Violent Revolution” in poi, con le sole eccezioni di una sorprendente “Phobia”, “Terrible Certainty” e l’immancabile e devastante “Pleasure To Kill” in chiusura, i dieci brani proposti sono suonati con una precisione chirurgica; accanto alle catchy “Satan Is Real” e “Hate Über Alles” non mancano momenti più tirati come “Enemy Of God” e altri più pesanti e groovy come “Hail To The Hordes”.
Simpatico il siparietto di Mille che chiede ai presenti di fare gli auguri al batterista Ventor, il cui compleanno cadeva tre giorni prima.
Ci prendiamo un po’ di pausa per curiosare tra gli stand del merch, decidendo di saltare AVANTASIA e EINHERJER, per poi spostarci sotto il palco principale quando, alle sei precise si presentano gli ZZ TOP, storica band americana che a conti fatti avrebbe forse meritato di essere piazzata come headliner.
Sin dalle prime note di “Got Me Under Pressure”, in cui il bassista Elwood Francis si presenta col suo iconico basso a diciassette corde che suscita numerosi sorrisi tra il pubblico, fino alla conclusiva hit “La Grange”, è un continuo susseguirsi di riff blues suonati con piglio hard rock, estremamente coinvolgente e divertente. “Sharp Dressed Man”, “Gimme All Your Lovin'” e “Brown Sugar” vengono accolte con grande entusiasmo tra i numerosissimi presenti che hanno riempito il prato presso lo Scream Stage, e l’atmosfera generale è quella di una grossa festa.
Il cielo nel frattempo si è coperto di nuvole grigie è una perfetta atmosfera per quello che succederà a breve, con i SATYRICON che ritornano dopo cinque anni di assenza proprio in quel di Ekeberg, in cui suonarono l’intero “Rebel Extravaganaza” nell’edizione 20219.
Con una formazione che vede, oltre al fedele Steinar Gundersen (Spiral Architects) anche il nuovo entrato Frank Bello (Anthrax) al basso, il duo Satyr-Frost decide di andare sul sicuro, proponendo una selezione dei brani più famosi della loro carriera, più qualche sorpresa.
Tocca alla recente “To Your Brethren in the Dark” aprire le danze subito seguita dalla feroce “Forhekset” che mostra il lato più estremo dei Satyricon subito prima di virare sul periodo black’n’roll con “Diabolical, Now” e “Black Crow on a Tombstone”, accompagnate dai cori dei presenti che hanno riempito ogni spazio disponibile – raramente, infatti, abbiamo visto così tante persone presso il Vampire Stage.
Siamo quasi a metà del set ed ecco che arriva la sorpresa, con le note dell’intro che accompagna la lunga “Walk the Path of Sorrow”, indimenticata traccia di apertura del debutto “Dark Medieval Times” per poi continuare con la destabilizzante “Filthgrinder”, “The Pentagram Burns” e “Fuel For Hatred”, prima di arrivare all’inno nero “Mother North”, a cui partecipiamo tutti.
Un ritorno molto convincente questo di Satyr e Frost, che ci regalano un concerto senza troppi orpelli scenici, abbastanza diretto e con la solita compattezza; uno show che fa da antipasto al doppio appuntamento del Beyond The Gates di agosto in quel di Bergen, dove li vedremo impegnati per due sere di fila, con due set diversi.
Ed eccoci arrivati all’ultima band di questo Tons Of Rock 2024: la scelta di piazzare i giovani GRETA VAN FLEET in chiusura è probabilmente dettata più dal loro successo commerciale che da veri e propri traguardi artistici, e non sarà sicuramente facile per il gruppo del Mitchigan tener testa ai tre headliner che li hanno preceduti.
Iniziamo col dire che, vuoi per la stanchezza accumulata, vuoi per un hype inevitabilmente più basso, il numero di spettatori presenti, sebbene sempre molto numeroso, non si avvicina con quello dei giorni precedenti e non si fa fatica a scorgere qualche punto scarsamente affollato.
I quattro comunque sanno tenere un palco grosso come questo senza grossi problemi e, nell’ora e un quarto a loro disposizione, si dimostrano assolutamente professionali e ben rodati, dimostrazione degli oltre dieci anni di carriera alle spalle.
Come previsto, sono i momenti più zeppeliniani del debutto quali “Safari Song”, “Black Smoke Rising” e “Higway Tune” a coinvolgere di più ma anche quelli venati di prog del recente “Starcatcher” sembrano funzionare bene, specialmente tra le generazioni più giovani di quelli presenti questa sera.
Anche se a volte ‘l’effetto Måneskin‘ sembra esser dietro l’angolo e si ha l’impressione di qualcosa costruito a tavolino, dobbiamo dare atto ai Greta Van Fleet del grande impegno che li ha portati a calcare i palchi di tutto il mondo, con grande professionalità .
Metterli come band di chiusura ha fatto sicuramente storcere il naso a qualcuno ma loro se la sono cavata più che bene, tanto da essere votati come miglior concerto del festival.
Setlist Greta Van Fleet:
The Falling Sky
Safari Song
Black Smoke Rising
Meeting the Master
Heat Above
Light My Love
The Archer
Highway Tune
Runway Blues (Highway Tune reprise)
When the Curtain Falls
Sono le undici di sera, i fuochi d’artificio illuminano il cielo ancora chiaro e una voce dagli altoparlanti ci ringrazia, saluta e ci invita al prossimo anno. Sarà parecchio dura bissare questa edizione, ma quale miglior modo di accertarlo se non quello di essere, ancora una volta, presenti nel 2025?