Tool. Un nome che solo a pronunciarlo ormai suscita tanta reverenza quanto sgomento nei loro “poveri” fan. I Tool rimangono la band estemporanea per eccellenza, prima fulcro dell’armata alternative metal e post-grunge all’inizio degli anni Novanta, insieme a band mondiali come Nine Inch Nails, Faith No More, Primus e Helmet, poi eroi del prog agli inizi degli anni Duemila; ed ora considerati da molti come contribuenti inconsapevoli ma insostituibili del post-metal e dell’art-metal contemporaneo, o visti comunque come “pianeta Tool”, un mondo tutto a sé, tanto il fenomeno è ormai planetario e la band ormai slegata da qualunque scena di riferimento. Famosi da sempre per essere stati tra le poche formazioni ad acquistare successo mondiale senza l’aiuto dei mass media, ma solo grazie alle fitte ed intricate trame della loro musica (e nonostante l’indole riservata e schiva), i Nostri ormai si trovano nella difficile situazione di dover bilanciare la loro fama mondiale con la loro totale mancanza di prolificità, trovandosi ad essere continuamente strattonati per la giacca da dei fan ormai (giustamente) spazientiti e sempre più nervosi, che esigono e reclamano a gran voce un nuovo disco che non arriva da DIECI anni ormai senza motivo apparente; fan cui tra l’altro la band stessa ormai non riesce più né a dare spiegazioni né a biasimare (vedasi il caso del fantomatico processo legale cui è coinvolta, dato in pasto ai fan come scusa della totale inattività). Nel rischio imbarazzante di diventare i nuovi Guns N’ Roses di “Chinese Democracy”, intrappolati nel loro ermetismo, nel loro perfezionismo e nelle loro meccaniche interne ormai incomprensibili ai più, e messi dinanzi ad aspettative proporzionali alla loro fama (enormi dunque), i quattro di Los Angeles di tanto in tanto si lanciano in dei brevi tour degli USA (parliamo di 20-25 date ogni due anni), presumibilmente giusto per ricordare ai loro fan che i Tool ancora esistono, che ancora non sono finiti, che ancora sono una band al top della forma e che ancora credono che dare qualcosa ai fan, nell’attesa di un disco nuovo, sia la cosa giusta da fare. Da questi show emergono due cose principalmente. La prima è che, nonostante la lenta discesa nell’inavvenenza e nell’irrilevanza che deriva dall’inattività e dall’incapacità (o riluttanza?) della formazione di creare e pubblicare nuova musica, i Tool rimangono incredibilmente una vera macchina per soldi, capace di fare sold out istantanei di concerti che hanno un prezzo del biglietto astronomico e che si distinguono sempre per la presenza di impianti audio-video allucinanti e senza dubbio costosissimi; il secondo aspetto che viene fuori dall’assistere a questi spettacoli è la ormai ovvia e plateale distanza, sempre accennata ma mai così palesata, che esiste tra la componente umana della band (il trio Chancellor-Jones-Carey) e il loro frontman ultra-terreno, il tanto talentuoso quanto enigmatico e “spigoloso” Maynard James Keenan. Lo show a cui abbiamo assistito si è dunque distinto per una profonda dualità: l’esecuzione tremenda dei pezzi e lo show audio-video mozzafiato si sono scoloriti nel dubbio inestricabile che il gruppo punti tutto su effetti di scena e su di un palco ormai esagerato per celare le proprie difficoltà interne e perché non ha altro da offrire ai fan per colmare un vuoto ormai quasi imbarazzante: la mancanza di un disco che tutti vogliono e che nessun laser show al mondo, per quanto fantasmagorico, potrà mai sostituire. Speriamo, in cuor loro, che i Tool questo lo sappiano benissimo…
TOOL
Persa purtroppo la performance degli opener – gli industrial metaller 3Teeth – non ci rimane che attendere l’inizio dello show e rimanere a bocca aperta al cospetto dell’impressionante palco che giace immobile e silenzioso dinanzi a noi e che occupa l’intero lato est dell’altrettanto enorme Bill Graham Civic Center di San Francisco, come fosse un monolite da un altro mondo. Il colpo d’occhio iniziale lascia poco spazio a dubbi riguardo all’immensità logistica dello show che sta per iniziare. Un vero punto interrogativo e motivo di profonda riflessione per il sottoscritto, che vide i Tool suonare nell’umilissima ma caldissima cornice del Palacattani di Faenza nell’ormai preistorico 2001, quando la band era ancora aggressivissima e ancora “combatteva” per convertire nuovi fan; quando era la musica a parlare e non i soldi spesi in coreografie; e quando MJK ancora era un frontman vero, visibile ed estremamente coinvolto nella performance della sua band. Chi ha visto i Tool in azione negli ultimi anni sa invece che ogni tour è stato una evoluzione continua del palco e una involuzione palpabile della componente umana della band che si concede al pubblico. Parliamo di una sequenza stabile e pianificata di upgrade ai loro impianti audio-visual, che dall’uscita di “10,000 Days” in poi (e dunque in concomitanza con il successo planetario, l’inizio di un flusso ininterrotto di soldi) è stata una delle cose in cui la formazione ha più re-investito gran parte dei propri ricavi sempre crescenti. Come da tradizione, dunque, il concerto è partito con una attività di luci e proiezioni molto ridotta, che poi tende a sbocciare in uno show progressivamente sempre più elaborato e magniloquente, man mano che la band si addentra nel proprio set, per poi raggiungere proporzioni bibliche nel finale, con gli ultimi due-tre pezzi che rivelano tutta l’immensità degli schermi, della vastità di proiezioni, del laser show e dell’impianto luci che raggiunge la sua massima espansione in un climax quasi cinematografico, con un tripudio di colori ed un overload di emozioni sensoriali difficile da spiegare. Va detto però che se il contenitore o la portata dei visual cambia quasi ad ogni data, aumentando a dismisura, il contenuto è pressoché lo stesso dal 2006. Per esempio, durante “Schism” viene proiettato il videoclip di “Schism”, stessa cosa per “Stinkfist”, “Parabola”, e così via, come dal 2001 se non addirittura ancora da prima. Non proprio il massimo dell’intraprendenza, insomma, per una band che oggigiorno basa appunto la sua intera esistenza in sede live sugli effetti scenici esagerati dei loro sporadici concerti. Da un lato dunque va dato credito ai Tool per essere sempre e comunque promotori di concerti che sono vere e proprie esperienze extra-sensoriali che vanno ben oltre il semplice concerto e la semplice musica, visto che durante i loro spettacoli a tratti ci si dimentica persino della musica e si rimane travolti dal palco che sembra prendere vita in un tripudio di luci e colori; dall’altro lato, però, chi segue la band dal vivo da qualche anno è destinato ad avere la perenne sensazione del già visto e del prevedibile, pur in questo enorme apparato audio-visuale che cresce a dismisura di tour in tour. Non ci si può comunque davvero esimere dall’introdurre il palco e la sua portata, tanto quanto la band stessa e la sua musica ormai, nel descrivere uno show dei Tool. Con la mancanza di nuovo materiale da poter suonare, la formazione ormai sembra diventata dipendente da questo nuovo elemento di novità (visuale) con cui cerca ad ogni tour di stupire i fan. In questo senso il loro concerto è stato una sorta di “mischiaticcio” di tratti familiari e inediti: vecchi video sì, ma mostrati su schermi sempre più grandi e in un contesto di luci ed effetti scenici mai così elaborato come oggi. Maynard James Keenan, come da anni ormai, rimane nell’ombra al fianco della batteria – eterno catalizzatore di ammirazione e antipatia allo stesso tempo (facciamo tutti il suo gioco, ammettiamolo), grazie al suo irrinunciabile dualismo di assenza e disinteresse nello show, controbilanciato da una performance vocale sempre e comunque impeccabile e incriticabile (anche se un appunto doloroso verrà fatto più avanti). Anzi, con l’evoluzione del palco, con ancora più luci ed effetti visuali, ormai il frontman pare ridotto a mero personaggio delle proiezioni: invisibile, perso e mimetizzato nel tripudio di colori e forme che prendono vita alle sue spalle, perso nelle visuals, quasi ridotto a mera voce, come se il gruppo ormai un frontman non lo avesse più. E’ incredibile in questo senso assistere ad un Justin Chancellor fare headbanging a bordo palco oggi come fu agli esordi, in totale empatia con il pubblico, mentre il suo vocalist ormai assunto ad eminenza grigia inavvicinabile evapora nelle luci e nell’oscurità del lato opposto del palco, il più lontano possibile dalla folla e dai sui fan…e dai comuni mortali. Per quanto riguarda l’aspetto strettamente tecnico e fattuale del concerto, invece, ovvero la pura performance e la setlist, per fortuna la band sembra avere consapevolezza del fatto che DEVE a tutti i costi offrire qualcosa in più del solito ai fan che pagano fior di quattrini per vederla, oltre a semplicemente portarsi dietro più luci e laser e imbabolare la folla con effetti speciali degni di Star Wars. E’ un aspetto, questo, che fa loro onore e che mostra che il totale distaccamento dei Tool dal loro pubblico per ora non è avvenuto e che i Nostri hanno consapevolezza che una band che non fa dischi, se vuole continuare ad esistere e generare interesse nei propri seguaci, deve per forza inventarsi qualcosa e correre ai ripari. E per stuzzicare i fan, dunque, il gruppo ha scelto l’escamotage più ovvio e sensato: ovvero una setlist inedita che ha messo d’accordo tutti, privilegiando pezzi dal capolavoro assoluto “Lateralus” (da cui “The Grudge”, suonata per la prima volta dopo ben quindici anni, ha davvero esaltato tutti), dando ampio spazio all’altro disco più amato (“Ænima”), snobbando i capitoli meno apprezzati (“Undertow” e “10,000 Days”) e andando addirittura oltre, inserendo delle vere e proprie chicche come la strepitosa cover dei Led Zeppelin “No Quarter”, piazzata ottimamente addirittura in apertura di spettacolo, e la imprevedibile e terremotante “Opiate”, piazzata invece a metà set per far rimanere l’attenzione e l’esaltazione dei fan ai massimi livelli. Per quanto riguarda l’aspetto puramente esecutivo invece, ormai si ripete da decenni quello che si è sempre detto sui Tool, ovvero che Danny Carey non è umano e che ogni volta che lo si vede di persona dietro le pelli ci si ricorda della sua totale immensità come uno dei più grandi drummer nella storia del rock; che il bassista Justin Chancellor è la migliore “seconda chitarra che non è affatto una chitarra” nella storia del rock; e che Adam Jones rimane uno dei chitarristi più geniali nella sua semplicità mai esistiti: un uomo che ha costruito una intera carriera e un mondo musicale sull’intelligenza della chitarra rock, invece di cercare di stupire per vie banali e convenzionali tipo assoli funambolici, velocità e altre peripezie straviste e strasentite dagli albori del rock and roll. E, infine, come non menzionare la quasi regale performance vocale di Maynard James Keenan? Con un business-man come lui – che non ha un eccesso, che non ha una vita da rocker, che vive da sempre tra i vigneti e lontano dal logoramento dei tour, della fama, delle droghe, dell’alcol, eccetera – non rimane che godersi la meraviglia della sua voce, affatto consumata dagli eccessi o dalla suddetta vita da rockstar, e al contrario bella e potente come sempre, con quel taglio graffiante e un po’ malvagio che lo ha reso così famoso. Unica nota dolente sulla prova dell’enigmatico singer è rappresentata dalla mancanza del famoso urlo lungo oltre venti secondi che rese celebre “The Grudge”: forse è anche per questo motivo che il gruppo tende a non suonare più dal vivo questa canzone così amata dai supporter di lunga data. E’ stato un vero colpo al cuore sentire quel tratto del brano senza voci. Anche con lo stile di vita più salutare del mondo, alla fine, la vecchiaia raggiunge anche i più abili e salutisti come Keenan, il quale sembra non avere più le capacità di un tempo nelle parti vocali più aggressive, in cui spesso infatti preferisce sostituire con astuzia le urla di un tempo con un filtro vocale distorto, come visto in altri momenti più heavy e aggressivi del set. Tra meraviglia, nostalgia, ammirazione, rispetto e tanti dubbi sul reale stato del gruppo, si è dunque risolto uno show che non possiamo che definire positivo, ma anche rivelatore di tanti possibili scenari futuri e pieno di decorazioni ed effetti scenici di rilevanza assolutamente infima al cospetto del nodo centrale: ovvero il sapere se i Tool sono ancora una band funzionante e se faranno mai un disco, o se sono solo dei ricconi che grazie ai soldi che hanno fatto riescono a gettare fumo negli occhi dei loro fan con astuzie sceniche, in modo da celare abilmente il fatto che non riescono più a creare nulla di nuovo. Carey, Chancellor e Jones rimangono umani ed umili come sempre, adorabili quasi, tanto da fermarsi a fine show per un lunghissimo bagno di folla in cui sono volati applausi, saluti reciproci, plettri e pelli lanciati nel pubblico. Di Keenan nessuna traccia, già volatile come presenza umana sul palco, si è volatilizzato nel nulla allo scoccare dell’ultima nota di “Stinkfist”, quasi a voler confermare l’idea che quello che un tempo era un gruppo una volta affiatato, composto da amici e musicisti che volevano spargere la propria arte in ogni angolo del mondo, ora sia solo un business macina-soldi che cerca di “umanizzarsi” facendo qualche concerto per relazionarsi al proprio pubblico. Forse i Tool hanno ormai davvero poco combustibile umano e creativo rimasto, poco affiatamento e poca voglia di spaccare il mondo come una volta. Una cosa è certa, i loro fan non possono sopravvivere solo di laser e scenografie gigantesche.
Setlist:
Viginti Tres
No Quarter (Led Zeppelin cover)
The Grudge
Parabol
Parabola
Schism
Opiate
Ænema
Descending (brano inedito?)
Jambi
Forty-Six & 2
(Dany Carey drum solo)
Vicarious
(-) Ions
Stinkfist