Una volta sfumata la reunion del 2007, alla vigilia del Keep It True che li avrebbe rivisti all’opera sul suolo europeo dopo una vita, in pochissimi si sarebbero aspettati buone nuove dai Toxik, tra gli esponenti più talentuosi della seconda ondata thrash ottantiana. Invece rieccoli qua, rinnovati nello spirito e negli intenti, con del nuovo materiale appena sfornato – tre brani del nuovo album sono scaricabili dal sito della band tramite un codice in vendita durante il tour di questa primavera – e una formazione che ai due membri storici Mark Sanders, cantante in “World Circus”, e Josh Christian, chitarrista e leader dei techno-thrasher statunitensi, affianca due musicisti più giovani ma molto preparati, Bill Bodily al basso e Jason Bittner alla batteria, quest’ultimo transitato in tempi recenti anche dagli Anthrax, come turnista live nel 2011 e 2012. L’ultima data italiana si svolge al White Lion di Leinì, nell’hinterland torinese, un locale che sta guadagnando terreno nelle preferenze dei metaller del nord-ovest, grazie a un calendario fitto e attento all’underground e ai prezzi calmierati. La serata prende la forma di un mini-festival votato al thrash nella sua accezione più genuina e meno contaminata e vede la presenza di un manipolo di band semi-esordienti, tra le quali i più esperti sono gli Endovein, transitati sotto il traguardo del secondo full length l’anno passato. Alle 19.45, minuto più minuto meno, le danze, in forma di mosh disordinato a maglie larghe su superficie infida, possono avere inizio.
DEMOLITION SAINT
Diciamoci la verità: a vederli tribolare prima dello show tra cavi, strumentazione, una batteria che non ne voleva sapere di rimanere al suo posto e monitor fuori controllo, avevamo posto un’ingombrante spada di Damocle sulla testa di questi ragazzi, intuendo una certa impreparazione nella gestione del palco. Superata questa empasse, comprensibile del resto vista la giovane età e la conseguente inesperienza, i ragazzi si rivelano nettamente meno scarsi delle nostre pessimistiche previsioni. Vestiti in modalità thrasher d’altri tempi, in pantaloni stretti, scarpe da ginnastica con la linguettona di fuori rubate ai cugini di vent’anni più vecchi, pettinature improbabili costituite da rasature fatte alla buona e mullet anacronistici, i cinque hanno buon gioco un po’ per il contesto a loro favorevole, con gli amici a percuotersi lì davanti e ad avvinghiarsi ogni tanto ai musicisti stessi, un po’ perché la violenza e il controllo sul riffing serrato sono concetti imparati a dovere. I Demolition Saint hanno anche imparato a barattare un po’ di cieca attitudine distruttiva con assoli a presa rapida neanche troppo elementari, riuscendo in questo modo a dare un minimo di distinzione ai singoli pezzi e ad aumentare il carico sulle vertebre dei convenuti. Nel complesso i nomi che emergono come i simulacri più adorati dai ragazzi sono Testament ed Exodus, con i primi a vincerla di striscio per via di linee vocali che cercano di fare il verso a Chuck Billy. Scordatevi precisione certosina e forme impeccabili, ma non pensate nemmeno di affogare in un marciume indistinto flagellato da incursioni black, death e hardcore. Qua si sta nella tradizione, e nella mezz’ora abbondante disponibile non ci troviamo a guardare sbuffanti l’orologio, cerchiamo solo di stare attenti a non farci travolgere da qualche ragazzino che nell’impeto del troppo entusiasmo non guarda davanti a sé mentre si dimena. Promossi.
FINAL FRIGHT
Ben piantati nel solco del thrash sparato, irrompono carichissimi i Final Fright, five-piece di provenienza trentina da poco autore dell’EP “Wrapped In Chains”. Per certi versi potremmo ripetere quanto detto a riguardo dei Demolition Saint, in quanto ci troviamo ad ascoltare un altro gruppo dai pochi grilli per la testa e desideroso più che altro di attaccare a ranghi serrati e picchiare duro. Rispetto a chi li ha appena preceduti, i Final Fright strizzano un po’ l’occhio al crossover di D.R.I. e The Accused, il riffing è più scarno e le dinamiche meno elaborate, in favore di una velocità di crociera più sostenuta. Deriu alla voce urla e strilla come un ossesso, mantenendo però una voce piuttosto pulita e tagliente come la lama di un rasoio, in una rozza versione di Eric A.K. nella sua gioventù. Anche in questo caso lo spazio davanti al palco, che di fatto è una pedana rialzata di qualche centimetro dal pavimento, senza alcuna divisione col pubblico, è occupato da ragazzini invasati, in molti casi amici della band. Grazie a loro il concerto assume il carattere di una baraonda chiassosa, con il punto più alto di coinvolgimento toccato da una cover dei Forbidden, di cui chi scrive non rammenta il titolo causa incipiente demenza. L’attenzione ad assoli fluidi e ad alto tasso di killing instinct eleva i contenuti tecnici della performance, che va in archivio in maniera positiva, nonostante questi giovani thrasher abbiano ancora molto da lavorare per migliorare songwriting e dinamiche, almeno per il momento, piuttosto monocordi.
NEFASTIS
Ai Nefastis va un po’ di sfiga, i compagni di merende delle band precedenti si sono concessi una pausa quando è il loro turno, e sono costretti a partire con il poco pubblico rimasto abbastanza lontano dal fulcro delle operazioni. I quattro, dall’apparenza più arcigna e meno cazzara di chi ha suonato finora, hanno una professionalità di altro livello al confronto di Demolition Saint e Final Fright; d’altronde sta per uscire il primo parto su lunga distanza, “De Diebus Fastis Nefastis Infaustis”, e vi è alle spalle un numero di date live già nutrito. Infatti la compattezza e la cura per gli arrangiamenti saltano subito all’orecchio, il death/thrash proposto vive non solo di accelerazioni spietate e freddamente annichilenti, ma anche di tempi dispari e cambi di rotta inaspettati, frutto di una sintonia tra basso e batteria affinata alla perfezione. La sezione ritmica è prepotentemente in primo piano, il basso a otto corde di Fulvio Manganini è l’elemento più funambolico di un combo che alle randellate chirurgiche abbina un pronunciato gusto melodic death. Non ci sono riferimenti troppo precisi a questo o quell’altro nome di grosso richiamo, e questo è un pregio, mentre si potrebbe fare qualcosa di meglio per la presenza scenica, molto limitata allo stato attuale. Man mano che il concerto prosegue l’interesse cresce, e chi era all’esterno si riavvicina al piccolo stage con convinzione. Non saranno stati i più osannati della serata, ma pure per i Nefastis l’impressione è stata sicuramente favorevole.
ENDOVEIN
Bella doppietta per gli Endovein, che nel giro di cinque giorni hanno l’onore di aprire per i Destruction a Moncalieri e ora di esibirsi appena prima dei Toxik. I torinesi hanno sviluppato un discorso poco frequentato ai nostri lidi, e in generale nel panorama metallico internazionale, poiché il thrash melodico abbondantemente additivato da spunti tecnici estrosi e spiazzanti, di cui sono fautori, è perseguito oggigiorno da un ristretto manipolo di musicisti. In pratica, i moltissimi personaggi dalle mani fatate e dall’orecchio fino o si spostano verso il prog propriamente detto, oppure si inseriscono nel filone extreme metal, in pressoché infinite declinazioni. Se Final Fright e Demolition Saint hanno goduto di un discreto supporto, per gli Endovein la sala si riempie in misura non troppo distante da quanto avverrà per gli headliner. L’atmosfera rilassata e spensierata mette le ali ai ragazzi, l’energia che emanano è contagiosa e dà la scossa alle prime file, nutrite ancora più di prima di fans scatenati e smaniosi di mostrare la passione per il genere collidendo gli uni sugli altri senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Il cantante degli Endovein vorrebbe spaccare il mondo, l’ugola acuta cerca di emulare i voli pindarici dei migliori singer techno-thrash del passato, riuscendoci in buona parte ma inciampando qua e là in un’eccessiva smania di stupire. A volte la voce scappa un po’ via come un cavallo rimasto senza cavaliere, ma lo consideriamo un veniale peccato di gioventù, un piccolo prezzo da pagare per le temerarie surfate vocali tra i cataclismi di scale e ritmiche imprevedibili messe in pista dalla coppia d’asce. Gli Endovein zompano tra i Realm e i Toxik meno arzigogolati, i Megadeth al massimo dello splendore, i Death Angel dei primi due album e gli Heathen, non arrivando per ora alle altezze dei gruppi nominati, ma segnalando di essere sulla buona strada. Il loro è il concerto migliore di quelli visti finora, e alla luce di quanto sarà prodotto successivamente dai Toxik li mettiamo al primo posto in una ideale classifica di giornata.
TOXIK
Gli headliner non sono mai stati delle star ricche e famose, tutt’altro: il thrash come lo vedevano loro, complicato e genialoide, schizzato e stridente, pulitissimo e frenetico, non è mai emerso dallo stato di culto. Negli anni i due dischi pubblicati, “World Circus” e “Think This”, hanno beneficiato di una doverosa e sacrosanta opera di riscoperta, e ora la considerazione per queste opere e per chi le ha prodotte è molto più alta di quando i Toxik avevano originariamente pubblicato i due full-length. Non stupisce più di tanto quindi la convinta adesione che vengono a trovare stasera, davanti a un pubblico di settanta-ottanta persone accorse apposta per omaggiare dei veri maestri del metal più intelligente e creativo. Sgomberiamo subito il campo dalle fervide attese per un ritorno in pompa magna: i Toxik non sono in grado di ricalcare al 100% le gesta del passato ma possono – questo glielo riconosciamo senza dubbio alcuno – far intuire quello che erano capaci di fare, e mettere la pulce nell’orecchio a chi finora non ha sentito una nota del loro operato. Il problema più spinoso è che Mike Sanders non ha più l’estensione e la potenza di un tempo, obiettivamente dopo venticinque anni in pochi riescono a mantenere tonica una voce così esagerata nella ricerca, contemporaneamente, di note alte e veemenza, e infatti si deve spesso arrangiare per stare dietro a linee vocali al limite dell’impossibile già in origine. La fatica raddoppia sui pezzi del secondo disco (“Think This”, “Greed”, “Spontaneus”), ma Sanders ha il fegato di provarci fino in fondo, di dare l’anima per non sfigurare, di adattare le possibilità di adesso a linee difficili per chiunque non si chiami James River, John Cyriis o Alan Tecchio, questi sì cantanti che non hanno perso niente con il passare delle stagioni. Chi non ha smarrito il tocco e potrebbe ancora oggi dare la paga a tanti shredder di nuova generazione, mettendoli in fila soprattutto per la sensibilità del gesto e l’equilibrio per nulla smargiasso degli assoli più sragionati e difficili, è Josh Christian, autore di una prova maiuscola, che a larghi tratti lascia costernati i presenti. Vedere per credere gli occhi sgranati che ne seguono i movimenti alla velocità della luce con cui “massaggia” il manico della sei corde, sprigionante un profluvio di note difficilmente imitabili. La presenza di una sola chitarra è il secondo inghippo che affligge la nuova era dei Toxik, la loro musica nasce per due chitarre e quando i solos si protraggono a lungo si sente che manca qualcosa, nonostante la sezione ritmica sia di ottimo livello. A parte queste considerazioni, il combo americano si difende bene, si vede che ha una voglia matta di rimettersi in gioco e un entusiasmo da debuttanti. La venue molto intimo, con i musicisti a strettissimo contatto del pubblico, favorisce anche in questo caso il divertimento, la band è tutta un sorriso e i nuovi membri, il batterista in particolare, danno l’idea di essersi perfettamente integrati con la vecchia guardia. I Toxik sembrano essere piuttosto avanti con i lavori del nuovo album, “In Humanity”, buona parte della setlist prevede infatti la presentazione di nuovi pezzi. Ne vengono proposti ben cinque – “Breaking Class”, “Crooked Crosses”, “Inhumanities”, “No Rest For The Wicked”, “Too Late” – e di primo acchito ci è parso che si ricolleghino alla prima fase di carriera del quartetto, tralasciando i vertiginosi equilibrismi di “Think This”. Pur lontani dalla perfezione e con qualche acciacco da smaltire, possiamo dire che i Toxik sono rientrati discretamente nel giro, e se l’ugola di Sanders dovesse migliorare la tenuta e venisse aggiunta una seconda ascia nella line up, allora potremmo davvero vederne delle belle.