Report di Maurizio ‘morrizz’ Borghi e Riccardo Plata
Foto di Riccardo Plata
La domenica ha una storia abbastanza infelice per quanto riguarda i concerti a Milano: spesso l’abitudinario trittico riposo/aperitivo/campionato infatti ha avuto la meglio sul concerto di turno.
I Trivium però non erano ancora tornati su questi palchi dopo la pandemia, e la line-up per il “Deadman And Dragons Tour” appare abbastanza allettante: i re del metalcore tedesco Heaven Shall Burn mancano infatti dal 2017, gli Obituary dal 2018 (in occasione dell’addio agli Slayer) e i ‘prospect’ Malevolence dal 2019.
Dal metal classico/thrash/metalcore degli headliner al metalcore/melodeath antirazzista e animalista degli HSB, passando dagli originatori del death metal all’hardcore più moderno, stasera siamo davanti a un bill abbastanza eterogeneo e sicuramente inedito, a maglia abbastanza larga soprattutto per la presenza degli Obituary ma sicuramente non fuori fuoco. Alla fine di una lunga serie di date i protagonisti avranno ancora benzina nei serbatoi?
Tutti i gruppi hanno un album nuovo da presentare, quindi stasera si rovesciano positivamente le previsioni e alle 17:30 c’è già una fila molto lunga fuori dall’Alcatraz di Milano.
MALEVOLENCE
Il quintetto di Sheffield sa bene di essere ancora alla base della montagna, ma dopo il contratto con Nuclear Blast e la pubblicazione dell’eccellente “Malicius Intent” il cambio di marcia si vede: proiettati fuori dal circuito hardcore, lucidi, preparati e ultraprofessionali, i Malevolence stanno investendo tutto su loro stessi e si stanno divertendo un mondo.
Il pubblico che riempie già metà Alcatraz infatti risponde benissimo, consapevole che Alex Taylor chiederà il circle pit più grande della serata è immediatamente pronto a crearlo, già dalle minacciose note di “Malicious Intent” e “Life Sentence”, che aprono il breve ma intenso concerto di stasera. Viene pescato il meglio dell’ultimo disco ad eccezione di “Self Supremacy” (brano che da il titolo al lavoro precedente), ma è sotto gli occhi di tutti che suoni perfetti, performance a fuoco – tra Hatebreed e Lamb Of God con una punta di Crowbar per chi è a digiuno totale – portano il gruppo nella lista dei nomi caldi del metal moderno.
Trova spazio pure una melodica “Higher Place” con le luci dei telefoni alzate prima delle mazzate finali con “Keep Your Distance” e “On Broken Glass”. Il pubblico ne vuole ancora, non c’è dubbio, speriamo quindi siano accontentati come promesso dalle assi del palco. (Maurizio Borghi)
OBITUARY
Quasi cinque anni sono passati e di nuovo gli Obituary arrivano dalle nostre parte da apripista e in un contesto abbastanza variegato: nulla però impedisce alle leggende di Tampa di fare lezione alzando il volume a dodici e mischiando i connotati di neofiti e non. Luci rosse e verdi, “Redneck Stomp” e si danno inizio alle danze: dopo quasi quarant’anni gli Obituary sono ancora una live band fenomenale, che non spende tempo a cercare interazioni con il pubblico più dello stretto necessario né si perde in interludi, lasciando parlare il loro death metal marcio e crudissimo, oggi a volumi spaventosi.
I Trivium pagano rispetto lasciando usare loro cannoni e macchina per il fumo, capaci di donare atmosfera ulteriore fino ad arrivare ad oscurare nel tempo anche il backdrop. “The Wrong Time”, “My Will To Live” e la title-track vengono scelte a rappresentanza dell’ultimo “Dying of Everything” e si confermano perfettamente a tono in mezzo a pezzi leggendari come “I’m In Pain” o “Don’t Care”. A proposito di grandi classici, stasera viene esclusa dalla scaletta l’iconica “Slowly We Rot”, pilastro assoluto dei decani del death metal; ma quando, tra chiome lunghissime in headbanging costante, lo screaming di John Tardy è ancora tanto dominante, il fratello Donald detta legge dietro le pelli e Trevor Peres macina riff, nessuno può aprir bocca né si può proprio lamentare.
(Maurizio Borghi)
HEAVEN SHALL BURN
Dopo due show ad alta intensità come Malevolence ed Obituary tocca ai re del metalcore tedesco tenere alta l’asticella, con l’ulteriore pressione derivante da un’assenza di sei anni dai palchi italiani.
Forte di un set da quasi co-headliner (una dozzina di pezzi in scaletta per un’ora abbondante) e priva di particolari orpelli scenografici, la formazione tedesca alle otto in punto sale sul palco coniugando la potenza ritmica del death metal con l’approccio più ‘in your face’ dell’hardcore, riuscendo con la passione distillata in ogni goccia di sudore a sopperire anche ad una resa sonora non sempre ottimale.
Con nove album e un quarto di secolo di carriera alle spalle accontentare tutti non è facile, ma giustamente gli ambasciatori di Sea Shepherd (puntualmente omaggiato con una bandiera sotto il drum kit) decidono di dare ampio spazio all’ultimo e doppio album “Of Truth And Sacrifice”, da cui viene estratto più di un terzo della tracklist. Per quanto ci sia spiaciuto non sentire “Counterweight”, le più recenti “Übermacht”, “Hunters Will Be Hunted” e la tristemente profetica “Bring the War Home” non fanno rimpiangere i brani più datati, a conferma di una coerenza stilistica che, se per alcuni può rappresentare un limite, per molti è uno dei loro tanti pregi. Dal manuale del metalcore d’inizio secolo viene ripescate l’anthemica “Voice of the Voiceless” , così come quel frullatore di arti che risponde al nome di “Behind a Wall of Silence” rivaleggia con il moshpit dei Malevolence per il titolo di ‘circle pit of the day’. Senza nulla togliere alla resa di “Thoughts and Prayers”, il momento più coinvolgente arriva con “Black Tears”, cover degli Edge Of Sanity che sembra sponsorizzata da Benagol per quanto viene cantata a gran voce dal pubblico (con un Marcus Bischoff visibilmente soddisfatto mentre stringe mani e porge il microfono alle prime file); allo stesso modo sul finale spicca la devastante “Endzeit”, sulle cui note i buttafuori dell’Alcatraz sono costretti a fare gli straordinari sotto al palco per arginare orde di gente che fa crowdsurfing. Come detto avremmo apprezzato di più in chiusura un altro estratto da “Deaf To Our Prayers” al posto di una tra le pur valide “Corium” o “Tirpitz”, ma quando la band di Saalfeld si congeda dal palco – non prima di aver salutato ognuno dei compagni di tour con uno stacchetto personalizzato, tra cui spicca la dedica speciale per gli Obituary – l’impressione è di una band che ha dato tutto, tra abbondanti dosi di testosterone frammiste ad impegno sociale.
(Riccardo Plata)
TRIVIUM
Un grande telone oscura il palco dei Trivium dopo la lunga esibizione degli Heaven Shall Burn. Ne è passato di tempo e la pandemia ha fatto sicuramente la sua parte (il concerto di stasera era previsto nel novembre 2021) ma la band di Orlando non si siede sugli allori e nemmeno su “What the Dead Men Say” (2020), disco uscito allo stop dei tour e di conseguenza mai suonato dal vivo: ecco quindi arrivare “In the Court of the Dragon” (2021) a confermare il buon momento della band in fase di scrittura e un tour da headliner durante il quale la formazione si appresta a riabbracciare la propria affezionata fanbase.
Un loop rumoroso rimasto quasi mezz’ora viene interrotto finalmente da “Run To The Hills” dei Maiden ed anche il pubblico ben ristorato ritrova la gioia di vivere cantando l’immortale canzone. Tocca poi a “The End of Everything” introdurre lo spettacolo vero e proprio, con il telo che cade su “Rain” e svela la produzione più elaborata che la band abbia portato in tour ad oggi. Il backdrop giallo con disegni in stile giapponese è davvero notevole, mentre troviamo la costruzione a mo’ di tempio intorno alla batteria abbastanza kitsch, tanto quanto le statue dei dragoni con occhi luminosi ai lati del palco.
Un pelatissimo Heafy dà subito il massimo vocalmente per stare al passo con l’entusiasmo della folla, insieme al resto della band che entra in scena già parecchio calda. Come sempre li potremmo definire un po’ troppo precisini ed asettici (il contrasto con HSB e soprattutto Obituary è elevatissimo) ma va ammesso che i Trivium hanno trovato col tempo e la maturità uno stile personale, piuttosto educato e ‘marziale’ ma molto ben accetto al proprio pubblico, che sono riusciti a nutrire e mantenere nel corso degli anni. Heafy parla velocissimo e si profonde in espressività facciale, presto si toglie la giacca colorata e suda le proverbiali sette camicie per dare tutto il possibile ai presenti, imbrigliato nella sua originale tracolla per chitarra.
Gli skill del batterista Alex Bent sono udibili da subito, Gregoletto raddoppia con sicurezza sulle voci e gli assoli di Beaulieu non deludono: in questo modo i novanta minuti di set scorrono velocissimi in una setlist che ruota di data in data, andando a toccare tutti gli album del gruppo, con “Amongst the Shadows & the Stones”, la melodica “Catastrophist” e “Feast of Fire” al loro debutto sul territorio italiano. Su “A Gunshot to the Head of Trepidation” viene chiamato un esaltatissimo Josh dei Malevolence come terza chitarra, a sottolineare l’endorsement del gruppo per gli inglesi, mentre per il resto dello spettacolo è un bel dialogo tra band e fan davvero molto connessi. “In Waves” e l’immancabile “Pull Harder On The Strings Of Your Martyr” chiudono infine l’ennesimo show senza sbavature che conferma una striscia vincente per una band che, lanciata giovanissima in tripudio di hype, gloria e riff, ha sudato e lavorato duramente per non disperdere il proprio status. “We are Trivium, we always return“: davanti alla bandiera italiana appoggiata alla base della batteria Heafy saluta tutti mostrando che dietro tanta disciplina, professionalità e schiena dritta la band abbia anche un bel cuore. Alla prossima, dunque.
(Maurizio Borghi)