A cura di Carlo Paleari
KREISOR
I Kreisor salgono sul palco in una situazione abbastanza difficile: una buona fetta del pubblico, infatti, sta allegramente sbevazzando e chiacchierando nella zona bar, seguendo con moderata indifferenza la performance del gruppo. Nonostante questo i musicisti ci danno dentro, cercando di coinvolgere il più possibile il pubblico con la loro proposta dal gusto ‘vintage’. Bisogna dire che, malgrado gli sforzi, il pubblico resterà abbastanza freddo per tutta la durata della performance (un po’ troppo lunga, bisogna dire). Chi vi scrive, invece, ha apprezzato parecchio la proposta degli statunitensi, in particolare del cantante/tastierista, dotato di un tocco caldo e corposo all’hammond, di un buon gusto solista al sintetizzatore e anche di una bella voce. Insomma, i Kreisor hanno fornito una prova di tutto rispetto: una band da tenere d’occhio.
U.F.O.
Finalmente, dopo la solita lunga attesa tipica dei concerti al Live Club, entrano in scena gli U.F.O., che si presentano al pubblico iniziando subito con la splendida “Mother Mary”. Ancora una volta troviamo i soliti irriducibili Phil Mogg, Pete Way e Paul Raymond, accompagnati da Vinnie Moore, virtuoso della chitarra che ha letteralmente diviso in due la critica: da una parte chi lo osanna per il suo stile ricco di acrobazie e passaggi intricati; dall’altra chi invece rimpiange il gusto sopraffino fatto di genio e sregolatezza di Michael Schenker. Nel caso non si fosse ancora capito, il sottoscritto appartiene a quest’ultima categoria, non tanto per un approccio nostalgico legato al periodo d’oro della band, quanto piuttosto per l’inadeguatezza dello stile chitarristico di Moore in una band come gli U.F.O. Il chitarrista suona alla grande, ha un sacco di pregi, ma davvero non riesce ad integrarsi nel contesto della band, a causa del suo approccio troppo ‘ottantiano’ alla chitarra. Nonostante questo, comunque, lo spettacolo riesce ad assestarsi su buoni livelli, se non altro grazie alla performance perfetta di tutti gli altri membri del gruppo: Phil Mogg ha ancora una voce spettacolare e riesce ad incantare il pubblico con il suo carisma; Pete Way è il solito animale da palcoscenico (non a caso è uno dei modelli di un ‘certo’ Steve Harris…) e, nonostante sia completamente ubriaco, riesce a suonare alla grande fino alla fine; Paul Raymond, dimesso e schivo, resta una delle colonne portanti della band, dividendosi senza problemi tra chitarra e tastiere e fornendo un supporto preziosissimo dal punto di vista ritmico e melodico; infine Andy Parker, rientrato dietro le pelli dopo l’abbandono di Jason Boham, fornisce un’ossatura poderosa e solida alle canzoni, anche se, bisogna dire, il buon Jason aveva un ‘tiro’ maggiore. Per quanto riguarda la scaletta, la band ripercorre a grandi linee quanto già presentato nell’ultimo live “Showtime”: ecco quindi “Let It Roll”, “I’m A Loser”, “This Kid’s”, “Fighting Man”, “Only You Can Rock Me”, “Too Hot To Handle” e “Love To Love”. Naturalmente non potevano mancare gli estratti dagli ultimi due album, ovvero quelli con Vinnie Moore alla chitarra: “Daylight Goes To Town” e “Baby Blue” da “You Are Here” e “Hard Being Me”, “Drink Too Much” e “Heavenly Body” dall’ultimissimo “The Monkey Puzzle”. Queste ultime, in particolare, sembrano davvero migliorate in sede live, acquistando quell’energia e quella carica che invece sembrava mancare su disco. Il finale, come di consueto, viene affidato a due mega-classici, “Lights Out” e “Rock Bottom”, entrambe allungate a dismisura per lasciare spazio ai virtuosismi di Moore. Il chitarrista ci da davvero dentro ma ancora una volta il sottoscritto, che pochi mesi fa ha avuto modo di ascoltare la meravigliosa versione di “Rock Bottom” suonata dal Michael Schenker Group, non riesce ad entusiasmarsi come gran parte del pubblico. Si arriva quindi agli immancabili bis e, anche in questo caso, a farla da padrone sono i classici intramontabili, “Doctor Doctor”, cantata a squarciagola dal pubblico e “Shoot Shoot”. Dopo più di un’ora e mezzo di musica le luci si abbassano, la band saluta il pubblico e abbandona il palco. Magari il nuovo corso degli U.F.O. non può dirsi spettacolare come i gloriosi anni del passato, ma di certo sa regalare ancora buoni concerto, forse non indimenticabili, ma ancora ricchi di quella energia che rende il rock immortale.