Report di Giacomo Slongo e Sara Sostini
Fotografie di Benedetta Gaiani
Gli Uada devono aver preso alla lettera l’adagio ‘battere il ferro finchè è caldo’: dall’uscita di “Crepuscule Natura”, l’anno scorso, la band di Portland è stata impegnata a scorrazzare, con tour da headliner e partecipazioni a festival, su e giù dai palchi di mezzo mondo, consegnando il proprio modo – forse non originale, ma oramai dotato di una propria personalità e bellezza – di intendere il black metal nella sfumatura melodica declinata dalla scuola polacca dei Mgła.
Alla terza calata sul suolo italiano in poco meno di cinque mesi – dopo la partecipazione alle scorse edizioni del Luppolo In Rock e Frantic Fest – i quattro incappucciati tornano questa volta nel capoluogo lombardo per una data da protagonisti, spalleggiati dal mood depressive post-black metal dei Ghost Bath e da quello più luciferino e altrettanto nero dei Cloak.
Curiosi di vedere ancora una volta Jake Superchi e soci in azione, questa volta in un contesto più raccolto come quello del Legend, entriamo nel locale milanese poco dopo l’apertura delle porte; pochissimi gli spettatori già presenti, ed in generale registriamo una partecipazione non proprio corposa durante tutta la serata: probabilmente il ritorno ravvicinato dopo le date di Cremona (a luglio) e Francavilla al mare (agosto), insieme al rientro dal lungo weekend di ponte per Ognissanti e al periodo brulicante di concerti sono fattori che purtroppo hanno un po’ giocato a sfavore dei Nostri.
A voi il resoconto di come è andata.
Con un leggero ritardo (recuperato progressivamente nel corso della serata), i CLOAK salgono sul palco tra candele accese e volute d’incenso.
Eravamo particolarmente curiosi di vedere la formazioni di Atlanta sul palco, specialmente dopo l’ultimo buon “Black Flame Eternal”, e dobbiamo dire che le nostre aspettative sono state soddisfatte: quello proposto dai nostri è un buon mix di riff urticanti, nera violenza black metal e melodie con quel gusto rétro a metà tra primi Tribulation, Dissection e i Vampire svedesi, declinato dal vivo con quella sicurezza propria di chi ha macinato un bel po’ di date dal vivo – d’altronde, i nostri sono stati in tour tra America ed Europa per buona parte di quest’anno.
Nonostante dei problemi passeggeri al suono delle chitarre e basso e un pubblico davvero esiguo, i Cloak non sembrano farsi molti problemi e prendono a schiaffi chiunque con un’ottima attitudine belligerante: la voce di Scott Taysom sembra scappata via da qualche cerchia dell’inferno, e brani come “In The Darkness, The Path” (dal primo disco) o la più recente “Seven Thunders” rivelano una vena ancora più aggressiva dal vivo, pur mantenendo intatto l’afflato miasmatico alla base, dimostrando la volontà del gruppo di puntare più sulla sostanza della propria musica – ovvero una cattiveria da fabbri ferrai – che sulle scenografie d’atmosfera.
Onesti, quadrati e irrequieti: non potevamo chiedere di meglio per cominciare la serata. (Sara Sostini)
Archiviata la prova dei Cloak, è quindi la volta dei GHOST BATH, band che chi scrive assocerà sempre all’improbabile tentativo di fingersi cinesi messo in atto qualche anno fa, forse nel tentativo di dare una connotazione ‘esotica’ al proprio moniker e di attirare su di sé gli sguardi del pubblico metal.
Freschi dal rinnovo di contratto con Nuclear Blast e da alcune date statunitensi di spalla ai Dark Funeral, i cinque si presentano sul palco piuttosto rodati, tanto che – da un punto di vista strettamente esecutivo – non ci sentiamo di criticarne gli sforzi o la capacità di restituire fedelmente le trame dolciastre alla base di dischi come “Moonlover” e “Starmouner”, anche se le cose (senza troppi colpi di scena) cambiano nel momento in cui l’attenzione si sposta sull’effettiva forza del repertorio, fin troppo derivativo, generico e scolastico per impattare sull’economia della serata.
Non vorremmo essere troppo severi, ma quello del gruppo guidato dal cantante/chitarrista Dennis Mikula è fondamentalmente un rip-off dello stile esploso con i Deafheaven di “Sunbather” e coltivato negli anni, con destinazioni diverse, anche dai vari Alcest, An Autumn for Crippled Children, Novembre e Woods of Desolation, ma che arranca nel tentativo di replicarne l’intensità e l’espressività, suonando appunto come la versione ‘beta’ dello stesso.
Un flusso slavato e – alle nostre orecchie – poco spontaneo, che sottolinea più che altro le intenzioni di una band più interessata a seguire un trend specifico (quello blackgaze di qualche tempo fa) che a dare un taglio personale alla propria musica, e che dietro una presenza scenica disinibita (il bassista Josh Jaye, in particolare, si muove come se stesse affrontando uno show hardcore) non sembra abbia granché da offrire in termini di riff e melodie vincenti. (Giacomo Slongo)
Di tutt’altra pasta – ma già lo sapevamo – lo show degli UADA, vera e propria macchina da tour giunta alla seconda calata europea nell’arco di pochi mesi, e che forte di una compattezza ormai inaudita impiega una manciata di secondi per ricordare ai presenti i motivi che le hanno consentito di diventare un nome di prima grandezza nello scenario (melodic) black metal mondiale.
D’altronde, in un panorama dove spesso, dietro l’apparenza dell’immagine e i proclami scritti sui social, si cela ben poca sostanza, il quartetto dell’Oregon continua a distinguersi per un’etica lavorativa difficilmente attaccabile, in cui il suddetto ruolino di marcia garantisce delle performance a dir poco impressionanti in termini di affiatamento, precisione e trasporto, fatte di tanta concretezza e poche stronzate.
Priva di backdrop o altre decorazioni sul palco, immersa come di consueto nel fumo e in luci dai toni biancastri, la creatura del cantante/chitarrista Jake Superchi torna nel Vecchio Continente per festeggiare il decennale di carriera, scegliendo giustamente di partire con “Natus Eclipsim”, opener dell’esordio “Devoid of Light”: sei minuti che, come dicevamo, fanno subito capire come questi musicisti suonino certe trame in automatico, sulle ali di una memoria muscolare acquisibile solo dopo centinaia di date live alle spalle, per una corrente di urla, riff e ritmiche tanto armoniosa quanto feroce e in grado di innescare una reazione fisica in coloro che assistono.
Man mano che ci si addentra nella setlist della band statunitense, complice la sua scelta di eseguire i brani (quasi) senza pause, si ha quindi l’impressione di venire risucchiati da una sorta di flusso di coscienza: un fiume in piena dove la scuola degli anni Novanta (Dissection) si fonde senza sotterfugi a quella affermatasi nell’underground contemporaneo dopo il successo dei Mgła, riuscendo tuttavia a scorrere in una direzione puntualmente fresca, ingegnosa e personale, oltre che inesorabile nei suoi crescendo ritmici e melodici.
Un episodio del calibro di “In the Absence of Matter”, del resto, parla chiaro, e anche stasera può essere visto come il manifesto di una formazione che non è arrivata dove si trova per caso.
Veramente una gran data. (Giacomo Slongo)
CLOAK
GHOST BATH
UADA