A cura di Giovanni Mascherpa
E venne il giorno. Venne il giorno in cui Ulcerate, Wormed, Gigan, Solace Of Requiem e Départe arrivarono al Lo-Fi e gli fecero prendere il volo, portando i presenti tra galassie inesplorate, supernovae, pianeti sconosciuti, forme di vita aliene terribili e bellissime, buio denso e luce accecante. E ancora: il giorno in cui cinque gruppi riuscirono a farci vedere colori mai visti, toccare una materia che non è di questo mondo, grazie a suoni che non credevamo potessero essere riprodotti con tale precisione e maestria su di un palco. E’ vero, vi stiamo già svelando quello che è successo, mentre dovremmo semplicemente presentarvi le “squadre” scese in campo. Però facciamo fatica, a mente fredda, a darvi un resoconto asettico di quanto andato in scena nella venue meneghina. Perché quella di mercoledì 3 dicembre è stata una di quelle serate che riconciliano col mondo, che rimettono tutto a posto e infondono una fiducia smisurata nella forza immaginifica ed evocatrice della musica. Cinque band, da quattro stati diversi in rappresentanza di tre continenti, hanno dato vita a un’ineccepibile rappresentazione di cosa significhi suonare death metal ultratecnico nell’anno 2014. Ognuna con la sua personalità, le sue idee, i suoi disegni mentali e i suoi bisogni espressivi. E’ stato uno di quei concerti dove le separazioni tra gruppi di apertura ed headliner sono andate bellamente a farsi benedire, perché se è vero che gli Ulcerate sono ad oggi, con sacrosanto diritto, uno dei nomi di punta della scena estrema più versatile e visionaria, non riusciamo a considerare inferiori, di partenza, le altre formazioni che hanno buttato l’anima al Lo-Fi. Saranno state cinquanta-sessanta le persone presenti, e crediamo che abbiano benedetto in cuor loro la scelta di essersi schiodati da casa per un evento del genere. Pazienza se poi siano tornate a casetta propria molto tardi, con il bis degli Ulcerate conclusosi abbondantemente oltre l’una. Sappiamo tutti che ne è valsa la pena.
DÉPARTE
Confessiamo che non c’eravamo accorti che ci sarebbero stati anche loro, i Départe. Non erano stati annunciati nelle prime news, sul manifesto del tour sono scritti in piccolo, e così ce li siamo trovati davanti all’ultimo, quando negli orari è comparso il loro monicker. E l’orario d’inizio previsto per le 21. Visto che perderci band a noi sconosciute ci irrita, e abbiamo sempre paura di aver defalcato l’ennesima rivelazione divina, alle nove meno qualche minuto siamo all’ingresso del Lo-Fi. Dopo, benediremo la nostra puntualità. Infatti il quintetto australiano, per ora fuori soltanto con un demo di due brani, edito appena prima di iniziare il tour, ci mette poco a farci venire l’acquolina in bocca. La musica va a scomodare immediatamente l’ingombrante paragone con gli headliner, arrivandoci addosso in torrenziali saliscendi, densi di filler, dissonanze, strappi assassini e galleggiamenti in un mare nerastro di cui non si vede il fondo. Le ascendenze “post” saltano fuori un po’ dappertutto, nell’attenzione maniacale per le stratificazioni di suono come nella ricercatezza delle atmosfere, opprimenti e sinistre, cinematografiche e graffianti. Il cantante barcolla in trance mentre si destreggia in un rantolo tra il growl e l’urlato alla Johannes Persson, per poi passare a clean vocals molto più personali e bagnate da una buona estensione e un’interpretazione teatrale veramente ottima. Le poliritmie del batterista inondano di una spropositata ricchezza ritmica ogni composizione, senza lesinare in foga e propulsione; sarà un leit-motiv non solo dell’esibizione degli australiani, ma un po’ dell’intera serata, perché i drummer di stasera meriterebbero ciascuno l’accensione di un cero in un tempio a vostra scelta, di un credo sempre a vostra scelta, per quanta inventiva e destrezza sono stati in grado di veicolare sul loro strumento. Le parti più ossessive e battenti ci riportano agli anni furenti dei Neurosis di “Times Of Grace” e “Through Silver In Blood”, mentre le partiture più ariose strizzano l’occhio ai Nero Di Marte di “Derivae”, assestandoci vibrazioni pungenti e piacevolissime. I Dèparte sono la classica band in rampa di lancio: hanno talento, hanno avuto l’onore di far parte di un cartellone tanto pregiato come quello di questo tour, ora devono solo riordinare e implementare le idee in vista del primo full-length. Siamo sicuri che non ci deluderanno.
GIGAN
La domanda è: come hanno fatto a inventarsi una roba del genere? Va bene la sperimentazione, la velocità, l’assurdo, la follia, la ricerca della novità e del mai sentito, eppure non riusciamo a farcene una ragione. Il combo di Chicago sembra sentenziare: qua finisce l’umanità e inizio io. Io, Gigan, la creatura onnipotente e onnisciente che fa sembrare lenta la luce, la ridicolizza e la guarda con compatimento. Con tre dischi all’attivo, uno più scompostamente e intelligentemente scellerato dell’altro nel perseguire il superamento dei limiti mentali e concettuali degli umani, i Gigan sono una creatura che semina terrore. Death metal è un nome pronunciato soltanto per rassicurarsi, per credere che tutto sommato la proposta degli americani appartenga alla normalità. Invece no, spiacenti, quella della band di Eric Hersemann è la deflagrazione del metal estremo in un big-bang di suoni inconcepibili e sparati in dosi di migliaia di note al secondo, con la sequenzialità e la precisione di una mitragliatrice dell’anno 4000. Ovvero, un marchingegno che non possiamo nemmeno pensare quali forma e potenza possa avere. Rispetto a tutti gli strumenti utilizzati in studio, Hersemann deve fare a meno di tastiere e xylofono, mentre campeggiano sullo stage un sempre affascinante theremin e una pedaliera piuttosto ingombrante, anche se di per sé questi elementi spiegano solo in parte il turbine creato con la sei corde. Il resto sta tutto nelle mani e nel cervello di questo musicista dall’apparenza strampalata, al limite del clochardesco, uno con l’espressione trasognata del genio con la testa perennemente tra le nuvole, così preso dalle proprie creazioni da dimenticarsi di tutto ciò che gli sta attorno. Per potere immaginare a grandi linee lo stile chitarristico del nostro eroe, dobbiamo pensare a una calibrazione della psichedelica space più avanguardista sugli scenari più deragliati che il death metal abbia concepito, con una doverosa infusione nel Piggy-style voivodiano. Ovviamente, il composto venutosi a creare viene accelerato, poi ancora accelerato, centrifugato e poi accelerato l’ennesima volta. Non riusciamo a staccare gli occhi di dosso da Eric, la sua mano sinistra – il ragazzo è mancino – tende a scomparire durante le continue peripezie a cui sottopone lo strumento, divenuto un’arma letale di un’armata di invasione intergalattica. I suoi tre compari non sono da meno, in particolar modo l’allucinante batterista Nate Cotton, che si diletta in partiture frenetiche e stortissime senza mai, ma proprio mai, indulgere in pattern vagamente lineari. Un cantato isterico e brutalissimo e un bassista coi controcosiddetti completano il quadro di una mezz’ora fuori da ogni ordine e disciplina, meravigliosamente indimenticabile.
SOLACE OF REQUIEM
Arrivare sul palco pochi minuti dopo l’ondata di piena dei Gigan non è un compito semplicissimo, ci vuole un certo spessore per reggere il confronto e non risultare piatti e banali al cospetto dell’alienante pandemonio appena udito. I Solace Of Requiem, però, non sono stati inseriti per caso nel pacchetto offertoci stasera: sono quattro elementi abilissimi nel tessere trame nevrotiche e vorticose, incapaci come chi li ha preceduti di esser banali o troppo prevedibili. Certo, appaiono più facili e identificabili, prosaicamente death metal senza ulteriori annessi e connessi, ma sono tutto fuorché un gruppo mediocre. I ragazzi, non di primo pelo, sono in giro dal 2001 e con il recentissimo “Casting Ruin”, edito ad agosto per ViciSolum Productions, hanno sfornato il quarto album in carriera; gente di esperienza quindi, e anche di discreto humour e bonomia. Il cantante/bassista Jeff Sumrell si presenta con uno squillante bestemmione in italiano e chiama immediatamente a raccolta i convenuti, che rispondono con maggior ardore e partecipazione rispetto alle performance precedenti, adatte piuttosto a un ascolto attento e assorto. I Nostri non derogano comunque a contorsioni e mitragliate fitte di piccoli dettagli e finezze strumentali, che coinvolgono un po’ tutti e quattro i musicisti. Fulminanti sventagliate grind si accostano a un’indole omicida quasi brutal, in cui riecheggiano scampoli di tecnica death alla canadese e vecchio death/grind a stelle e strisce, mentre variegate e ammalianti melodie di sottofondo hanno il compito di rendere più digeribili i contenuti dei singoli brani. Alcuni stacchi massicci e relativamente quadrati portano ai primi accenni di headbanging all’unisono tra il pubblico, infervorato a più riprese dal calorosissimo Sumrell, un frontman che gode dell’invasamento di chi ha di fronte e mostra di buon grado il suo divertimento, senza nascondersi dietro pose da spaccone. I rapidi e difficili assoli di chitarra e i controtempi della batteria esaltano a più riprese l’audience, le canzoni poi hanno tutte un grado di assimilabilità inaspettatamente alto per quanto sono elaborate, e quindi anche i Solace Of Requiem si guadagnano una promozione a pieni voti.
WORMED
Entriamo in zona marcia con i madrileni Wormed, combo che negli ultimi anni si è guadagnato una posizione di primo piano nello scacchiere brutal death/grind europeo, grazie all’ultimo lavoro in studio “Exodromos” e a performance dal vivo altisonanti. I connotati sonori cambiano, assumendo le rivoltanti sembianze del brutal death a stelle e strisce, misto a un approccio grind contorto e tecnologico, una specie di evoluzione in senso futurista di Devourment e Disgorge, con un tocco di psicosi alla Cephalic Carnage. I quattro sono bravi a rimestare nel triviale e nel torbido, concedendo passaggi slam accanto a momenti più dinamici ed imprevedibili, marchiati a fuoco dal chitarrismo storto e spezzettato di Migueloud. Il quoziente intellettivo messo in campo è piuttosto elevato, permette di proporre pezzi aggrovigliati ma molto coesi, che a tratti rimandano a un death/grind classico e basilare, suonato con la forza d’urto dei campioni del genere, e più spesso regalano piccoli azzardi ritmici, stacchi rapidissimi e sfaccettati, gestiti con ottimo gusto dal piovresco batterista G-Calero. Il cantato è una fogna a cielo aperto, Phlegeton insiste maniacalmente sul pig squeal, con una espressività in questo tipo di linee vocali decisamente apprezzabile, tanto da risultare digeribile anche a chi, come il sottoscritto, riesce a sostenerlo normalmente solo a piccole dosi. Un’asettica voce femminile campionata, evocatrice di freddi scenari fantascientifici, introduce i singoli brani, aggiungendo stranezza a una proposta che, come per i Solace Of Requiem, per alcuni punti di vista è perfettamente inquadrabile, ma per altri sfugge completamente al nostro controllo e alla nostra comprensione. Il modo di porsi della band non concede chissà cosa all’intrattenimento, traspaiono però la disinvoltura e la sicurezza di chi ha nel palco la propria seconda dimora e percepiamo inoltre la pericolosità di chi, con lo strumento in mano, ha il potenziale distruttivo di un kamikaze. Anche in questo caso, pur non essendoci propriamente un clima da torcida, visto il basso numero di spettatori e una tipologia di pubblico più calma della media di un usuale evento death metal, cogliamo un certo apprezzamento per i Wormed, che confermano anche al Lo-Fi di essere entrati tra le realtà di alto livello del metal estremo europeo.
ULCERATE
Gli Ulcerate non sono più degli outsider, questo è ormai chiaro da un po’ di tempo, almeno dalla pubblicazione di “The Destroyers Of All”. Sono dei leader, che guardano negli occhi i nomi di punta del metal estremo d’avanguardia, quello che traccia nuove strade invece di seguirle pedissequamente. Anche quest’anno i tre neozelandesi hanno calcato palcoscenici importanti, citiamo su tutti il Maryland Deathfest e l’Hellfest, ma crediamo che un contesto raccolto e intimo come quello del Lo-Fi accresca il sensazionalismo della loro musica, aiuti ad apprezzarne interamente la carica emotiva solenne, che si accompagna a una distruttività degna del death metal più travolgente. Neri e alteri sono gli Ulcerate, una band capace di andare in profondità nel concetto di post-metal, cavandone fuori i significati e gli umori più alti, allestendo un universo sensoriale sterminato e professando al contempo un’adesione piena e convinta al verbo death metal crudo e ferale. La dimensione live ingigantisce le qualità apprezzate su disco, la perfezione delle architetture è più manifesta, orgogliosa e tracimante su un uditorio che pende letteralmente dagli strumenti. Le scelte di luce sono meravigliose nella loro semplicità: basse, quasi assenti, se non fosse per tre fari rossi direzionati sui musicisti, a bucare il nero indistinto e a dare una mano dal punto di vista visivo all’immersione nell’oscurità multiforme che è l’habitat naturale dei ragazzi di Auckland. La batteria del geniale Jamie Saint Merat è ovviamente sovrastante il basso e la batteria, ma c’è equilibrio in questa scelta, armonia, e non possiamo dire che le performance comunque sopra le righe degli altri due strumentisti vengano soverchiate dal ricchissimo lavoro dietro i tamburi. Dissonanze si alimentano con altre dissonanze, plumbei e squassanti riff si susseguono per erigere muri di suono in frenetica evoluzione, aggredendo da più parti le nostre orecchie e strappandoci sensazioni di ammirazione e incredulità dinnanzi alla fedele riproposizione di canzoni già leggendarie come “Dead Oceans” o “Caecus”, incastonate fra gli estratti di “Vermis” e capaci di portare su nuovi livelli di godimento la musica dei Nostri. Sui brani provenienti da “The Destroyers Of All” ed “Everything Is Fire” emergono prepotenti atmosfere sofisticate e vastissime, si sfiora in alcuni punti l’idea di soundtrack, ma si tratta di sfumature all’interno di un concerto di caratura assolutamente sensazionale, eguagliabile per intensità, finezza e durezza solo da una minuscola percentuale di nomi del metal estremo moderno. I musicisti assecondano nei movimenti il moto oscillatorio della musica, mantenendo un controllo della situazione tipico di chi ragiona su ogni passo, su ogni gesto, e non si lascia andare eccessivamente all’istintività. Ciò mantiene un’aura quasi mistica attorno al gruppo, e l’apprezziamo. Quando qualcuno sta già lasciando la sala, a giochi apparentemente chiusi, arriva l’ultima chicca, con un’annichilente “Confronting Entropy” che manda tutti a nanna dopo poco più di un’ora dall’inizio delle ostilità. E’ quasi l’una e mezza, la stanchezza dovrebbe piegarci le gambe, eppure ci sentiamo freschi e rivitalizzati…
Setlist:
Clutching Revulsion
Dead Oceans
Caecus
Weight Of Emptiness
Cold Becoming
Await Rescission
Everything Is Fire
Confronting Entropy