Li avevamo visti già tre anni fa, sempre al Circolo degli Artisti pieno a metà in quell’occasione per via della concomitanza di un altro concerto di metal estremo. Ma gli Ulver però non suonano metal estremo direte voi, e giustamente. Ma sono estremi. E contano ancora su una base di fan legata indissolubilmente al metal estremo. Certo, ci sono nuovi volti a vedere i loro show; facce giovani, molte ragazze, gente che non ha il metal nel background musicale e che magari ha imparato a conoscere questo gruppo solo nelle ultime evoluzioni, ignorando la biografia di questi norvegesi maestri nel cambiare la loro musica album dopo album. Questa sera però – organizza la Electric Priest – la sala è piena, piena zeppa e si popola di gente che traccheggia nel giardino antistante la sala acustica non appena si conclude il posticipo di campionato che vede impegnata la squadra della Capitale, la Roma. Il calcio in Italia, si sa, ha potere di incidere su tutto, finanche sull’ora di inizio dei concerti. Vi raccontiamo quindi della loro prestazione ma soprattutto della loro nuova evoluzione: quando pensavamo infatti di conoscerlo bene, ecco che il gruppo ci ha stupito ancora una volta.
Gli Ulver che conoscevate voi non esistono più. Sono cambiati ancora. No, ovviamente non ci riferiamo agli Ulver di “Bergtatt” e di “Kveldssanger”, quelli non esistono più già da tempo immemore. Avevamo imparato ad amare la nuova evoluzione musicale di Kristoffer Rygg, “Garm” per i vecchi amanti del black metal. Quella loro nuova dimensione decadente e malinconica che esplora nuovi sentieri musicali, dimenticandosi dei vecchi percorsi e del vecchio modo di scrivere musica secondo gli schemi facili usati dai più. Oggi invece gli Ulver sono cambiati, di nuovo. Hanno abbracciato una dimensione ancora più progressive, sperimentale, alla ricerca di suoni dal risvolto catartico. Quando salgono sul palco si accende il videowall che fa da sfondo ai musicisti; si nota subito la doppia batteria e l’eleganza di Tore Ylwizaker dietro le tastiere, con camicia cravatta e gilet d’ordinanza. Suoni di campane campionati e protratti fino a diventare una quasi insopportabile nenia aprono lo show, prima che questa frustrazione creata dall’intro sfoghi in “England”, pezzo fra i più belli degli ultimi Ulver. Rygg usa bene la sua voce, meglio che nell’esibizione di due anni fa. Quando si pensa che il concerto prenda la piega classica, ecco invece che la scaletta devia verso pezzi strumentali come “Dressed In Black” da “Blood Inside”, seguita da “Glamour Box (Ostinati)”, estratto dell’ultimo lavoro “Messe I.X-VI.X”. Sul videowall si alternano scheletri danzanti, volti di film anni ‘50, paesaggi immaginifici popolati da scimmie nel mezzo di strane azioni. Posizionati nel dietro del locale dagli ottimi suoni, possiamo ammirare una platea ammutolita e immobile, i cui sensi sono stati rapiti dalle sequenze musicali dei Lupi norvegesi. Si vive ogni singola canzone in apnea, nella massima concentrazione perché, come il canto delle sirene ammaliò Ulisse, ora gli Ulver tengono prigionieri gli ascoltatori della loro performance. Da “A Quick Fix Of Melancholy” arriva “Doom Sticks”, ma tutti i pezzi sono allungati, arrangiati diversamente e più corposamente, forse più compiutamente secondo il loro nuovo percorso. Alcuni rimangono interdetti da questo sperimentalismo senza confini: sembra che i Nostri non abbiano spartito ma partano da un motivo e su questo ricamino per diversi minuti, rubandosi la scena vicendevolmente. Arriva “Tomorrow Never Knows” da “Perdition City” per trasportarci nel futuro, in una dimensione musicale dominata da beat e campionamenti prima che Rygg torni a farci sentire la sua ugola su “Nowhere/Catastrophe”, estratto sempre dal medesimo album. Le atmosfere create sono magnifiche ma di difficile assimilazione per chi è rigido a livello di schemi mentali musicali, anche per chi ha amato gli ultimi lavori degli Ulver. Dopo il break i Nostri tornano con un pezzo dai contorni apocalittici, che lascia gli astanti un minimo di brio nelle ritmiche. Siamo ai limiti della discoteca. Questi sono gli Ulver di oggi e c’è da chiedersi – ma questo discorso era valido anche prima – come mai fan di nero vestiti, ricoperti di borchie e di loghi di band fra le più truci nel metal, continuino a partecipare agli show degli Ulver. Prospettammo a Rygg, nell’intervista di qualche mese fa, che la vecchia base di fan avrebbe continuato a seguire il gruppo per via della qualità intrinseca della loro musica, sebbene stravolta dagli esordi. Lui annuì, disse che avrebbe potuto essere così. Forse è così, e noi ci iscriviamo a questo partito.