A cura di Giovanni Mascherpa
Conclusa l’esperienza del Kill-Town Death Fest, defunto dopo due edizioni il Wolf Throne Festival, era necessario che qualcuno si inventasse un nuovo happening per quei pochi, facinorosi, devoti al death metal più cupo e anticommerciale vi sia in circolazione. La responsabilità se la sono assunta i titolari di Invictus Productions e Dark Descent Records, due delle label più autorevoli in materia di metal estremo di qualità, lontane da logiche di mero profitto e attente soprattutto a qualità e integrità degli artisti promossi. Sotto l’egida di queste case discografiche è passato e passa tutt’ora molto del miglior extreme metal uscito dall’underground negli ultimi anni, per cui quando si è sparsa la notizia di questa prima edizione dell’Unconquered Darkness, si è capito in fretta che l’evento non avrebbe deluso le attese. La line-up, scontata la defezione dei disciolti Maveth, ha messo in fila alcuni dei principali esponenti dello scenario death metal contemporaneo, comprendendo solo alcune lievi violazioni al canovaccio stilistico, all’interno di un festival con un numero di presenti contenuto – fra le cento e duecento unità, ad occhio e in assenza di criteri di valutazione affidabili – all’interno di un locale, il Voodoo Lounge, lungo e stretto, disadorno, dotato di un palco piccino e di impianto audio assolutamente valido. Una venue sulle rive del fiume Liffey di Dublino, posta in una zona di uffici praticamente deserta nel fine settimana. A pochi passi dal centro della capitale irlandese, è sembrato di stare in un altro mondo, quale del resto è quello di chi segue certe sonorità oppressive, disagevoli, poco digeribili per chi non vive immerso nelle atrocità più scabrose che la musica metal oggi regali. Tre giorni di manifestazione prevedeva il programma, del quale noi abbiamo saltato il primo, a ranghi ridotti (solo quattro esibizioni in cartellone), concentrandoci su sabato e domenica. Dalle quattro del pomeriggio alla mezzanotte passata, siamo stati abbondantemente seviziati da una vasta gamma di approcci alla materia death metal, venendo investiti da prestazioni incandescenti e variopinte di tutti le sfumature del rosso sangue, oppure semplicemente martellanti e ignoranti. Molti i concerti da ricordare, pochi quelli trascurabili, mentre come contorno ci si è potuti alleggerire il portafoglio ai banchi di cd, vinili e magliette allestiti dalle label organizzatrici e dalle band stesse. Tutto è filato liscio, nulla è stato lasciato al caso, l’unico aspetto su cui possiamo avere da ridire è che bisognava per forza uscire dalla Voodoo Lounge per mettere qualcosa sotto i denti, costringendo a dolorose scelte in serata su quale gruppo sacrificare a favore della propria cena. A parte questo, non abbiamo nulla da imputare all’organizzazione. Speriamo allora che l’Unconquered Darkness abbia un seguito e diventi un punto di riferimento certo per i death metaller a ogni latitudine e longitudine dell’Europa: è importante che certi suoni di culto abbiano un punto di riferimento festivaliero designato, e non si trovino orfane di location degne in cui essere professate.
OBSCURE BURIAL
Chiamati a dare il là alla seconda giornata del festival, gli Obscure Burial la mettono abbastanza in fretta sulla caciara, finendo per accaparrarsi senza troppi problemi la palma di gruppo più trascurabile del lotto. Spiace essere così trancianti, l’impegno e la dedizione alla causa da parte dei quattro finnici non è assolutamente in discussione e se li dovessimo giudicare soltanto dal punto di vista dell’attitudine e della foga, si porterebbero a casa promozione piena e bacio accademico. Però, guarda un po’, ci sarebbe anche la musica, e qui le cose vanno meno bene. Non sappiamo se i volumi fuori controllo siano dovuti all’imperizia del fonico – fattore che in un primo momento fa scorrere un brivido di terrore sulla schiena di chi scrive, al pensiero di come sarebbero proseguiti pomeriggio e sera – certo è che non si capisce quasi nulla di quanto viene suonato, complice uno stile che definire caotico è un eufemismo. Come tanti, troppi di questi tempi, gli Obscure Burial incanalano le proprie voglie oltranziste in un miscuglio poco curato di Slayer, Sodom, Celtic Frost, primo death svedese, Slaughter e Possessed, cadendo preda della frenesia e curandosi quasi nulla di dinamiche e ordine nella scrittura. Ne viene fuori una performance per una buona prima metà al limite dell’inascoltabile, nella seconda sopportabile ma caratterizzata da brevi momenti gradevoli – quelli aventi un nostalgico taglio alla Slayer d’annata – in un mare di scontatezza. Il pubblico, ancora abbastanza sparuto, applaude più per solidarietà che altro, anche se non mancano i soliti invasati dell’underground per cui basta un po’ di casino blasfemo per apprezzare un concerto. Per quanto ci riguarda, pollice verso agli Obscure Burial. In vista di una prima pubblicazione ufficiale – per ora si contano solo un paio di demo – serve alzare di prepotenza il bagaglio tecnico/compositivo. Altrimenti, siamo già al capolinea.
HEAD OF THE DEMON
Non ci azzeccano quasi nulla col resto del programma. E sono anche uno dei migliori gruppi ascoltati a Dublino. Gli Head Of The Demon hanno fatto parlare di sé in ambito underground grazie a un esordio omonimo, rilasciato nel 2012, dai suoni scabrosi, ruvidi, poco compiacenti alla fruizione, emananti un’aura di insondabile antichità. Un concentrato di death-black rallentato e cerimoniale, che poteva scomodare quale unico termine di paragone i Triptykon di sua maestà Tom G. Warrior, tale ne era il portamento marmoreo, grigiastro e permeato di una strana calma, così in contrasto con le convulsioni degli altri ensemble presenti all’Unconquered Darkness. Proprio nel giorno in cui stanno suonando alla Voodoo Lounge è in uscita presso Invictus il nuovo “Sathanas Trismegistos”, da cui vengono tratti tre brani della scaletta, e ci accorgiamo che quasi nulla è – fortunatamente – mutato in seno alla formazione. L’idea di un suono strettamente imparentato al doom più dannato e riflessivo è rimasta attuale, o meglio, anacronistica, fuori dal tempo. Una batteria secca e intimidatoria pone le fondamenta ad ampie volute di un extreme metal crudo, vissuto, sudato, dove ogni nota ha un significato sconfinato, la malignità circuisce sommessa, invece di aggredire. Il rauco urlare di Johannes è il tratto più efferato di una musica per lunghi tratti sospesa nel vuoto, ipnotica e definitiva, sgocciolante angoscia e paura per un tempo che pare infinito. Rare e ben orchestrate le accelerazioni, gli Head Of The Demon denotano acume compositivo e sensibilità nell’architettura complessiva; limitate le mosse dei musicisti, come ridotte al lumicino sono quelle di chi osserva questo insolito spettacolo. A dire il vero, il grosso dei presenti sembra non capacitarsi di avere davanti una band così slegata dal leitmotiv generale, tanti si allontanano dopo i primi minuti di esibizione e anche chi resta appare perplesso. Peccato, perché per conto nostro i quattro svedesi hanno dei gran numeri a disposizione e sanno comunicare senza indugi tutti i pregi della propria arte anche su di un palco. Mosca bianca.
QRIXKUOR
Dalla sottile tensione superficiale degli Head Of The Demon passiamo al baccanale infernale degli Qrixkuor. Ci spostiamo in Inghilterra, in una Londra sotterranea che negli ultimi anni sta saziando gli appetiti di death luciferino con gradita puntualità. L’incappucciato quartetto presenta il nuovo ep “Three Devils Dance”, suonandolo da cima a fondo. Tre tracce, lunghissime, sterminate, quasi illogiche visto il carico di violenza perpetrato per così tanti minuti. Il combo anglosassone unisce in un abbraccio mortale le inintelligibili esplorazioni del buio di Portal e Irkallian Oracle a una verve più diretta e affilata, alla Slayer di “Hell Awaits”/”Reign In Blood”. Un’esecuzione spiritata vede la band avanzare in intrecci strambi e tentacolari, mantenendo sempre salda la presa e dando costantemente l’idea di poterci polverizzare con la sola forza della propria musica. Gli assoli si dipartono in ogni dove, in impulsive cascate di note che richiamano i duelli di Hannemann e King, anche se qua il contesto è più allucinato e straziante. Il sovraccarico di input è ai limiti della sopportazione ma, dato un assestamento dei suoni già a partire dal gruppo precedente su ottimi livelli di nitidezza e su volumi assassini ma non fastidiosi, si può apprezzare tutto quanto senza alcun problema. La nomea di questi ragazzi sembra già notevole all’interno della piccola cerchia di avventori qui presenti, la loro esibizione sarà quella seguita con maggior interesse e partecipazione nei due giorni cui abbiamo presenziato. Qualcuno azzarda del mosh, e qualcun altro gli va dietro con piacere, mentre il resto dei partecipanti si massacra di un headbanging francamente non controllabile. Coi Qrixkuor, come accade per pochissime altre entità in circolazione, si ha la palpabile sensazione che chi è on-stage possa scendere dal palco e passare all’aggressione fisica, tanto forte è il senso di minaccia percepito. Impressionanti.
ANGUISH
Altro brusco cambio di scenario quando viene il turno degli Anguish. Probabile che se non fossero accasati presso Dark Descent i doomster svedesi non sarebbero stati chiamati, visto che frequentano suoni decisamente più melodici delle altre band in programma. A giustificare l’inclusione nel running order, l’energia immessa appena calcano lo stage, davanti a un numero di presenti diradatosi vistosamente rispetto al massacro dei Qrixkuor. La densità delle ritmiche e il loro dipanarsi relativamente quieto soddisfa le voglie di parziale rilassamento, siamo nei territori dei Candlemass, rimembrati forse con fin troppa dovizia di particolari e limitando al massimo le incursioni fuori dal riffing marchiato al tempo dalla coppia Björkman-Johansson. Più aspre le vocals, appannaggio del rauco latrare di J. Dee, sgraziato ma efficace nell’affrontare linee vigorose, che aizzano gli animi di quei pochi presenti di fronte al gruppo. Il cantante ha il suo bel daffare anche nel cercare il supporto degli astanti, trovando invero una risposta abbastanza tiepida. Le buone doti di performer fanno dimenticare una certa staticità delle singole composizioni, infiocchettate da assoli di apprezzabile levatura. Non si percepiscono grandi attimi di esaltazione durante l’intero set, ma c’è da dire che gli Anguish non mostrano nemmeno il fianco a critiche particolari e tutta la generosa veemenza buttata sul piatto alla fine qualche scuotimento lo provoca. Positivi, in poche parole, anche se con qualche limite da limare il prima possibile.
ZOM
Non ti fracassano il collo perché forse sarebbe eccessivo anche per loro. Non ti strappano via la carne dalle ossa per puro miracolo, e forse dovresti anche ringraziarli. Gli ZOM affrontano il concerto con l’eleganza di un macellaio sotto anfetamine che, volendo dilettarsi con esseri diversi da animali già belli che morti, preferisce accanirsi su ignari esseri umani al suo cospetto. Chiunque abbia ascoltato anche solo una volta “Flesh Assimilation”, primo album del trio dublinese dato alle tenebre presso Invictus a novembre del 2014, sa cosa aspettarsi. Soltanto che la dimensione live libera oltremisura la componente animalesca e d-beat di questi criminali, ne orienta le scelte di approccio nel verso di una scellerata aggressione, tramortente e sopra le righe anche per ambiti così estremisti come questo. Bassista e chitarrista calpestano il palco a passo disordinato, in preda a probabili turbe psichiche che gli fanno vedere nemici ovunque; strattonano i rispettivi strumenti in impulsi selvaggi, estraendone un suono disumano, grosso e tumefatto, un obbrobrio di ruvida potenza fagocitante tutto ciò che vi è in prossimità. Prendete i blocchi di nero terrore di Doom e Discharge, impastateli con thrash, death e black e avrete un’idea sommaria di cosa sia l’esperienza-ZOM. Una babele di sferragliate intense, purulente, massicce, scattanti e inclini all’orgia di suono più dissoluta, condotte con un’isteria più simile a quella di un’esibizione grindcore o punk, piuttosto che death metal. Le facce stralunate degli interpreti mutano di espressione fra il delirante, il rancoroso, lo psicotico, lasciando la malsana sensazione che da un momento all’altro debba accadere qualcosa di funesto, irreparabile. Il movimento nelle prime file non coinvolge molti personaggi, ma basta e avanza per dare l’idea dello sconquasso provocato, perché tutt’attorno c’è da stringersi e mettersi vigili per non essere travolti da cotanta furia. Se il disco già traghettava verso uno stravolgente reame di tempeste ed eccidi, live gli ZOM sprofondano nel torbido oltre ogni ragionevole limite. Da vedere, assolutamente: una di quelle band che per il modo esagitato con cui si pone potrebbe catturare anche gli interessi di chi non si nutre in dosi da cavallo di death-black underground.
ADVERSARIAL
Persi purtroppo i Possession per soddisfare i propri bisogni nutritivi, chi scrive si è riportato in zona palco in tempo per gli Adversarial. Alte le aspettative, a seguito di un’opera death metal in perfetto bilanciamento fra contorsioni e sonore martellate sui denti qual è “Death, Endless Nothing And The Black Knife Of Nihilism”, uscito lo scorso anno per Dark Descent. Questa natura legata al mondo delle tenebre, ma aperta a modi di interpretare il death metal secondo strade più muscolari e old-school, mette la performance dei canadesi sui binari di un massacro biblico, orchestrato guardando da una parte a digressioni chitarristiche isteriche e contornate di assoli adorabilmente stridenti, dall’altro a pattern dritti al punto nonostante un’evidente complessità di pensiero. I musicisti all’opera si rivelano degli ottimi animali da palco, non si nascondono come molti colleghi dietro un cipiglio severo e compiaciuto, piuttosto si lasciano andare a headbanging e pose tutte storte, dovute alla necessità di seguire col corpo i ritmi sfrenati e i vortici di suono allestiti da chitarra, basso e batteria. Il pubblico non si fa pregare nell’andare dietro alle incessanti cariche a testa bassa di cui è vittima, reagisce e si assume l’onere di contrastare con pari energia quanto gli viene rovesciato addosso dalle casse. A tratti, quando la sei corde impazzisce del tutto e i solo prendono la forma di un rumoroso vaneggiare psicotico, si sente la mancanza di una seconda chitarra a dare un po’ di ‘ciccia’ al sound, vuoi anche per una resa dei tamburi sconvolgente: il drummer non sa cosa voglia dire allentare la tensione, anche quando i tempi diventano particolarmente astrusi mantiene un tiro micidiale e non si discosta dalla sua missione di annichilimento. Catacombale il growl, forse il migliore udito in terra d’Irlanda, esibizione in definitiva riuscitissima, così viscerale e vissuta che potrebbe probabilmente essere replicata in contesti meno di nicchia senza rischiare di far fuggire dal ribrezzo gli ignari avventori. Nel blackened death metal, una delle band forse più ‘accessibili’ nonostante le vagonate di schizofrenia offerte.
LVCIFYRE
Alla quarta occasione in meno di due anni che il sottoscritto ha la possibilità di assistere a uno show dei Lvcifyre, si potrebbe pensare che inizi ad appalesarsi un minimo di senso di routine e di prevedibilità. Niente di tutto questo. Osservare i quattro londinesi all’opera fa al contrario venire una voglia insopprimibile di avere altro materiale disponibile da parte loro, di verificare quale possa essere la nuova tappa discografica di un gruppo sempre più terrificante nell’ostentare blasfemia, spietatezza e sfrontatezza. Viene da parlare di ‘metodo Lvcifyre’ osservando come la band si prepara certosinamente per offrire un altro saggio di sonorità infernali, ostentando una volta di più un modo tutto suo di sfoggiare intransigenza e ferocia. Nulla cambia rispetto a quanto visionato di recente fra Kill-Town Death Fest, Wolf Throne e Eindhoven Metal Meeting, in rigoroso ordine temporale: le luci basse, pochi fari rossi a porre in controluce le massicce e inquietanti moli dei musicisti borchiati, il suono denso coagulato in un impasto untuoso mediato fra confusione e un minimo di pulizia, atta a far esplodere i riff con crudeltà. L’intrattenimento non è un fattore di rilievo per il quartetto, basta e avanza la musica, e anche se probabilmente la preponderanza di chi assiste sa perfettamente come si svolgerà l’esibizione, l’atteggiamento generale è quello di grande attenzione e partecipazione. L’efferatezza dei dischi ne esce moltiplicata dal vivo, l’apparenza pericolosa e i giochi di (poca) luce sono ormai un trademark della formazione, che sconta giusto un leggero taglio nel set a causa di ritardi accumulatisi in precedenza. Tolto questo piccolo problema, possiamo parlare dell’ennesima sanguinosa opera di conquista portata a termine da T. Kaos e i suoi compari.
MORPHEUS DESCENDS
A forza di ascoltare compagini funeste, tendenti all’eccesso, torbide all’ennesima potenza e contaminate di obbrobriosa dissolutezza, sentire del ‘normale’ US death metal può essere un’esperienza quasi mortificante. Oppure liberatoria. I Morpheus Descends, la band con più storia alle spalle fra quelle esibitesi il sabato fra le mura del Voodoo Lounge – si sono formati nel 1992 – è tornata in attività soltanto nel 2015 e ha già alle spalle una non esaltante apparizione al Netherlands Deathfest di febbraio. Riportata alla luce dopo tempo immemore, questa creatura di incontaminato death metal newyorkese dimostra in questo caso di saperci ancora fare, inanellando una serie di composizioni magari non brillantissime o chissà quanto personali, però tozze, dure e lerce quanto basta per ingenerare quel sottile sentimento nostalgico tanto caro ai deathmetaller vecchia scuola. Il nuovo cantante Tim Rocheny fa il suo dovere, ben supportato da un manipolo di strumentisti che non spicca per grandi doti tecniche o stile da primi della classe, ma che ha il pregio di essere ognuno funzionale a un disegno complessivo elementare, distintivo, in ultima analisi efficace. Nonostante la stanchezza di ore di death metal dai ben pochi appigli melodici, la reazione dei cultori della materia è apprezzabile: l’unico album pubblicato “Ritual Infinity” è un piccolo classico underground e questo è un fattore determinante in contesti simili per creare scene di piccolo delirio. Certo, la ripetitività e la poca fantasia col passare dei minuti fiaccano la nostra attenzione, anche se nulla si può eccepire in merito all’impegno e alla resa dei Morpheus Descends in terra d’Irlanda. Una discreta chiusura quindi, in una Dublino ignara di cosa stia accadendo in questo spoglio locale a ridosso del fiume.
MALOKARPATAN
Dei buontemponi, più che degli extreme metaller. Gli slovacchi Malokarpatan si presentano con indosso delle stravaganti tuniche rosse, l’aria al limite del disinteressato, gli sguardi fra il divertito e il perplesso. Sembrerebbe che non abbiano neanche una gran voglia di suonare e, francamente, quando attaccano si capisce che non andremo ad assistere a nulla di memorabile. Tolto l’appariscente volto bonario del bassista, rotondo essere sfoggiante degli assurdi baffoni da messicano, non riusciamo a scovare motivi di forte interesse per il quintetto, dedito a un thrash-death, sporcato sporadicamente di black metal, molto povero nei contenuti. A dirla tutta, la semplicità del lavoro di chitarra avvicina i Nostri a un thrash’n’roll cabarettisco molto di maniera, buono per una serata di risate stupidotte fra amici, inconcludente se portato in un contesto di una certa caratura qual è quello dell’Unconquered Darkness. Tolto qualche fan sfegatato, che si scortica di headbanging a ridosso dei musicisti, chi rimane fino al termine del set lo fa più per vedere se le cose possano migliorare in corso d’opera, che non per reale interesse. Le composizioni, pure piuttosto lunghe, appaiono slegate e stantie, piatte, prive di abbellimenti e tirate per le lunghe senza alcuna ragione apparente. Per quello che ascoltiamo nei quaranta minuti disponibili al Voodoo Lounge, non comprendiamo per quale motivo la Invictus se li sia presa a cuore, considerato il livello normalmente ben più alto delle band pubblicate. Passiamo oltre.
LUCIFERICON
Coi Lucifericon passiamo a cose più serie, i quattro hanno un ep in procinto di essere pubblicato (uscito poi il 2 maggio e già disponibile al festival) e, pur avendo una discografia scarna, vantano importanti esperienze nell’underground olandese. Niente di trascendentale, a dirla tutta, però traspaiono rabbia, passione e volontà a sufficienza per portare a casa uno show energico e sanguigno. Thrash-death vecchia maniera è quanto la band ha da offrire, un rozzo miscuglio di primi Slayer, Sepultura, Possessed e Death ai primordi, imperniato su ritmiche concitate e un riffing imbizzarrito. La smodata velocità esecutiva impatta gradevolmente sull’audience, facendone trasparire i primi barlumi di vero coinvolgimento, anche se l’uniformità del songwriting fa calare l’interesse già dopo la prima metà del set. Al contrario del contegno serioso di quasi tutti i gruppi calcanti il palcoscenico dublinese, i Lucifericon denotano una sguaiata voglia di caciara, da veri casinisti legati a un modo di intendere l’estremo molto basilare. Il che non dispiace affatto, la compagine dei Paesi Bassi colma in parte il divario con entità di maggiore talento grazie alla furia esecutiva e al genuino piacere di suonare. Così, porta a casa una sudata ma meritata promozione sul campo.
ANTIVERSUM
Gli Antiversum arrivano ad alzare il gradiente di difficoltà e di pregevolezza artistica di un’ultima giornata di festival iniziata col freno a mano tirato. L’unica pubblicazione rilasciata finora dai giovani svizzeri è un demo di quattro tracce, “Total Vacuum”, accolto con interesse dai cultori di sonorità malate e atmosferiche in un’ottica oltranzista, esplorativa degli spazi profondi, interiori o esteriori che siano. L’esibizione prende in fretta una strada impervia, fatta di ubriacanti saliscendi, svolte improvvise, restringimenti, cambi di pendenza e di terreno. Difficile parlare di semplice death o black metal, i confini strutturali, gli schemi compositivi sembrano concetti labili di fronte a brani-fiume, dalle parvenze quasi improvvisate in alcuni frangenti. Ad alcuni spezzoni lievemente più tradizionali, richiamanti una versione più carnale di Portal o Grave Miasma, si contrappongono bruscamente virate post-black metal/sludge alla Altar Of Plagues, senza che vi sia una deriva netta in questo ambito. Il lavoro di chitarra molto aperto a influenze sludge, doom, noise mette pepe a una concezione del concerto abbastanza sui generis per questi lidi; la voce stessa, pur essendo apparentemente piuttosto tradizionale, si inserisce quale strumento fra gli strumenti, non elevandosi per forza nel contesto e restando a volte in mezzo a quanto viene suonato, senza emergere e connotarsi come ci si aspetterebbe. Il parsimonioso utilizzo della luce pone in una prospettiva spersonalizzata i componenti della band, aumentando il senso di straniamento indotto dalle note. Smarrimento che rimane per qualche secondo a strumenti silenziati, quando il palco riappare secondo la sua normale prospettiva. Non perdeteli di vista, gli Antiversum potrebbero darci grandi gioie in futuro, se questi sono i risultato dopo pochi anni di attività.
SHEOL
È il turno degli Sheol, altro vischioso prodotto del sottobosco londinese, a portare un altro carico di claustrofobica malvagità al festival. Poche pubblicazioni finora – un demo, un ep e uno split – e una prima serie di date live, tra cui quella del WolfThrone di marzo 2015 di cui vi abbiamo narrato ai tempi, che ne hanno confermato un discreto talento nell’intessere trame grumose, asfittiche e ferali secondo metodiche piuttosto tradizionaliste. La prova dublinese accresce le nostre passate buone impressioni, rilevando anche un compattarsi della band attorno a schemi meno caotici e disorientanti del grosso della concorrenza. La scrittura degli Sheol annette senza procedere a forzature gli insegnamenti di Incantation e Morbid Angel, apportandogli giusto quella dose di cupezza ancestrale e di insistenza su ritmi convulsi e strazianti che costituisce il tratto distintivo del blackened death metal attuale. In generale, interessa relativamente la modulazione delle chitarre in un unico tornado indistinto, idea che sembrava emergere in precedenza; ora traspare una maggiore nettezza di vedute, una cura alla valorizzazione del riffing e di dinamiche votate all’impatto, curandosi poco di intrichi ritmici cervellotici e riverberi cacofonici. Rimane una certa uniformità di azione fra un pezzo e l’altro, difetto da limare per salire di considerazione fra gli adepti di questi suoni, ma per quanto riguarda la consistenza della prestazione festivaliera, nulla da eccepire.
KRYPTS
Forza dei riff e songwriting di ottima caratura avvolgono l’operato dei Krypts, dai tempi dell’esordio segnalatasi fra le promesse migliori del death metal continentale. “Unending Degradation” aveva parlato chiaro a suo tempo e quando li avevamo visti all’opera su un palco ne eravamo rimasti atterriti. Anche in questa circostanza il death metal dei Nostri sgretola le montagne, densa marea rosso sangue che sa dipanarsi con grande musicalità e fluidità pur non rinunciando a un impatto gigantesco. Ogni accorgimento strumentale ha una sua funzionalità, non si esagera in alcuna direzione, il drumming tiene le fila dosando le parentesi più caotiche, attento piuttosto a dare ordine, senso logico alle ondate di chitarre fangose, una riproduzione dell’Incantation sound filtrato da una smania di mattanze tipicamente finlandese. Movimenti in sincrono, spontanei ma perfettamente a tempo l’uno con l’altro, i Krypts con uno stage-acting spoglio di attenzioni per il pubblico tracimano brutalità, facendo apprezzare in relativa facilità i tormenti infernali della musica, forti di dinamiche persino catchy e di momenti doom irrequietimagmatici. Le accelerazioni non hanno nulla da invidiare a Morbid Angel e Immolation nella forma migliore, il peso specifico di ogni singola sezione si fa sentire come una serie di macigni scaraventatici sulla schiena senza troppi complimenti. Il provato pubblico si desta e si lascia andare a una concentrata partecipazione emotiva, così che si crea una concordanza d’intenti e un fervore che solo pochi altri ensemble sono riusciti a suscitare a Dublino. Attendiamo adesso nuova musica dai quattro deathster nordici, sarebbe un peccato se “Unending Degradation” restasse un caso isolato.
CORPSESSED
Death metal torbido e mefitico, esasperato in ogni suo aspetto, è quanto propone il menù per la chiusura delle ostilità. I Corpsessed hanno compiuto il fatidico salto di qualità grazie al primo album “Abysmal Thresholds”, che li aveva visti annerire brutalmente lo spietato death metal dalle striature swedish dei primi due ep. Impressionante la tenuta del palco dei cinque, che trasudano un carisma minaccioso e non si fanno complimenti nel catturarci in un vortice di note asfissiante e acuminato. Lo sguardo del cantante Niko Matilainen promette sgozzamenti e la sua voce mantiene in pieno le promesse, confezionando vocalizzi rivoltanti, perfettamente coadiuvato in ciò dal chitarrista Matti Mäkelä. Gli inizi più tradizionalisti conferiscono un minimo di agilità alla proposta, più fulminea in alcuni frangenti di quella di una band come i defunti Maveth, ad esempio, ai quali possono essere accostati per la particolare reinvenzione delle pulsioni di Incantation e Immolation in una chiave indistintamente oleosa. Le velocità di crociera contrastano con un suono pieno e limaccioso di ascendenza doom e un tumulto ritmico volto al totale annichilimento, mentre le pose aggressive contribuiscono a dare un’impressione di entusiasmo old-school a una musica per il resto cinica, imbevuta di arie diaboliche e avara di pause contemplative. Il piglio è però per molti aspetti quello dei primi anni ’90, sequenze stravolgenti, cataclismatiche, si interrompono quel tanto che basta per inserire uno sprazzo più dritto, micidiale anche per coloro che desiderano solo essere investiti da grumi di forza bruta, essere malmenati duri senza tanti complimenti. I Corpsessed denotano una capacità di sintesi poco comune nel loro settore, potremmo parlare addirittura di ‘moderazione’, per quanto possa far sorridere applicare un termine siffatto a musica così destabilizzante. In conclusione, impieghiamo un’altra definizione buffa in casi simili e definiamo come semplicemente ‘bello’ l’intero Unconquered Darkness: bello perché dà la possibilità a quei quattro ‘disgraziati’ che esplorano l’underground death metal in lungo e in largo di dedicarsi per tre giorni interamente a una delle proprie passioni preferite, fra persone che condividono la loro stessa passione. Finché ci sarà questo spirito si potrà anche essere in pochi, ma certi suoni non moriranno mai!