Report a cura di Giovanni Mascherpa
Uno magari si trova con qualche giorno di ferie ancora da spendere. Come li usa? Cerca un low cost casuale? Banale. Non idoneo ai nostri veri scopi. Si setaccia la rete per un festival poco noto, meglio se in qualche luogo non ancora visitato. Ci si fa venire in mente il nome di qualche band underground che suona dal vivo ma solo in determinati contesti, si butta il nome su Facebook, si guarda la sua bacheca e si osserva cosa salta fuori. Spesso, neanche con tanto sforzo, i risultati sono sorprendenti e soddisfacenti. Così, verificando dove potessero andare a parare i sobri Funeralium in autunno, scopriamo che erano stati inseriti nel cartellone del quinto Under The Doom Festival, programmato in quel di Lisbona. Tre giorni, un bill che rispetta il sostantivo ‘doom’ solo in parte e si permette di svariare a trecentosessanta gradi nel filone: headliner conosciuti e che non si ammirano di frequente; o, come nel caso dei Lacuna Coil, band che il sottoscritto ha un po’ perso di vista; un programma comprensivo di realtà storiche sottovalutate e promettenti act di ultima generazione. Due locali, l’ampio Lisboa Ao Vivo e il più raccolto RCA Club, ospitano la manifestazione che, paradosso della nostra scelta, alla fine mica li ha visti esibirsi i Funeralium! Il combo francese deve avere avuto qualche incomprensione con gli organizzatori e ha annunciato poche settimane prima dell’evento che non avrebbe partecipato, sostituito dai Process Of Guilt. Nulla comunque che potesse compromettere il desiderio di recarci in una delle più splendenti capitali europee, che anche in materia strettamente metallica si presenta accogliente come lo è usualmente per dei normali turisti. Le venue si sono rivelate assolutamente all’altezza, vantando entrambe un’acustica e un impianto audio di primissimo livello, oltre che dei fonici bravi a dare a ogni band il suo specifico sound. Non sappiamo quante persone vi fossero giovedì, serata di preambolo che abbiamo saltato a priori, mentre venerdì, giorno di Lacuna Coil e Liv Kristine, e sabato, headliner gli In The Woods… e gli Ahab appena prima, le presenze sono state decisamente elevate. Pur senza arrivare a fastidiose congestioni, RCA Club e Lisboa Ao Vivo sono andati riempiendosi molto presto, chiunque è salito sul palco ha goduto di un supporto raro; non parliamo di semplice attenzione rivolta a quanto veniva suonato, ma proprio di un rumoreggiare insistito e di un incitamento costante anche in slot distanti da quelli più elevati. Una trasferta portoghese quindi molto positiva la nostra, che vi andiamo a raccontare partendo da un combo italiano, i The Foreshadowing, addirittura protagonisti di due concerti, il primo il giovedì in sostituzione dei When Nothing Remains e quello già regolarmente previsto del venerdì.
THE FORESHADOWING
Quando compaiono i The Foreshadowing, ci rendiamo conto di quanto a Lisbona le sonorità doom siano un culto contagioso a prescindere dalla fama di chi ci si trova davanti. Oddio, ormai i romani sono una formazione di un certo lignaggio per queste sonorità, ma siamo pur sempre alla terza band di giornata e gli headliner sono ancora lontani dall’apparire. Eppure, l’accoglienza riservata al sestetto, già protagonista la sera precedente in quel dell’RCA Club, è di quelle che un musicista non dimentica. Sarà anche che è la prima volta che si esibiscono in Portogallo, certo è che gli autori del recente “Seven Heads Ten Horns” si vedono seguire in ogni mossa da un pubblico rapito e suggestionato fin dalle prime note elargite. Non soltanto le prime file, ma un po’ tutti i presenti nel locale reagiscono con conclamato fervore ai malinconici, immediati dialoghi di chitarre e tastiere e alla voce profonda di Marco Benevento. In molti cantano, se non per intero, ampie porzioni delle lyrics, per quanto i ragazzi sul palco manifestino aplomb traspare un certo compiacimento nel vedere cotanta partecipazione. Un seguito che rimane intatto sia quando viene affrontato materiale più recente, sia quando si torna indietro agli esordi, distanti dieci anni, di “Days Of Nothing”. I suoni non tradiscono i The Foreshadowing, che tratteggiano quadri emotivi mesti senza calcare la mano su sentimenti funestamente avviliti, mantenendo quel minimo di ariosità che può catturare anche l’ascoltatore meno affine a sonorità poco liete. Quasi non li lasciano andare via dallo stage quando terminano il set, la band se ne va con rammarico: non capita spesso di essere trattati così bene!
GREEN CARNATION
Esaurita la lunga parentesi dedicata alla celebrazione di “Light Of Day, Day Of Darkness”, durata tutto il 2016, i Green Carnation proseguono l’attività live in poche selezionate date, cambiando drasticamente la setlist. Non sono ancora giunti annunci sull’imminenza di un nuovo album, anche se sappiamo che l’attuale line-up sta lavorando da tempo su materiale inedito, ma a quanto pare lo slancio emotivo che aveva condotto alla reunion non è andato perduto e i norvegesi si presentano in grande spolvero all’appuntamento lusitano. Dal progressive doom del loro riconosciuto masterpiece, i Nostri si spostano sull’hard rock spumeggiante e catchy che aveva caratterizzato “The Quiet Offspring” e “Blessing In Disguise”, assoluti protagonisti del concerto. Kjetil Nordhus, a dispetto dell’aspetto pacifico e pacato, è un frontman che sa farsi rispettare non solo per doti vocali di prim’ordine, ma per una personalità forte che gli consente di tenere facilmente in pugno l’audience. Come osservato per chi li ha preceduti e come accadrà del resto in misura ancora maggiore per i co-headliner, la risposta dell’audience è incandescente. Le tastiere speziate di prog settantiano svettano fra i riff accattivanti di Tchort e Krumins, i pezzi guadagnano in cattiveria nella dimensione live, spostandosi decisamente verso il metal, quando sui dischi di appartenenza gli elementi prettamente hard rock hanno spesso la meglio. C’è tempo anche per un’interessante anticipazione sulla direzione futura, con la proposizione di “Sentinels Of Chaos”, non dissimile nell’impostazione dal resto dei pezzi suonati al Lisboa Ao Vivo, se vogliamo inaspettatamente inclinata verso il classic metal, soprattutto all’altezza del chorus. Prestazione sgargiante, che conferma la seconda giovinezza di un act in passato poco celebrato e che speriamo possa avere ancora un solido futuro davanti a sé.
LIV KRISTINE
Nuova vita per la cantante norvegese di matrimonio tedesco. Chiusa non senza strascichi polemici l’avventura in seno ai Leaves’ Eyes, la talentuosa singer ex Theatre Of Tragedy prova a prendersi le sue rivincite e a riaffermare il suo posto nella scena gothic internazionale. Lisbona è una delle prime date del suo tour solista, con nuovi compagni d’avventura; una ripartenza da zero, a sentire lei, che si presenta con la consueta solarità e una forma vocale smagliante. Un po’ amarcord e un po’ passato recente, per Liv Kristine, che si rende protagonista di una performance rara in contesti di questo tipo. Il metal flirta con il pop e un rock di ampio respiro, che grazie ad arrangiamenti curati e un songwriting per nulla pressapochista ci mette poco a farsi cantare e apprezzare. Ormai il locale è quasi pieno, seppure non soffriamo resse problematiche, Liv può sentirsi come se fosse a casa e ogni brano annunciato è accolto con atteggiamento grato e festoso. I toni vagamente glamour, assolutamente sobri ed eleganti, degli ultimi album solisti “Vervain” e “Libertine” vanno ben d’accordo alle canzoni del suo primo gruppo, la voce cristallina della Kristine non appare invecchiata e le note alte e squillanti sono affrontate con tanta sicurezza e intatto trasporto. Chi scrive è poco avvezzo a queste sonorità, difficilmente le cerca volontariamente, però c’è da ammettere che una prova del genere è molto bene accetta, sia perché non accade di presenziare di frequente a concerti così leggeri, sia perché permette di godere di un gradito ritorno di una delle regine del gothic metal, ancora oggi in grado di rappresentare il genere al meglio delle sue possibilità. Un angelo cui mancano solo le ali, questa è Liv Kristine oggi, che si permette una chiusura inaspettata e di grande classe sulle note di “Changes” dei Black Sabbath, scelta insidiosa che si rivela assolutamente azzeccata e che per il sottoscritto ha rappresentato il vertice dell’esibizione.
LACUNA COIL
Entriamo in manicomio. Un bel sanatorio per individui irrequieti, che forse forse stanno esagerando con i loro comportamenti, diciamo, sopra le righe, viste le strisce di sangue sparse sui muri. Questa la scenografia contornante lo stage per i Lacuna Coil, ancora concentrati nel portare avanti il concept lirico-visivo dell’ultimo “Delirium”. Vestiti tutti quanti nelle loro belle camicie di forza, i cinque entrano a gamba tesa nel vivo delle operazioni, scatenando le urla dei presenti con una robustissima versione di “Ultima Ratio”. Si delinea in poche battute uno show muscolare, affilato e tremendo, in preda a istintività turbolenta e groove frantuma-montagne, mentre sotto l’egida della coppia Scabbia-Ferro le voci si accavallano in una corona di spine di tormenti. Fan fedele del gruppo fino a “Karmacode”, lo scrivente ammette di aver un po’ perso il filo delle evoluzioni seguenti del combo meneghino, pur avendone seguito con ammirazione l’ascesa commerciale: questo per dire che ci è voluto qualche brano per adattarsi a questi modi rudi, spacconi, oggi in dote ai Lacuna Coil. Habitat nel quale operano con indomita disinvoltura, gli scossoni che assestano con le varie “Die & Rise”, “Blood, Tears And Dust”, “Trip The Darkness” tiranneggiano su un Lisboa Ao Vivo adorante. La devozione manifestata dal pubblico di Lisbona è il termometro di una popolarità senza confini, legittimata da una presenza scenica attestante senz’ombra di smentita lo status di stelle del metal contemporaneo che la band si è guadagnata sul campo. Cristina ha carisma in tale abbondanza da poterlo vendere a caro prezzo sul mercato e Ferro ne è un degnissimo contraltare. Il prossimo anno ricorrono i vent’anni di attività per i Lacuna Coil e allora la Scabbia ricorda spesso, con molto orgoglio, la strada fatta, le traversie vissute, le battaglie affrontate. Annuncia anche che ci saranno grosse sorprese in vista per festeggiare l’importante anniversario, provocando già una sana acquolina in bocca all’uditorio. Nel frattempo, il concerto prosegue andando a ritroso nel tempo, alla cover di “Enjoy The Silence” che fa tremare il locale per la risposta fragorosa degli astanti, alla sempre cara “Our Truth”, oppure il punto d’unione fra gothic metal e modernismo di “Heaven’s A Lie”. In mezzo, la digrignante osservazione che ‘nulla ci può fermare’, “Nothing Stands In Our Way”, salutata con un particolare accaloramento della folla. Nella notte d’incubi e magie della capitale lusitana, “House Of Shame” manda tutti a nanna, strappando un’altra sequela di applausi che potrebbero durare fino a mattina. Piaccia o meno, oggigiorno i Lacuna Coil dal vivo sono inarrestabili.
GOLD
Il sabato ci spostiamo all’RCA Club, più raccolto e adatto a sonorità mediamente più coriacee di quelle del giorno prima. Con un’eccezione lampante in apertura. I Gold sono lì, sull’orlo di un precipizio carico di attese, quello che separa l’hard rock plumbeo striato di darkwave dal metal. Su disco, a dire il vero, il dubbio non si porrebbe. Siamo a un passo, non oltre, da veri suoni metallici. Come sa chi ha visto all’opera diverse compagini fra occult-dark rock e post-punk dotate di voce femminile, in concerto realtà simili tendono a far deflagrare oltremisura la potenza immaginifica insita nelle eleganti vampate nerastre ricamate su disco. Con i Gold, un po’ in assonanza con quanto accadeva per The Devil’s Blood e ora per i Dool, accade qualcosa di simile. Il tambureggiare della batteria, a tocchi brevi, un picchiettare propagante tensione superficiale vertiginosa, mette in allerta; le chitarre, ben tre, si moltiplicano l’un l’altra nell’avvolgere in una matassa di rumore meticolosamente levigato, una sciarpa di nera magia che rimbomba, fortissima, nelle nostre teste e inchioda la nostra attenzione senza possibilità di scampo. E poi c’è lei, Milena Eva, angelo in vestito maschile, persa nella sua dimensione di sogno terreno, una trance che la porta a movimenti rigidi, dinoccolamenti strambi, svolazzare di braccia e mani in moti disordinati ma mai esagitati. Gli occhi sbarrati, vagano a cercare un punto indefinito alle nostre spalle. La voce, straordinaria: se la terrificante “You Too Must Die” e “Summer Thunder” catturano per il calore hard rock degli strumenti contrapposti alla pulizia altera delle linee vocali, “Teenage Lust” si permette di affogare in un drone-doom vaporoso e sabbatico e ci fa ascoltare la Eva in versione strega buona. Personalità in sovrabbondanza per questi ragazzi, usciti a gennaio con il terzo full-length “Optimist” e rodatissimi dal vivo: per scatenarsi come fanno loro e suonare intanto con somma coesione, si deve essere una cosa sola, non musicisti che agiscono per conto proprio. Chi aveva iniziato a seguire il concerto distrattamente, capisce in fretta che sta accadendo qualcosa di speciale, l’infoltimento delle presenze davanti al palco si abbina a un’ammirazione attonita e un crescere degli applausi di pezzo in pezzo. Se da qualche tempo queste voci femminili così poliedriche e magnetiche vi stanno turbando positivamente le giornate, i Gold sono un must. D’altronde, per scrivere una canzone come “I Do My Own Stunts”, non si può vivacchiare nella mediocrità.
NOVEMBERS DOOM
Per la band dell’Illinois il parterre è già quello delle grandi occasioni. Non capita spesso di vedere i Novembers Doom in Europa, la discografia nutrita li pone come uno dei gruppi di più veneranda età negli ambienti death-doom e una platea assai colta come quella portoghese non può che rispondere con passione a questa calata di Paul Kuhr e compagni. Un’apertura nel segno dello US death metal come “Devils Light” si rivela traditrice su quella che sarà l’impostazione della serata; le cadenze-caterpillar e il growl grasso e minaccioso sentiti in avvio vanno presto in secondo piano, per riapparire solo a brevi tratti nel resto della setlist. Il grosso dei pezzi si adagia su un gothic-doom severo ma pennellato sopraffinamente su registri melodici avvincenti e non troppo carichi di negatività. Kuhr si dimostra in ottima forma, una trasposizione muscolare e molto ‘americana’ del sofferto cantato di un Aaron Stainthorpe. Non si raggiunge la magnificenza del collega inglese, indiscusso maestro di queste sonorità, però non ci si va nemmeno tanto distante. Il Nostro è assai gioviale e intrattiene tra una canzone e l’altra con una parlantina brillante, che non manca di suscitare scrosci di risate e grida di apprezzamento quando arriva qualche annuncio pieno di ardente spirito metallaro. L’ampiezza della discografia consente salti avanti e indietro nel tempo considerevoli e guarda caso è quando si torna agli anni ’90, periodo di massima auge per tali suoni devitalizzati e devitalizzanti, che si avvertono i moti di maggior eccitazione. I suoni, come del resto abbiamo appurato coi Gold, si rivelano ottimi e allora va in scena una prestazione encomiabile per qualità di repertorio, mera esecuzione e passionalità. Veterani con l’argento vivo addosso.
PROCESS OF GUILT
“Mi scusi, avete dei tappi aggiuntivi da prestarmi? Mi stanno esplodendo le orecchie. No? Allora sono fottuto”. A un certo punto lo scrivente ha avuto voglia di porre questa domanda a qualcuno nelle vicinanze, tanto sembrava che le casse fossero sul punto di liquefarsi, martoriate da frequenze insane e un’orripilante turgore di chitarre nere come la pece e se possibile più velenose. Chiamati a sostituire i defezionari Funeralium, i quattro ne fungono da validissimi sostituti proprio in virtù della carica di odio inverecondo e di pessimismo tossico veicolato, con metodiche assai differenti, dai posati (si scherza…) transalpini. I richiami all’inflazionato blackened-hardcore non portano, se non fugacemente, al malsano deja-vu spesso rinvenibile per formazioni che come loro incrociano black metal, sludge, hardcore, doom in una cruenta melassa e la perpetuano allo sfinimento. Certo, l’ossessività è un’arma ben gradita per i Process Of Guilt, che ben presto fanno perdere il contatto con l’idea di forma-canzone e di uno sviluppo affine agli usuali schemi post-metal. Le urla isteriche, l’elefantiasi delle distorsioni, i feedback inflitti in generosa quantità, le luci ridotte e miranti a far entrare pienamente in un clima disperato e apocalittico, serrano la gola e ci mettono in totale balia di strumentisti che ‘sbadilano’ marciume infingardi di qualsiasi apertura di alleggerimento. Si è trattato del set più ostile e meno di intrattenimento vissuto in quel di Lisbona, una lieve divagazione verso la modernità che ha comunque trovato la sua ragion d’essere e una sufficiente acclamazione, anche se probabilmente il grosso dei convenuti non è usuale fruitore di tali tremende trame.
ACHERONTAS
Quando si parla di interpretazioni spirituali del black metal, di una trattazione mistica di questa cruda corrente musicale, uno dei primi nomi che vengono in mente è quello dei greci Acherontas. Inappuntabile macchina da live, che si connota per esibizioni ben più pulite e ariose di quella della maggior parte dei suoi colleghi. Un sentimento di torbida sacralità non può che avviluppare la sala quando i quattro si schierano dinnanzi a noi: i due chitarristi con il volto celato fin quasi agli occhi da un fazzoletto nero raffigurante segni occulti, lo sguardo imbelvito, spalleggiano l’arcigna figura del frontman Nikolaos Panagopoulos, nome d’arte Acherontas V. Priest. Provvisto dell’usuale abito di tipologia ecclesiastica, un vestaglione scuro lungo fino ai piedi, anch’egli in parte con il volto coperto, il singer ellenico ci mette nulla a irretire con il suo cantato mutevole e posseduto. Una teatralità, la sua, degna del protagonista di qualche dramma operistico, considerata la versatilità delle sue tonalità, il fraseggiare immaginifico, le cospicue porzioni preda di un recitato maligno annunciante chissà quale elusivo concetto. I chitarristi flettono i muscoli e paventano minaccia, agitando il braccio in aria a perenne richiamo verso i propri ‘fedeli’, mai dimentichi di sostenere dialoghi articolati e fascinosi. Conturbanti melodie si snodano fulminee e cangianti, progressioni si susseguono sciolte, alternando toni elegantemente infernali ad aperture più suadenti, irrorate di delizie sonore trasudanti fragranze in arrivo dalla notte dei tempi. Non disdegna tirate assassine la batteria, comandata con cipiglio old-school e un elevato tasso tecnico, ideale collegamento fra la voce assatanata del leader e il fraseggiare studiato e passionale delle chitarre. Più volte Acherontas V. Priest giunge le mani in preghiera, si inginocchia di fronte al piccolo altarino allestito a centro palco, seguito da occhi attenti, che mai oserebbero distrarsi dal mirabile spettacolo offerto. L’interpretazione più grezza del proprio stile fornita nell’ottimo “Amarta अमर्त (Formulas of Reptilian Unification Part II)” svapora leggermente, a favore di un suono cristallino, che nulla cede ad aggressività e palpitante frenesia. Un’assoluta sicurezza.
AHAB
Anche gli Ahab si producono in un’operazione di rivisitazione integrale del proprio album più famoso, l’esordio “The Call Of The Wretched Sea”, cedendo alla tentazione, molto comune di questi tempi, di uno sguardo nostalgico al passato. Una distanza temporale che in effetti inizia ad essere ragguardevole, quella rispetto al proprio primo album, divenuto in pochi anni un punto di riferimento imprescindibile per i cultori del funeral doom. Per la compagine teutonica vale più o meno il discorso per chi è andato in scena appena prima: siamo di fronte a musicisti nient’affatto lunatici quando c’è da offrire la propria arte, portati a suonare precisi e fedeli a quanto si ode su disco. Così la mole di “Below The Sun” può schiacciarci in tutto il suo tetro fragore, lenta e brutale, un trionfo di epos marinaresco che si trascina in tumulti a bassi regimi e spumeggiante una vitalità rabbiosa, seppure dispensata a passo assai misurato. La fantasia della sezione ritmica e la qualità dei singoli riff tengono desta l’attenzione nonostante il moto ondoso della musica spesso quasi si fermi, in una mareggiata tanto imponente quanto tendente a un gigantesco immobilismo, affossato a profondità insondabili dal growl corposo di Daniel Droste. Inerpicandoci nella setlist, aperture relativamente travolgenti e spunti in clean vocals non mancano, viene purtroppo tagliato l’ultimo brano del disco per mancanza di tempo – la durata complessiva di “The Call Of The Wretched Sea” sfora lievemente sull’ora concessa agli Ahab all’Under The Doom – ma per il resto tutti i fan del quartetto possono godere di una performance vissuta, che rende piena giustizia a un memorabile classico del funeral doom. Nulla risalta nel portamento degli strumentisti o nella scenografia, la band fa parlare solo le proprie canzoni, che si trasformano ineluttabilmente in macabri romanzi brevi, tenendo fede alle provate capacità di cupi narratori delle dannazioni arrecate dal mare e dalle creature che lo popolano.
IN THE WOODS…
Orfani dal vivo del contributo dei fratelli Botteri, gli In The Woods… si esibiscono in una line-up che vede il solo Anders Kobro, batterista, quale membro superstite della prima incarnazione della formazione norvegese. Molte cose sono cambiate rispetto alle prime apparizioni post-reunion e sicuramente avere di fatto due ‘squadre’ da alternare, quella che lavora in studio e quella che va sul palco, è una situazione abbastanza anomala. A Lisbona, le cose non vanno esattamente nel senso voluto. A soffrire una giornata di appannamento è il singer Mr. Fog, che non convince per tutto l’arco del concerto. Lo stile quasi operistico di chi l’aveva preceduto, lo sappiamo, non è nelle sue corde, e fin qui nulla di terribile, basta adattarsi; il vero problema è che appena le difficoltà di interpretazione si alzano, egli si barcamena in urla eccessive, distoniche al mood dei pezzi. Si percepisce che stia soffrendo nel tentativo di non perdersi fra linee ondivaghe e che richiederebbero ben altra sicurezza per essere cantate al meglio. Il fiatone con cui parla nelle pause, dà bene l’idea di quali ambasce viva l’occhialuto personaggio. Anche sul fronte strumentale, sorge più di una perplessità. Poca coesione, appiattimento della verve istrionica dei brani – il grosso proveniente dall’esordio “Heart Of The Ages” – inadeguatezza nel rimembrare lo spirito vagamente surreale e genialoide del passato. È vero che le impalcature soniche degli In The Woods… non abbiano mai avuto una forma canonica e facilissima da seguire, però un tale slegamento come quello riscontrato all’RCA Club non appare confacente alla sofisticata proposta del gruppo. Andando avanti, le cose non migliorano, ci piacciono gli interventi solisti del giovane Sletteberg, il più vistoso nell’operato tra i musicisti di recente aggiunta, Kobro fa il suo dovere dietro i tamburi, il resto non testimonia con adeguata classe la bontà artistica di questo particolarissimo act. Peccato, rimane questa l’unica prestazione sotto tono di un festival riuscito e che se possibile ci vedrà di nuovo partecipi in futuro.