DAATH
I nuovi paladini del (vecchio) death metal, nei quali Roadrunner Records nutre piena fiducia, si esibiscono presto e con pochi ragazzi davanti a loro. La posizione in scaletta è decisamente sfortunata, ed è indubbio che il gruppo sia abbastanza fuori luogo tra i gruppi in cartellone. Dopo un meet&greet dove i componenti sembravano quasi timidi e mansueti la formazione si trasforma in maniera sorprendente: grazie a una pulizia del suono notevole e una grande aggressività fisica, che li vede ultradinamici e in continuo forsennato headbanging, si può dire che i Daath dal vivo sono meglio che su disco. Kevin Talley è fenomenale quanto il sicuro highlight della breve esibizione, quella “Ovum” estremamente groovy ma al contempo malvagia e aggressiva, perla di una performance davvero degna di nota. Li vorremmo rivedere, possibilmente in una cornice più adatta. Se poi qualcuno della band si mettesse al banchetto del merch riuscirebbero anche a vendere più magliette!
DESPISED ICON
JOB FOR A COWBOY
I ragazzi dalla Arizona sono in sostanza tre cose. Uno: sono uno dei gruppi più attesi della serata, grazie all’inspiegabile fenomeno che li ha resi una icona su MySpace ancora prima della pubblicazione del debutto “Genesis”. Due: un gruppo dal nome assurdo e di sicuro risibile (“Mestiere Per Un Vaccaro”, provate a sostenere il contrario!), ma che ti si stampa in testa come un messaggio subliminale. Tre: una promettente formazione death/brutal che ha voglia di suonare e di spaccare il culo. Disarmante la potenza del vocalist Jonny Davy: dimesso e sostanzialmente brutto, sporco e cattivo, il frontman ha una voce inumana che sembra poter raggiungere l’intero locale senza amplificazione, un growl cavernoso e profondo che si trasforma nella cosa più vicina al verso di un porco sventrato. Intorno c’è solo il marasma brutal death tecnicissimo e violento dei pezzi tratti dalla prossima uscita, sulla quale gli avidi fan non vedono l’ora di mettere le mani dopo aver portato a casa scatoloni interi di shirts e hoodies. Concreti.
UNEARTH
Dopo anni di impegno e una costante parabola ascendente culminata con lo spettacolare “III: In The Eyes Of Fire”, e soprattutto dopo innumerevoli date come sottovalutati opener gli Unearth hanno voglia di raccogliere il seminato. Anche se sono passati in italia molte volte nel passato recente riescono ad attrarre un pubblico rispettabile, anche se il locale – veramente sovradimensionato per il concerto di stasera – non è colmo nemmeno per metà. Dalla prima nota è una gioia per gli occhi vedere quanto facilmente il quintetto riesce a infiammare lo stage: basta un gesto a un tonico Trevor per far partire i primi veri e propri cirlcle pits (ne seguiranno svariati) e scatenare la folla. Il mini guitar team composto da Buzz McGrath and Ken Susi fa piovere assoli e riff, ma si fa notare per la sua incredibile e indubitabile energia fisica, unita a coreografie impeccabili, figure plastiche e numeri da circo: ce ne sono tanti di giocolieri penserete, ma davvero pochi riescono a mantenere alto il livello di intrattenimento senza perdere clamorosamente in tecnica e precisione. L’unico elemento ancorato al terreno è il redneck John “Slo” Maggard, ma con quella faccia bonaria e la bandana perenne risulta lo stesso simpatico. Nessuna novità per una scaletta che non trascura la passata discografia del gruppo in un’ora esatta di live rovente, ancora una volta “Boston Fucking Metal”. Ripassate pure!