22/02/2020 - UNEARTH + PRONG + DUST BOLT + SINARO @ Legend Club - Milano

Pubblicato il 02/03/2020 da

Report a cura di Simone Vavalà
Fotografie a cura di Emanuela Giurano

Almeno due delle band presenti in cartellone facevano pensare a una serata di torrido pogo e affollamento, ma il sabato sera meneghino pare chiaramente segnato dalla psicosi dei primi contagi da Coronavirus. Arriviamo al locale a pochi minuti dalla prima esibizione con solo sette persone sotto palco, e al momento dello show dei Prong gli astanti diventeranno forse 150. Decisamente pochi, e mentre già si susseguono voci incontrollate sulla cancellazione dei prossimi concerti nell’area lombarda, non ci resta che guardare al lato positivo di un’atmosfera intima, anche se non sicuramente quella ideale per un bill all’insegna delle ritmiche serrate e dell’assalto frontale.

 


SINARO
La band di New York ha l’arduo compito di scaldare gli animi dei dodici presenti all’apertura del locale; un compito ingrato per chiunque, purtroppo reso impossibile da uno show che non offre troppa personalità o coinvolgimento. I Sinaro hanno tutto l’armamentario visivo d’ordinanza per assurgere a paladini del metalcore, dalle camicie senza maniche abbottonate alle bandane, oltre al sempre utile endorsement di musicisti del calibro di Andy James o Oli Herbert (ospiti nel loro ultimo disco), ma dal vivo i loro brani scorrono tutti troppo simili. Interessanti e potenti i riff messi in campo, quasi sempre però appiattiti dal cantato pulito senza troppo mordente del leader Gus Sinaro. Rimandati alla prossima esibizione, insomma, anche se non ci sentiamo di sbilanciarci sul loro passaggio a slot più prestigiosi.

DUST BOLT
Dopo l’esibizione senza lode né infamia dei Sinaro, c’è decisamente bisogno di dare una svolta potente e ignorante alla serata, e i Dust Bolt ci riescono alla grande. Il loro thrash arricchito da sferzate hardcore non brilla certo di originalità, ma l’energia che i quattro trasmettono dal palco, a petto nudo e in headbanging quasi ininterrotto, si trasmette alla grande sui presenti. L’esibizione si concentra sui brani del recente “Trapped In Chaos”, i cui estratti adrenalinici tengono alta la bandiera di un sound retrò, decisamente più americano che tedesco, se si pensa alla provenienza bavarese della band. L’unico momento di scarsa presa è l’esecuzione di “Another Day In Hell”, sorta di ballad introdotta dalla chitarra acustica, durante la quale i Dust Bolt perdono sia mordente che – francamente – resa esecutiva, senza per questo rovinare un concerto più che dignitoso.

 

PRONG
Non c’è molto da aggiungere rispetto al report di qualsiasi precedente concerto dei Prong, in merito all’esibizione al Legend di Milano: rientrato in formazione il mastodontico Aaron Rossi dietro le pelli, assente – ma pare solo per il tour europeo – l’ormai fedele bassista Jason Christopher, al solito basta la presenza costante del deus ex machina Tommy Victor per estasiare i presenti. Il loro show offre un vero e proprio greatest hits in una serratissima ora spaccata di tempo, e anche se la scusa del tour è il trentennale di “Beg To Differ”, è come sempre il capolavoro “Cleansing” a fare la parte del leone. Ma andiamo con ordine. La tripletta di apertura fa subito spalancare le mascelle, con “Unconditional”, “For Dear Life” e il primissimo singolo “Freezer Burn” a offrire le prime frustate; la band si dimostra come sempre, a prescindere dalla sessione ritmica di turno, uno schiacciasassi con pochi rivali, che ha sugli scudi il lavoro di chitarre di Victor: un genietto spesso sottovalutato, ma che tra riff indelebili e un uso dello stop&go che ha fatto scuola, si può ben annoverare tra i grandi chitarristi del metal tutto. Nella seconda parte dello spettacolo esplode la componente più groove e vicina all’industrial propria della band, con una sequenza da brividi e salti continui che parte con “Rude Awakening” e termina con “Snap Your Fingers, Snap Your Neck”, un brano che chiunque sia nato a cavallo del 1980 si ricorda tutt’oggi dall’heavy rotation di Headbanger’s Ball. Il finale, quando ormai il sudore (e gli sputi) dei tre hanno coperto il palco, è affidato a “However It May Ends”, forse non il pezzo più incisivo dell’ultimo full length “Zero Days”, ma sufficiente per permettere a Rossi di ribaltare il ride per la furia con cui lo colpisce, e per far mostrare gli ultimi, psicotici sorrisi all’eterno folle Victor.

 

UNEARTH
Li si ami o li si odi, gli Unearth hanno saputo ritagliarsi uno spazio meritato in oltre vent’anni di esibizioni senza risparmio di forze; e anche se per molti presenti – compreso chi vi scrive – lo slot finale era appannaggio dovuto dei Prong, o ancor peggio la crasi tra metal e -core che lascia tuttora perplessi, va detto che i cinque di Boston sono tra le poche band che sanno offrire ottimo groove anche ai più incerti e diffidenti ascoltatori. Le chitarre intrecciano riff al fulmicotone, con grande spazio per la melodia, prerogativa dei brevi ma incisivi assoli del piccolo Buz McGrath, mentre basso e batteria percuotono gli sterni come un metronomo – con spazio anche per diversi passaggi in primo piano per le quattro corde e un piccolo assolo durante “Black Hearts Now Reign” per Nick Pierce. Ciliegina sulla torta, come di consueto, Trevor Phipps, che si dimostra uno dei pochi frontman realmente carismatici e capaci in un genere che ha iniziato a mostrare segni di appiattimento quasi dai suoi albori; ma qui, come nel caso di Lamb Of God o Killswitch Engage, la vera classe si nota, e i pezzi funzionano senza dubbio o cedimento alcuno. In grande spolvero il loro classico “The Oncoming Storm”, che da solo tiene per i capelli metà della scaletta, perfetta per mandare a casa stanchi e soddisfatti i pochi, ma ben coinvolti, presenti.

 

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