Report di Luca Pessina e Giacomo Slongo
Introduzione di Giacomo Slongo
Foto di Emily Power – https://emilyspower.photography/ – https://www.instagram.com/emilyspower.photo/
Dire che Copenaghen è da considerarsi la capitale per antonomasia di un certo tipo di death metal non suona più come una novità. Uno status conquistato anzitutto grazie alla presenza dell’iconico Kill-Town Death Fest, evento antesignano del format underground/old-school ormai diffusosi un po’ ovunque nel mondo (si pensi all’Helsinki Death Fest, al Tones of Decay o al Total Death Over Mexico), e che da qualche anno a questa parte – complice il distacco avvenuto tra gli organizzatori originali, Daniel Abecassis e David Mikkelsen – si è ulteriormente consolidato generando un calendario fittissimo di eventi ‘rivali’. Così, tra gli appuntamenti del circuito Killtown Bookings (Decay in May, One Day of Death, oltre ovviamente ai vari tour curati dall’agenzia) e quelli facenti capo all’Extremely Rotten Productions, di cui l’Unearthed Morbidity è/era la cosiddetta punta di diamante, ecco i fan di questa particolare nicchia di suoni chiamati sempre più spesso a fare delle scelte e delle rinunce, vedendo nella città danese (non proprio una meta a buon mercato, diciamocelo) un’oasi in cui placare la propria sete di metallo della morte.
La saturazione – ai nostri occhi – è un dato di fatto e un problema concreto che presto o tardi richiederà un cambio di passo da parte degli addetti ai lavori, ma per il momento (ferie e finanze permettendo) preferiamo non pensarci e continuare a goderci ciò che l’accogliente centro urbano scandinavo ci offre a cadenze regolari, e che in questo caso corrisponde appunto alla seconda (e ultima) edizione dell’Unearthed Morbidity.
Un happening di due giorni (più una serata warm-up) messo in piedi dal leader degli Undergang durante il secondo weekend di giugno, e che, dopo il battesimo dello scorso anno, sceglie di calare anticipatamente il sipario andando però ‘all-in’ con un bill davvero eccelso. Tante le band americane chiamate apposta per l’occasione, con il nome dei death-doom metaller Spectral Voice a svettare ovviamente sul resto della line-up, per un pacchetto che comunque, vista anche la presenza in cartellone di band death-grind, death-thrash e goregrind, non può dirsi affatto statico o monotematico.
Il tutto, quasi inutile sottolinearlo, calato in un contesto di eccellenza che noi italiani possiamo solo sognarci, con l’Amager Bio – locale indoor a poche fermate di metro dal centro – da promuovere seduta stante sia per la sua conformazione (ampissima e ben strutturata tra zona palco, stand per il merch, servizi igienici, guardaroba e bar), sia per la sua acustica stellare. Un gioiellino anche superiore al rinomato Pumpehuset (sede del KTDF), il cui solo limite, legato alla mancanza di cibarie, viene puntualmente sopperito dal gran numero di ristoranti nei dintorni della via.
Atmosfera fantastica, contesto di prim’ordine, organizzazione impeccabile e una platea sì lontana dal colmare la location fino al sold-out, ma visibilmente entusiasta e partecipativa: a fronte di tutto questo, possiamo davvero dire che l’Unearthed Morbidity abbia concluso col botto.
GIOVEDÌ 8 GIUGNO (WARM-UP)
Sbrigate le formalità del check in ostello e recuperata la cena, arriviamo al Beta2300, sede del warm-up party del festival, nel corso dell’esibizione dei NECROPSY ODOR. In questo caldo giovedì sera primaverile, la piccola sala concerti di questo locale nei pressi del più capiente Amager Bio (dove avrà luogo il festival vero e proprio) si trasforma in una sorta di forno che rende ben presto il clima poco vivibile, a meno che si opti per seguire il concerto restando vicino alla porta.
Dal canto suo, il giovane gruppo californiano si rende protagonista di una performance decisamente intensa e serrata, all’insegna di un death-grind dalla chiara vena gore. Citare primi Carcass, Impetigo, Machetazo, Regurgitate e gente affine come influenza per questo tipo di proposta è ormai quasi superfluo: dove i ragazzi americani non arrivano in termini di personalità, compensano con un’esecuzione davvero precisa, persino esaltante a tratti. Del resto, le band provenienti dal continente nordamericano dimostrano spesso di avere più confidenza con il palco rispetto ai loro colleghi europei, e questo set non fa eccezione. Il pubblico è caldo (in tutti i sensi) e la ventina di minuti a disposizione filano via assai velocemente.
Nel giro di pochi minuti tocca quindi agli headliner MORTIFERUM, ormai fra i cosiddetti capisaldi del panorama death-doom contemporaneo. La band di Seattle ha recentemente cambiato batterista, accogliendo in line-up Jullian Rhea dei Fetid, ma affiatamento interno, resa e impatto non ne hanno proprio risentito, anzi. Abbiamo avuto modo di vedere il gruppo dal vivo diverse volte negli ultimi anni e lo show di oggi si rivela probabilmente quello più potente e compatto, a oggi; guardando il quartetto sul palco, si percepisce una prestanza, un vigore che nelle occasioni precedenti non erano mai stati così pronunciati. È come se i Mortiferum avessero preso definitivamente coscienza di avere ormai una loro rilevanza all’interno di questa scena e di potere vantare un repertorio che certo non tutti si possono permettere. L’impatto di pezzi come “Putrid Ascension” o “Altar of Decay” è insomma fragoroso e la conseguente risposta del pubblico più che strepitosa. La gente preme contro il palco e si unisce all’headbanging dei quattro, creando un vortice di capelli e sudore che fa da contorno all’intera performance.
Peccato che il tutto duri appena trentacinque minuti: un altro brano o due avrebbero reso il set ancora più memorabile, ma forse la band preferisce congedarsi lasciando i fan con la fame di rivederli, piuttosto che battere il ferro finché è caldo e poi lasciare tutti stremati. In ogni caso, un gran concerto (Luca Pessina).
VENERDÌ 9 GIUGNO
Le danze (macabre) dell’Unearthed Morbidity vengono aperte dai CHAOTIAN, formazione di casa che avevamo avuto modo di testare durante il Kill-Town Death Fest 2021, e che da allora sembra aver compiuto passi da gigante sia in termini di preparazione tecnica che di affiatamento sul palco. Se in quel frangente, infatti, i ragazzi danesi ci avevano dato l’impressione di non essere ancora pronti a rivestire il ruolo di opener in un evento tanto blasonato, quest’oggi i tre si impongono all’attenzione della platea grazie ad un set fluido e compattissimo, sospinto in primis dalla tentacolare prova dietro i tamburi di Andreas Nordgreen (già esibitosi durante il warm-up della sera precedente con i Sequestrum e più avanti, nel corso del festival, chiamato in causa anche dagli Undergang e dai Phrenelith). Forte di una simile propulsione ritmica e di un lavoro di chitarra assai più ‘avventuroso’ rispetto a quello degli esordi, il death metal tenebroso e contorto dei Nostri si sprigiona così con rinnovata vitalità dall’impianto del locale (incredibile il livello di potenza e definizione dei suoni), mescolando Immolation, Grave e Rottrevore in un flusso che pone fin da subito l’evento sui giusti binari. (Giacomo Slongo)
Se la partenza dei discepoli dell’organizzatore David Torturdød è stata buona, il prosieguo affidato ai FACELESS BURIAL si rivela semplicemente di un altro pianeta. Con gli australiani, all’ultima data di un mini-tour scandinavo in compagnia dei Mortuous, entriamo nei reami del techno-death più caldo e vibrante di marca Death, Demilich e Morbid Angel (o Blood Incantation, citando una fonte di ispirazione contemporanea), e lo facciamo – come si suol dire – in grandissimo stile.
È da poco prima dell’uscita dell’ottimo “At the Foolish of Deliration”, avvenuta lo scorso ottobre, che i tre di Melbourne hanno intensificato di parecchio la loro attività live, e il set di questa sera è l’occasione perfetta per raccogliere i frutti dell’esperienza seminata negli ultimi mesi. Non a caso, bastano una manciata di secondi per far cadere le mascelle dei presenti a terra e sottolineare che il livello di confidenza raggiunto (specie dal punto di vista della resa strumentale) è ormai sbalorditivo; impossibile tenere conto del numero di cambi di tempo, finezze e riff, eppure – a guardarla sul palco – la band sembra sia alle prese con il materiale più elementare del mondo, tanto i vari episodi prendono vita in maniera fluida, quasi automatica, dal dialogo fra chitarra, basso e batteria.
Virtuosi sì, ma anche decisamente fisici e concreti (basti pensare al movimento del pit durante le parentesi più ‘dritte’ e feroci), i Faceless Burial si rendono protagonisti di una performance sontuosa che sarebbe potuta andare avanti anche due ore senza annoiare, la quale ne ribadisce una volta per tutte la rilevanza all’interno del filone. Episodi come “Speciation” ed “Equipose Recast” chiamano solo applausi. (Giacomo Slongo)
È più o meno ora di cena quando tocca ai DEIQUISITOR, formazione danese che ha da poco festeggiato il decimo anno di attività. Non siamo davanti a un gruppo particolarmente celebrato, ma bisogna dare atto al trio di avere impostato la propria carriera e il suo percorso artistico su coordinate che hanno una loro personalità, restando tutto sommato lontane da quelle più in voga nell’underground degli ultimi tempi.
Ascoltando la musica di Thomas Friis Jørgenssen e soci, emerge da un lato un impatto torvo, quadrato, dettato da un drumming a tratti anche molto lineare, mentre dall’altro si fa largo un aspetto ‘storto’ e discordante, che riguarda soprattutto le arie evocate dal lavoro di chitarra. Il terzetto pare collocarsi a metà strada fra gli Immolation più criptici e realtà come gli Adversarial, nel suo spingere su un suono che è più avvolgente che dinamico. Statici e severi anche sul palco, i Deiquisitor non fanno granché per farsi notare, ma alla fine la sala appare comunque piuttosto gremita e curiosa di ascoltare la proposta della band, la quale si lancia in un set di una decina di episodi, fra cui sembrano venire particolarmente apprezzati “Apophis” e “The Eyes of Worms”. (Luca Pessina)
L’hype che da qualche tempo circola attorno al monicker MIASMATIC NECROSIS trova varie conferme e spiegazioni nel set che gli statunitensi allestiscono poco dopo l’orario da noi prescelto per la cena. E cosa c’è di meglio, in fin dei conti, di una sana dose di goregrind vecchio stampo per digerire un piatto di spare ribs?
Con una sola pubblicazione all’attivo (“Apex Profane” del 2020), il contenuto della performance è praticamente già scritto; ciò che bisogna verificare, semmai, è la capacità del quartetto di replicarne al meglio le nefandezze mutuate dai Carcass degli esordi e dal repertorio di altri macellai come Regurgitate e Dead Infection. Missione compiuta? A fronte della resa complessiva, diremmo proprio di sì.
Immerso in luci rosso sangue che ben si prestano a creare un’atmosfera palpitante e deviata, il gruppo capitanato dall’imponente frontman Evan Harting (anche tra gli organizzatori del Maryland Deathfest) si rende protagonista di uno show così ignorante e parossistico da strappare un ghigno beffardo sul volto dell’intera platea, vomitando i brani del suddetto disco in preda ad raptus che però non ne annebbia completamente il giudizio e la lucidità.
L’impatto garantito dal mix di riff laidi e ritmiche sferraglianti è da infarto, galvanizzato dalla scelta di filtrare il growl fino a privarlo di ogni parvenza umana, ma lo show non va segnalandosi solo per la sua ferocia; da bravi americani, i Miasmatic Necrosis si dimostrano strumentalmente molto preparati, ovviando alla scarsità di soluzioni espresse con dinamiche contagiose e con un’accuratezza notevole nella messa a terra di certe trame. Una ‘botta’ di poco più di venti minuti, sicuramente un po’ monodimensionale, ma non per questo trascurabile o arrabattata. (Giacomo Slongo)
Al contrario dei loro connazionali appena esibitisi, FETID non sono stati particolarmente attivi negli ultimi anni, ma chi segue questo particolare filone death metal si ricorda comunque di un solido debut come “Steeping Corporeal Mess”, o magari anche della loro vigorosa esibizione al Kill-Town Death Fest del 2018. In ogni caso, il terzetto di Seattle da allora è evidentemente stato al lavoro su nuovo materiale, dato che nella scaletta odierna compaiono un paio di nuove canzoni: di nuovo, abbiamo a che fare con un death metal dai toni cupi e fangosi, con un riffing di chitarra che spesso si avvita ricercando soluzioni sempre più asfissianti, mentre dalla sezione ritmica emerge talvolta qualche lascito grindcore vecchia scuola o, in generale, una sobrietà che mantiene tutto su registri sempre molto quadrati.
Piacciono sempre molto le parentesi in cui è il distortissimo basso a prendersi la scena, ma, in generale, possiamo parlare di una proposta in cui ogni membro della band ha modo di fare risaltare il proprio tocco. Il batterista/cantante Jullian Rhea, già visto la sera prima dietro le pelli dei Mortiferum, dà infatti anche qui prova di tutte le sue notevoli capacità.
Se gruppi come Cerebral Rot e Undergang hanno ormai fatto breccia anche al di fuori dell’underground più di nicchia, i Fetid a oggi fanno la parte dei reietti e dei ‘difensori della fede’ di tutto ciò che è veramente marcio, senza scendere a compromessi. Con brani come “Reeking Within” e “Consumed Periphery” il loro show si rivela squisitamente devastante. (Luca Pessina)
La presenza degli UNDERGANG nel ruolo di headliner era assolutamente dovuta. D’altronde, non parliamo solo della creatura prediletta dell’organizzatore David Torturdød, ma del nome di punta del circuito death metal danese; un gruppo che una dozzina d’anni fa, insieme ai vari Cruciamentum, Dead Congregation e Funebrarum, contribuì a rivitalizzare il movimento old-school diventandone a tutti gli effetti un leader e un portabandiera a livello mondiale, ispirando tante delle formazioni che oggi vediamo in cartellone o confermate nel bill del ‘rivale’ Kill-Town Death Fest.
Inutile sottolineare, quindi, come il fatto di giocare in casa spiani ulteriormente la strada al quartetto, che fresco dell’annuncio dello split in compagnia degli Spectral Voice (già acquistabile in vinile allo stand del merch) sale sul palco dell’Amager Bio con il preciso intento di coronare questa prima giornata con una performance maiuscola. Sebbene l’elemento cavernicolo – mutuato da infiniti ascolti dei classici di Autopsy, Grave e Rottrevore – continui a fungere da base per la proposta dei Nostri, è evidente come lo show messo in piedi non dispensi solo pesantezza e ignoranza a palate, rimarcando la svolta ‘tecnica’ dell’apprezzatissimo “Aldrig i livet” in un crocevia di spunti death e grind che deve più di qualcosa ai Carcass di inizio anni Novanta, e che dal vivo fa sì che la setlist goda di ulteriore tiro e profondità.
L’incedere è tanto turpe quanto ingegnoso, con la chitarra del veterano Mads Haarløv (ex Iniquity) a spalleggiare quella del leader e a rinvigorire anche gli episodi più slabbrati e ‘punk’ degli esordi, mentre la sezione ritmica – che come anticipato vede Andreas Nordgreen dei Chaotian sostituire l’infortunato Anders Dødshjælp – gode di una propulsione persino maggiore del solito, grazie appunto alla preparazione e ai funambolismi del giovane vicario.
Si parla ovviamente di una band underground, ma in questo contesto gli Undergang fanno davvero la figura dei Metallica di turno: carisma da vendere, resa dei brani terrificante (non staremo a sottolineare un’altra volta la bontà dei suoni del locale) e sostegno incondizionato da parte del pubblico, che per l’intera ora del concerto poga e fa headbanging come se al posto di una “Menneskeæder” o di una “Når børnene dør” stesse ascoltando una “Ride the Lightning”. Mostruosamente sontuosi. (Giacomo Slongo)
SABATO 10 GIUGNO
La seconda giornata del festival si apre con i SEPTAGE, gruppo che chi è solito frequentare i festival e gli eventi del circuito di Copenhagen avrà ormai ben presente. Il trio fa da tempo parte del giro locale ed è ‘imparentato’ con Hyperdontia, Ascendency, Taphos e molti altri esponenti della scena estrema della capitale danese. Dopo averli visti al Kill-Town Death Fest, è insomma logico ritrovarli pure qui, impegnati ancora una volta a promuovere il loro death-grind ricco di sfaccettature.
I tre non sono ancora arrivati al traguardo del full-length, ma il pubblico ha comunque avuto modo di conoscere bene la proposta grazie a una serie di EP e split pubblicati in rapida successione dal 2020 allo scorso anno. Anche oggi l’impressione lasciata dai Septage è positiva: grazie anche ai suoni potenti e definiti garantiti dal locale, la band ‘spinge’ che è un piacere, con Malik, Ugur e Tobias a dividersi le linee vocali in un turbinio di urla e growling vocals di vario genere. Come sempre, i brani appaiono essenziali e diretti sulle prime, per poi colpire per la loro vena istrionica, i cambi di ritmo e registro inaspettati, con varie influenze death metal e grindcore a passarsi il testimone.
Rispetto al solito gruppo che omaggia a oltranza Carcass e compagnia, il terzetto turco-danese risulta insomma più dinamico e avvincente. Aspettiamo il primo album per capire a cosa possa davvero ambire. (Luca Pessina)
La giornata prosegue con una vecchia conoscenza dell’organizzazione, dato che parliamo di un gruppo già ospite dell’edizione 2022 e che quest’anno è stato chiamato a ricompattare il bill dopo l’abbandono dei death/doom metaller Excarnated Entity.
Loro sono i MEPHITIC CORPSE da San Luis Obispo, California, e, pur avendo soltanto un demo all’attivo (il sobriamente intitolato “Immense Thickening Vomit” del 2019), mettono a segno quello che non esitiamo a definire un gran colpo, chiarendo di non essere venuti fin qui per fare da semplici tappabuchi. Giovane e affamatissimo, il terzetto americano si prodiga in una setlist inevitabilmente breve ma che, di contro, dispensa un passaggio più feroce e ficcante dell’altro, chiamando in causa ora i Broken Hope e i Cannibal Corpse degli esordi, ora la barbarie death/grind di Impetigo e Mortician, in un’orgia di ritmiche e riff tachicardici che ce ne fa subito appuntare mentalmente il nome.
Ad una presenza scenica ‘da nerd’ ormai consolidata nell’underground statunitense, specie se ci soffermiamo sul phisique du role del cantante/chitarrista Matt Rose, i Mephitic Corpse affiancano quindi suono a dir poco brutale e concitato, riproposto sull’onda di una frenesia che porta le corde del suddetto strumento a rompersi e lo show a interrompersi per un paio di minuti. A fronte del potenziale espresso in questa sede, speriamo che un full o un’uscita più corposa siano in dirittura d’arrivo. (Giacomo Slongo)
Gli OATH OF CRUELTY rappresentano un bel break all’interno di un cartellone che predilige il death metal più cupo e melmoso. I texani, guidati dal cantante/chitarrista Dave Callier, diversamente dagli altri colleghi presenti al festival, ostentano una forte vena thrash all’interno del loro death metal. Si parte da qualcosa accostabile agli Angelcorpse, ma poi si sfocia spesso e volentieri in un marasma prettamente death-thrash che strizza l’occhio a Morbid Saint, Protector e, ovviamente, primi Sodom e Kreator.
La parte del leone la fa il frontman, davvero indemoniato nel dettare modi e tempi della scaletta: abituato al grindcore del suo progetto principale P.L.F., Callier non concede tregua né a se stesso, né alla platea, prendendoci costantemente a frustate con i brani del debut “Summary Execution at Dawn” e dei demo e degli EP precedenti. La band non pubblica nulla di nuovo dal 2019, ma dato che nessuno l’ha mai vista prima da queste parti, lo show risulta comunque freschissimo e avvincente. Un piacere insomma ritrovarsi a rispolverare cartucciere e catene, prima di tornare ai temi maggiormente doom & gloom, o comunque più cupi, del resto del programma. (Luca Pessina)
Tra le chicche offerte da questa edizione dell’Unearthed Morbidity non possiamo non citare i CAUSTIC WOUND, progetto grind di Seattle formato da membri di Mortiferum, Fetid e Cerebral Rot e responsabile di un buon debut album su Profound Lore nel 2020 (“Death Posture”). Fin qui, la band non ha mai suonato granché in giro, complici gli impegni della line-up con la promozione dei vari “Excretion of Mortality” e “Preserved in Torment”, ma da gente tanto esperta sapevamo di poterci aspettare il meglio, cosa che puntualmente si verifica una volta giunta l’ora del suo slot sul palco.
Ecco quindi i brani del suddetto esordio, modellati su un corrosivo grindcore/death-grind di stampo americano, tra Brutal Truth, Phobia e Terrorizer, essere riproposti con un tiro e una compattezza inauditi, come se la band fosse arrivata a Copenaghen dopo un mese di tour e – di conseguenza – potesse contare su una memoria muscolare affinatissima. Atmosfere spettrali, digressioni doom e ritmiche limacciose vengono qui abbandonate in favore di un suono frenetico e urgentissimo, che però, vista l’innegabile capacità dei ragazzi di scrivere canzoni di senso compiuto, si mantiene sempre su un certo livello di rigore e intelligibilità, permettendo sì ai riff di esplodere in modo virulento e alla sezione ritmica di deragliare, ma anche di infilare varie parentesi groovy e ‘memorizzabili’.
Con il frontman Clyle Lindstrom (visto la sera prima alla chitarra dei Fetid) letteralmente su di giri e autore di una prova spaccatimpani non troppo distante dal parossismo dei cari vecchi Insect Warfare, il quintetto macina i brani del repertorio come se non ci fosse un domani, finendo ovviamente per esaurire il proprio discorso in una trentina minuti e mettendo davanti a tutto il fisico per fare piazza pulita del pit, ben lieto di massacrarsi sulle ripartenze catastrofiche di “Terror Bomber”, “Blast Casualty” e “Uranium Decay”. Solo mani in faccia. (Giacomo Slongo)
Dallo stato di Washington ci spostiamo in California con i MORTUOUS, loro sì in tournée per promuovere l’apprezzato “Upon Desolation” dello scorso anno. Come noto ai cultori del filone underground death metal, parliamo di una delle formazioni ‘del momento’ in questo campo, il cui stile si sta facendo via via sempre più maturo e la cui reputazione in sede live è già di quelle importanti, tant’è che non stupisce inserire il suo show nell’elenco dei migliori del festival.
Il quintetto, che nell’ultimo periodo ha accolto come bassista Erika Osterhout dei vicini di casa Acephalix e Scolex, si presenta sul palco a dir poco tirato a lucido (parliamo ovviamente della precisione e della compattezza nel suonare, non del look!), partendo come un carro armato per schiacciare ogni forma di resistenza sotto i cingoli del proprio suono catramoso e massiccio. Un po’ Immolation, un po’ Bolt Thrower, con stralci di melodia a ricordare le atmosfere afflitte della vecchia triade Peaceville, i Nostri sfoggiano a tutti gli effetti il piglio di una grande band, dando prova di un’alchimia e di un trasporto che a questo punto della carriera non potranno che portarli lontani. Così come su disco, la fisicità non viene mai meno (basti pensare ai riff sprigionati dalle chitarre di Colin Tarvin e Mike Beams, impegnati anche alle voci), ma volumi e distorsioni non celano comunque l’approccio narrativo alla base di episodi come “Days of Grey” e “Nothing”, tra gli apici – insieme a “Metamorphosis” e “Through Wilderness” – della setlist odierna.
E a riprova del cuore che i Mortuous ci mettono, sul finale, ecco Max Kohane dei compagni di tour Faceless Burial fare una ‘carrambata’ sul palco, impugnare il microfono e cantare brillantemente una “Subjugation of Will” che diventa così espressione di pura catarsi e comunione d’intenti. Ci aspettavamo tanto da loro, e non siamo stati affatto delusi. (Giacomo Slongo)
Difficile calcare il palco dopo un set esplosivo come quello dei Mortuous, ma i PHRENELITH sono ormai un nome consolidato di questa scena, quindi è d’obbligo prestare loro attenzione. I danesi, pur essendo stati poco attivi ultimamente, si presentano tranquilli e compatti e nel giro di breve tempo riescono a radunare davanti a loro tutta la gente che era uscita all’esterno per prendere un po’ d’aria dopo lo show degli amici statunitensi.
Con i Phrenelith andiamo a esplorare sonorità più ‘nere’ ed evocative, anche propriamente atmosferiche in certi casi, per una proposta che sinora si è anche permessa di sperimentare qualcosa restando in equilibrio fra death e black metal. Ritroviamo il buon David Mikkelsen (Undergang) alla chitarra e alla voce, ma qui il ruolo di frontman è ricoperto soprattutto dall’altro cantante/chitarrista della formazione, S.D., il quale in verità impiega qualche minuto per togliersi di dosso un po’ di ruggine e trovare la forma ideale.
In ogni caso, il set procede spedito, con brani pescati da tutte le fasi della carriera della formazione e un sostegno costante da parte degli astanti. Nella quarantina di minuti a disposizione, si fanno segnalare soprattutto “Once Fertile Soil”, estratta dallo split con gli Spectral Voice, e la maestosa “Ornamented Dead Eyes”, dall’omonimo EP, che è forse l’opera più esaltante nel repertorio del quartetto scandinavo. A conti fatti, una prova più che decorosa per una band che da qualche anno è stata assai meno attiva rispetto ad altri progetti che vedono coinvolti questi stessi musicisti. (Luca Pessina)
A chiudere serata e festival, ci pensano quindi gli SPECTRAL VOICE, al primo concerto su suolo europeo dal lontano 2019. Il periodo legato alla pandemia gioca brutti scherzi, tanto che non sembrano essere trascorsi tutti questi anni da quando abbiamo avuto modo di vedere il gruppo dal vivo l’ultima volta, ma il tempo sprecato a causa delle restrizioni legate al Covid e tutti quei momenti alienanti fanno spesso perdere la bussola a livello di ricordi. Detto ciò, c’è ovviamente grande entusiasmo in sala quando le luci vengono spente: gli americani amano esibirsi al buio e chi ha già avuto modo di ammirarli in concerto sa che il mood tenebroso tipico della loro musica si sposa al meglio con questo genere di ambientazione.
Poche luci blu fanno da contorno a una performance che vede i quattro statunitensi tirare dritto e rivisitare il loro repertorio death-doom con innato affiatamento, come se negli ultimi tempi i loro concerti fossero stati ricorrenti. A parte il batterista/cantante Eli Wendler, la line-up è tuttavia sempre impegnata con i Blood Incantation, quindi si può dire tutto tranne che ai Nostri manchi dimestichezza con la dimensione live.
La resa complessiva è insomma convincente come al solito, con poche pause fra un brano e l’altro o comunque senza alcuna vera interazione fra band e pubblico. Si cerca di far diventare lo show una vera e propria esperienza immersiva, ipnotizzando gli astanti con un flusso musicale il più continuo possibile. La platea difatti risulta presto completamente rapita e sempre più convinta dalla prova degli Spectral Voice, i quali, in circa un’ora, propongono sia classici noti ai più – vedi una “Thresholds Beyond” – sia pezzi più di nicchia, come “Katabatic Depths”, estratto dallo split con i Vastum.
Con i Blood Incantation sempre più affermati e richiesti, a oggi non sappiamo quali siano i piani per il futuro della band; tuttavia, davanti a concerti come questo, la speranza è che la carriera degli Spectral Voice riesca in qualche modo a proseguire e che possa regalarci nuove uscite discografiche e altri appuntamenti live selezionati. Intanto, annoveriamo quello di oggi fra gli show più riusciti di un festival che ha dato davvero grandi soddisfazioni a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di parteciparvi. (Luca Pessina)