Report a cura di Giovanni Mascherpa
Anche il progressive metal può avere la sua brava dimensione underground. Se le grandi platee si compiacciono di accogliere festosamente i Dream Theater in vaste arene un anno sì e l’altro anche, più in basso nella scala gerarchica c’è chi deve lottare per portare davanti a sé poche decine di persone, saltellando fra club di capienza ridotta. Se in Europa stanno fiorendo da qualche anno a questa parte diversi interessanti eventi dedicati alle sonorità ‘difficili’, accomunando sotto un unico cappello death metal, djent, hardcore, post-rock e proposte trasversali ai generi, in Italia i percorsi di prog modernista e contaminato non godono ancora di elevatissima popolarità. Così, in un mite giovedì sera di fine ottobre, mentre a pochi chilometri di distanza vanno in scena le rumorosissime esibizioni di Melvins (al Live Club di Trezzo), Monolord e Conan (presso il Bloom di Mezzago), al Legend ci sono circa cinquanta persone ad accogliere i francesi Uneven Structure, gli australiani Voyager e i giovani cesenati Outer. Gli headliner con il nuovo “La Partition”, uscito in primavera, stanno cercando di uscire dal ruolo di semplice band di nicchia, forti di una proposta che come quella di tanti altri coetanei sta gradatamente togliendo furore, per adagiarsi in levigati movimenti melodici, legati a interpretazioni alternative rock, se non talvolta pop. I Voyager, anche loro reduci da un full-length edito nel 2017 (“Ghost Mile”), ne sono un logico compendio, affini in alcune derive, per il resto molto più legati a concetti metal tradizionali. Gli Outer, a breve fuori con il primo ep, aprono giusto per quest’unica data italiana, ben contenti della visibilità concessa dal condividere il palco con due nomi già noti agli appassionati del settore. Sono già all’opera da qualche minuto, quando facciamo ingresso nel locale…
OUTER
Lo sparuto numero di persone presenti e un’atmosfera non esattamente infuocata non tarpano le ali ai ragazzi romagnoli, consapevoli di avere una bella chance da giocarsi e che non hanno alcuna intenzione di sprecarla. L’impeto è quello di chi vuole farsi notare in fretta e provocare un interesse che non scemi a fine concerto. Chiari i riferimenti a Tesseract e Periphery, lampante il desiderio di aggrovigliare le ritmiche in matasse fantascientifiche e di affidare a basso e batteria compiti di ulteriore complicazione del discorso, concedendo anche il giusto spazio a momenti groovy e di facile consumo. Per quanto assommino sezioni complesse ed esagitate l’una dietro l’altra, per chi segue questo tipo di suoni non è così difficile restare attaccati al fluire dei pezzi, che svelano gli attributi migliori quando i cinque placano leggermente gli animi e si intrattengono in partiture vagamente ariose. Guidati da una voce che, pur senza regalare sorprese, vanta una certa elasticità, gli Outer denotano una sensibilità atmosferica abbastanza matura; nessuno smielamento o furbo ricorso al ritornello ad effetto, piuttosto una calibrata alternanza di gesta iraconde e sospensioni indecifrabili, che avvengono in misure e modalità sufficientemente personali e diversificate fra un brano e l’altro. Sentiremo come veicoleranno su disco un tale bailamme di intuizioni, la prima prova live al nostro cospetto è stata positiva.
VOYAGER
Ci vuole una costanza non da poco per essere ancora qua, a quasi vent’anni dagli esordi, ad imbarcarsi in una tournée lontano migliaia di chilometri da casa, per comunicare solo a una ristretta manciata di astanti la propria visione della musica progressiva. Eppure si sono mossi dagli antipodi per trascorrere un mese in giro per il Vecchio Continente, i Voyager, per nulla abbattuti dal dover esibirsi di spalla a un gruppo più giovane e dalla discografia più scarna. A farsi notare immediatamente è la singolare voce del leader Danny Estrin, pervasa da una leggerezza di piuma, nonostante emerga facilmente e senza sforzo alcuno al di sopra di un chitarrismo potente e fondato su suoni puliti ma compressi, come il prog degli anni 2000 vuole. Si sente che i Voyager, pur suonando musica di ultima generazione, hanno familiarità e apprezzamento per il power e l’agile prog metal di prima metà degli anni Novanta, da cui ricavano una notevole immediatezza e orecchiabilità di fondo, anche quando sfoderano gli artigli. Decisamente eterogeneo negli approcci il materiale proposto, che fa affidamento a un camaleontismo ordinato e ad arrangiamenti che in più occasioni escono dall’alveo metal in senso stretto. Qualche stordente beat elettronico va a infarcire di sfumature inattese le canzoni, che possono snodarsi tranquille, in siderali dormiveglia, oppure accendersi in vampate di violenza, adeguatamente mitigate da armonie di fondo e mai devianti in barbarie sconsiderate. Cerebralismo e istintività in questo caso non tolgono spazio l’uno all’altro, il quintetto può ricordare i passi recenti dei Fates Warning, oppure il fitto thrash multicolore dei Nevermore degli ultimi dischi, non disdegnando né l’aggressione spiccia, né evoluzioni soliste perfettamente inserite nello sviluppo delle singole composizioni. Piace molto l’atteggiamento privo di pose e carico di entusiasmo dei musicisti, che ci mettono pochissimo a entrare in sintonia con il pubblico e si vedono premiati da un supporto sempre più caloroso con il trascorrere del tempo. Menzione d’onore alla piccola chitarrista Simone Dow, uragano d’energia e strumentista di talento, pietra angolare del sound multiforme dei Voyager.
UNEVEN STRUCTURE
Puntuali sulla tabella di marcia, gli Uneven Structure prendono possesso del palco sull’intro di “Alkaline Throat”, opener dell’ultimo disco. Negli ultimi mesi vi è stato un lieve assestamento in line-up, con l’uscita di uno dei tre chitarristi. Cambiamento che non va a influire granché, a dire il vero: due chitarre bastano per ricamare traiettorie oblique fra galassie e pensierose lamentosità, il cui potere rasserenante viene posto in costante pericolo dalle poliritmie fragorose della batteria. Collaudati da un’attività concertistica fattasi intensissima quest’anno, i cinque ci portano sulle montagne russe del loro prog sfaccettato e caleidoscopico. A proposito di colori, un arcobaleno di luci ci viene scaraventato addosso da due proiettori posti alle spalle dei musicisti, che appaiono trasfigurati da queste colate di luce frastornante, mutevole com’è il suono stesso del gruppo. Live, la potenza brutale messa in retroguardia per una larga percentuale di “La Partition” ritorna a mordere e distruggere, il bisogno di fisicità si traduce in sincopi ragionate e calibrate al millimetro che riportano a uno scenario di tipo meshugghiano, come in effetti accadeva ai tempi del primo ep “8”. Se devono metterla sulla pesantezza, gli Uneven Structure non si tirano indietro, martellando famelici con chitarre panterizzate, glassate di fluorescente patina digitale. Ciò senza andare a discapito degli arazzi vocali di Romarin, vocalist che non ha da vantare un carisma eccelso, ma che ha padronanza tecnica, cuore e controllo a sufficienza per non perdere il confronto con il sè stesso in versione studio di registrazione. Se gli album possono soffrire di una fredda compostezza di fondo, dal vivo è un’altra storia: calore e bramosia di comunicare la propria articolata idea di metal portano i ragazzi a tirar fuori quel qualcosa in più che li tramuta in una live band di prima categoria. Come e più che per i Voyager, i presenti non si fanno pregare nel tributare apprezzamento, così che l’ora di esibizione scorre fin troppo veloce, emotivamente vertiginosa, pencolante alla perfezione fra meditazioni e duri scossoni. Si torna a casa soddisfatti.