23-24/09/2022 - VENEZIA HARDCORE FEST 2022 @ Centro Sociale Rivolta - Venezia

Pubblicato il 02/10/2022 da

Report di Vanny Piccoli e Marco Tumiatti
Foto di Enrico Dal Boni

La scena hardcore italiana si distingue principalmente grazie alle piccole realtà dei vari collettivi che organizzano concerti lungo tutta la penisola, principalmente in ottica DIY. In Veneto, per la precisione nel veneziano, gran parte dell’attività hardcore è tenuta in piedi dal collettivo Trivel che ormai quasi dieci anni fa ha dato vita a quello che è il Venezia Hardcore Fest. Nel giro di pochi anni il festival è cresciuto parecchio, definendosi “un concerto in sala prove che non ha mai smesso di sognare”: possiamo dire che all’effettivo non ha mai davvero smesso di farlo, diventando un punto di riferimento a livello internazionale. Basta dare un’occhiata alle locandine delle edizioni passate per capire cosa mettono in campo i ragazzi di Venezia. Tra Satanic Surfers, To Kill, Nabat, Mustang e Celeste, presenti all’ultima edizione nel 2019, fino agli Integrity, The Secret e The Varukers per l’edizione del 2018. Poi è arrivata la pandemia a mettere in pausa le nostre vite tra musica dal vivo e concerti. Il collettivo Trivel però, non ha mai smesso di fermarsi nemmeno durante questi momenti drammatici, attendendo la possibilità di poter creare nuovamente questa grande situazione musicale di unione tra collettivi e volontari. Dopo tre anni e mezzo l’ultima edizione, il Venezia Hardcore Fest ritorna e lo fa in grande stile. Nel bill a fare da headliner troviamo i Dropdead dal Rhode Island, mentre tra le varie band sono presenti The Flex e Big Cheese da Leeds (già visti nell’edizione del 2017), i quali formano i Fate unendo le due formazioni. Escludendo questi gruppi, tutte le altre band del pacchetto arrivano dallo stivale e per molte di queste è la prima apparizione al festival. Dopo aver portato in laguna formazioni provenienti da tutto il mondo, la crew veneziana ha evidentemente deciso di dare più spazio ai nomi storici italiani per l’edizione di quest’anno, al fine di essere un punto di riferimento anche per le band underground italiane.

VENERDÌ 23 SETTEMBRE
Il festival viene ospitato come sempre dal Centro Sociale Rivolta di Marghera, che mette a disposizione una vasta area all’interno dei propri cancelli. Al suo interno troviamo un piccolo giardino che delimita l’estremità a sinistra e una lunga area chiusa su tre lati dai vari locali. In quest’area esterna troviamo un chiosco pronto a spinare birre e varie zone chill con tavoli e panche. All’interno del centro sociale è presente anche un’osteria che offre aperitivi in puro stile veneziano, accanto ad uno spazio più grande adibito a pizzeria. Proseguendo l’esplorazione dell’area del festival ci addentriamo dentro al grande hangar che ospita tutti i banchetti merch delle band e del festival, le varie distro, un bel po’ di illustratori e tatuatori, ed una grande rampa da skate addobbata da grandi banner Vans, sponsor dell’evento, pronta ad essere macinata a forza di sfide tra i numerosi skater. I palchi destinati alle esibizioni delle band sono due, il Nite Park e l’Open Space, entrambi al chiuso. Il Nite Park ha un effetto da venue oscura grazie alla stanza rettangolare, lunga e bassa con le luci poste solamente sopra al palco all’estremità del locale. L’Open Space invece si trova all’interno di una stanza quadrata, di dimensioni leggermente più grandi del Nite Park, ma sia palco che soffitto sono molto più alti e grandi luci bianche illuminano tutta la stanza, palco compreso. Il sole è appena tramontato ed i primi paganti iniziano a popolare le aree del Rivolta. Vediamo volti sorridenti, molte persone si riabbracciano dopo lungo tempo e sentiamo nell’aria una positiva voglia di stare insieme.
Sono circa le 20 quando lo screamo/hardcore dei local MOTHER inizia a sprigionarsi sul palco dell’Open Space. Uno dei due chitarristi si presenta con la maglia del Venezia calcio e possiamo sbilanciarci nel dire che sarebbe davvero difficile pensare ad uno stratagemma migliore per rappresentarsi come una band locale in questa situazione. Lo show di benvenuto del quintetto veneziano comincia immediatamente con il botto, i ragazzi sono carichi a mille ed incanalano tutte le loro energie saltando e caricando il pubblico di good vibes. Una proposta emotiva e coinvolgente, definita da brani dell’EP di debutto “Love Vision”, come “Colorless Boy”, “Perspectives” e “Mom” fino al nuovo singolo “Dillydallying”. Il pubblico reagisce subito bene e popola le prime file dell’Open Space: gli spettatori del Rivolta sono infatti abituati a vedere questa band, nonostante gli ultimi anni difficili, e rispondono in modo positivo allo show. I Mother ringraziano ed augurano a tutti i presenti di passare un buon festival, mentre praticamente tutti i loro componenti saranno impegnati a farlo funzionare al meglio come membri della crew.
Ad aprire le danze del festival per quanto riguarda il palco Nite Park ci pensano CHEAP DATE e BLVD OF DEATH direttamente da Caserta, con un set sostanzioso, visto che le band condividono metà dei propri componenti. I primi cominciano il proprio set mentre la stanza inizia a popolarsi di spettatori incuriositi; qui il loro alternative sull’impronta dei Drug Church, un po’ grunge e un po’ punk, è il giusto riscaldamento per questa serata e sembra essere apprezzato dal pubblico. La band inizia con il materiale presente nei vari EP pubblicati, prima in modo sorprendentemente placido, per poi alzare sempre di più il tiro in maniera energica. Al microfono vediamo Leandro Ferraiuolo, già chitarrista nei Face Your Enemy, che sa come mettere insieme i pezzi altalenandosi tra parti rilassate, cori, e ritornelli spinti aumentando sempre di più l’intensità della performance. Il gruppo riesce anche a rallegrarci con la canzone omonima “Cheap Date”, strappando il sorriso al pubblico, per poi mostrare di nuovo i denti nell’ultimo brano e uscire sfumando su “Promised Not To Go”. Il tempo di scambiarsi gli strumenti e cambiare cantante ed ecco che ci troviamo di fronte ai Blvd Of Death con Edoardo Zavarella alla voce. La loro proposta tende all’hardcore di scuola newyorkese anni ‘90, al quale intrecciano con cura suoni moderni per ringiovanirla e farla loro, alternando continuamente riff taglienti e parti mosh. I casertani partono fin da subito decisamente incazzosi, lanciandoci con prepotenza nel pieno dello spirito hardcore del festival. La band macina canzoni da entrambi gli EP “Hate Too Much To Love…” e “Hell Is Full Of Good Intentions”, e grazie al lavoro delle sezioni ritmiche si vede l’inizio di un leggero moshpit tra le prime file, dove qualche temerario inizia a spingersi e scalciare durante alcuni dei breakdown più pesanti. Per quanto il NYHC dei Nostri sia un genere ormai trito e ritrito e a tratti ripetitivo, le loro canzoni si distinguono e presentano qualità, dovuta anche al fatto che i componenti hanno alle spalle una lunga esperienza nel genere. Il pubblico reagisce molto bene a “Poison”, “Survive”, “Choices”, per poi congedare la band sulle note di “Hate Too Much To Love…” e dirigersi verso l’Open Space. Notiamo ancora più volti felici tra i presenti. La gente sorride e sembra innegabilmente entusiasta di questa ripartenza in grande stile hardcore.
Il festival continua con il quartetto vicentino JAGUERO, con componenti provenienti da Regarde, Step On Memories e Slander, tra gli altri. La band è fresca di nascita – infatti è uscita solo quest’anno con un paio di singoli che preannunciavano l’uscita dell’EP di debutto – e hanno ancora poche date all’attivo; questo suscita la nostra curiosità di vederli sul palco. I ragazzi, a forza di cori e singalong in perfetta intesa con il centinaio di presenti sotto al palco, suonano tutti i pezzi di “Worst Weekend Ever”, per poi regalarci altri due brani inediti, che confermano la qualità di scrittura ed esecuzione già riscontrati nei brani dell’EP appena citato. A questo hardcore emotivo con qualche vena grunge di fine anni ‘90 il pubblico risponde decisamente bene, tanto che durante “The Worm”, brano più veloce e più punk, i Jaguero attirano completamente l’attenzione degli astanti e se la tengono stretta fino alla fine della scaletta, per un set rapido (appena venti minuti), ma carico di un hardcore veloce e grezzo con al proprio interno varie melodie orecchiabili.
Torniamo in Nite Park per un altro doppio show sostanzioso con KONQUEST e GAME OVER. La band toscana con Alex Rossi alla guida calpesta il palco in perfetto orario e inizia da subito a farsi conoscere al pubblico del Rivolta, facendo alzare la temperatura in sala con assoli tecnici, cori e cavalcate performanti in pieno stile NWOBHM. Gli spettatori vengono incitati a muoversi e reagiscono benissimo, lasciandosi andare ad un pogo rovinoso. La proposta della band, ovviamente un po’ influenzata dai primi Iron Maiden ma anche dai Thin Lizzy, viene apprezzata tra i presenti, pur non essendo abituati a una performance di questo tipo ad un concerto hardcore. Il giusto impatto viene creato anche dalle scelte di scaletta, che vede brani più tecnici tratti dall’ultimo disco “The Night Goes On”; la setlist fa impazzire il pubblico fino a portare ad un ultimo crowd surfing generale sugli assoli di “Something”.
La band si gode un meritatissimo lungo applauso e lascia il palco ai Game Over. La band di Ferrara ormai è di casa qui a Venezia, perchè i vari collettivi dietro la crew del festival li hanno portati più volte in provincia nel periodo pre-pandemia, incassando un ottimo riscontro. I ragazzi sembrano superpadroni del palco, pettinando il pubblico con un thrash metal vecchia scuola ad altissimo livello: ‘Sanso’ e soci sparano brani tecnici presi dai primi tre album, partendo da “33 Park Street” e “Fix Your Brain” di “Crimes Against Reality”, per poi assestare “Seven Doors To Hell” e “Masters Of Control” da “Burst Into The Quiet”. Gli spettatori nelle prime file rispondono convinti ai cori energici e rimangono fedeli a questo palco, pogando sopra ogni tupa-tupa e urlando di euforia dopo gli scambi di assoli perfettamente eseguiti ad ogni pezzo. La band emiliana ringrazia calorosamente la crew del Venezia Hardcore Fest per l’ospitalità e per la fedeltà ad ogni pausa del set, mentre un muro di suono ci investe come un trattore che avanza inarrestabile  grazie alla doppia cassa martellante su “Last Before The End”, per poi salutarci con “Neon Maniacs”, tra incroci di riff e ripartenze coinvolgenti.
Cerchiamo di riprenderci velocemente dai cazzotti presi nel pit per dirigerci nell’Open Space. Le luci bianche della stanza illuminano il palco e ci troviamo di fronte ai milanesi BARATRO, freschi di soundcheck appena terminato. La nostra attenzione cade immediatamente sul muro di amplificatori con davanti un basso, inmbracciato da Dave Curran degli Unsane (sì, proprio lui!). Alla chitarra e alla batteria troviamo Federico Bonuccelli e Luca ‘Gj Ottone’ Antonozzi, rispettivamente nelle formazioni originali di Council Of Rats e Marnero. Il trio, dopo un veloce saluto, fa fischiare gli amplificatori ed inizia a travolgerci con un muro sonoro velenoso. Nonostante il curruculum da ‘all star’ dei componenti, i Baratro sono una band nuova, con un unico EP all’attivo (“Terms And Conditions”, uscito nel 2021 per Sangue Dischi). Dave e soci suonano tutti i brani dell’EP con un’attitudine estrema e chirurgica attitudine, dispiegando una proposta perfettamente lineare al noise rock degli Unsane, ma con sequenze di riff mathcore e post-punk ad accompagnare il flow decisamente più sludge arbitrato dalla batteria. La voce tagliente di Dave Curran spicca tra gli strumenti e ci entra inconfondibilmente nelle orecchie come un chiodo. Il sound creato investe come un treno in corsa tutto il pubblico che riempie completamente la sala, macinando le orecchie a tutti e facendo partire un violentissimo pogo nelle prime file. La temperatura inizia ad alzarsi parecchio ma a nessuno importa, siamo tutti magicamente concentrati a seguire la psichedelia di ogni sezione ritmica ed ogni ripartenza al rallentatore, in un’ondata di groove cadenzato e pesantissimo. Tra un brano e l’altro ci si ricompone e ci si asciuga il sudore che cade dalla fronte, ma brani come “Never Better” e “The Divine Commodity” fanno nuovamente infiammare il pit. Al termine della scaletta il pubblico è entusiasta e i ragazzi sul palco, con le mani congiunte in segno di estrema gratitudine, contraccambiano gli applausi.
Corriamo senza un minuto di sosta al Nite Park dove le luci illuminano il palco di un bel rosso acceso ed infernale. Puntualissimi, salgono sul palco i GUINEAPIG: il trio parte subito fortissimo con “Ocular Tormentor”, opener del nuovo disco “Parasite”. Il goregrind a sette corde messo in campo dalla band viene sorretto da un bel sound moderno da motosega che ci demolisce i timpani, mentre i due frontman del trio romano si scambiano continuamente alla voce, alternandosi tra un urlato incazzoso e un growl effettato alla General Surgery. La formula della scaletta infuocata vede l’alternanza costante di brani tra l’ultima release e “Bacteria”, uscito nel 2018 – a “Plasmodium” e “Maruta” si susseguono “Cyclopia”, “Taxidermia” e “Project Sunshine”. I pezzi sono definiti e quadrati, il rullante ci entra nei timpani come un trapano durante i blast-beat e accompagna il costante pogo violento (con headbanging di contorno) nelle prime file di fronte al palco. “Rice Blast Fungus”, “Zatypota” e “Coccobacilli” trainano l’headbanging generale ed il crowd surfing ancora di più, grazie ai d-beat da martello pneumatico, per poi concludere squisitamente con “Mermaid In A Manhole” e “Terminator Mosquito”.
Ci prendiamo qualche attimo di pausa per recuperare il fiato e concederci una birra fredda prima di recarci nuovamente in Open Space: alla nostra entrata in sala troviamo un bel po’ di persone a ridosso del palco di fronte ai RAW, direttamente da Cagliari. Kambo, il frontman, si presenta in classica tenuta sadomaso e fetish, abbellita inoltre da qualche ‘ornamento’ in più (cappello e mantello da vescovo ed un crocifisso nero). Giusto il tempo di introdursi con un discorso antireligioso e via, si parte con una raffica di pezzi in puro stile hardcore punk.  “The Land Of Sun” dà il via allo show, opener dell’ultima uscita “I Want The World To Be A Bar Of Star Wars” (quinto disco, uscito ad inizio pandemia), la gente riempie la stanza dell’Open Space e si lascia andare al tiro grezzo e veloce della compagine. Brano dopo brano, le sezioni ritmiche si fanno più forsennate e devastanti, impreziosite anche da parti più melodiche di chitarra, comunque di pregevole fattura, che strizzano l’occhio a band più ‘scure’ come i Discharge. L’urlato di Kambo è tagliente e fa effetto sul pubblico, che intona i vari cori dei ritornelli di “I Hate Raw”, “I Want The World To Be A Bar Of Star Wars” e “Is Mirrionis Is Better Than Brooklyn”. Scatta il pogo e Kambo decide di scendere dall’alto palco per andare tra la folla, getta il cappello ed il mantello da vescovo e urla il testo di “If The Cats Are United” in faccia ai presenti, mentre qualcuno cerca di frustarlo scherzosamente con il cavo del microfono. Al termine del pezzo, l’impianto del palco smette di dare segni di vita, ma dopo qualche attimo di sgomento totale, tra urla di apprezzamento e applausi, Kambo dà ordine ai suoi compagni di band di riprendere a suonare nonostante i problemi tecnici. Danno ‘il quattro’ per “Wish You Were Queer!”, singolo di presentazione dell’ultimo disco, che dà il via al singalong generale tra pubblico, frontman ed il resto della band, rimasta sul palco a gridare. Tutta la situazione manda in visibilio i presenti in sala, che incitano i Raw a continuare imperterriti. Kambo sa di avere il pubblico dalla sua parte e decide quindi di recuperare il crocifisso nero, lo alza sopra la testa e lo gira sottosopra per poi appoggiarlo lentamente tra le nude natiche, condito da numerosi bestemmioni in dialetto veneto dal pubblico ed è così che la band sorridente procede ad eseguire gli ultimi pezzi della scaletta, tra le risate e le imprecazioni, con un paio di cover per concludere il set: “I Kill Everything I Fuck” di GG Allin, e “Mongoloid” dei Devo; la conclusione perfetta, possiamo dire, mentre Kambo fa un lungo crowd surfing seminudo e i fan cantano in coro gli ultimi pezzi. Sicuramente questo live, pur con le varie complicazioni annesse, ha dato una carica incredibile al pubblico presente, che si dirige sorridendo verso il Nite Park.
È il turno dei FULCI, headliner del palco Nite Park, e noi siamo pronti a goderci uno spettacolo death metal cinematografico. La formazione di Caserta è reduce dal secondo tour americano, è carica a mille e preme subito l’acceleratore a tavoletta con “Vodoo Gore Ritual” e “Tropical Sun”. Il sound della drum machine agisce sui nostri timpani come una mazza chiodata, ed il tutto è reso ancora più massiccio dal supporto di Leandro Ferraiuolo alla seconda chitarra. Il pubblico riempie completamente la sala e la temperatura si alza di molto, come se ci trovassimo ad una serata estiva in un club al chiuso. Mentre il quartetto esegue “Tomb” e “Apocalypse Zombie”, tra le prime file scatta un violentissimo moshpit, che comunque non fa cessare qualche tentativo di crowd surfing. Ripartenze, rullatone, blast beat e riffoni in tremolo picking definiscono la robusta proposta dal vivo dei Fulci. La band propone l’ultimo singolo “Lonely Hearts”, per poi passare a “Legion Of The Resurrected”, “Fantasma” ed “Eye Full Of Maggots” facendo rimbalzare il pubblico con un headbanging senza fine. Man mano che i brani si susseguono il pogo si fa sempre più violento, tanto che i ragazzi dell’organizzazione fanno fatica a contenere i malcapitati che cadono a bordo palco. I Fulci sono inarrestabili e i riff si fanno sempre più taglienti, la proposta live è validissima e la scaletta eseguita è impeccabile. I brani vengono pescati da tutti i dischi e alternati in maniera esemplare tra “Tropical Sun”, “Opening The Hell Gates” ed “Exhumed Information” producendo cambi di groove decisamente efficaci. Il quartetto casertano spara le ultime cartucce – “Nightmare”, “Among The Walking Dead” e “Genetic Zombification” – mentre giù dal palco ci si ammazza di botte. La proiezione dei visual horror termina e dal pubblico parte un caloroso lungo applauso di apprezzamento.
Cerchiamo di recuperare qualche briciolo di energia e ci spostiamo in Open Space per il secondo headliner di questa prima giornata di festival. Ci addentriamo a fatica all’interno della sala che ospiterà il set dei DROPDEAD. L’Open Space è colmo di gente che tenta di trovare uno spazio per intrufolarsi all’interno, accedendo anche dalle due entrate opposte, a ridosso del giardino del Rivolta. Attendiamo tutti con leggera agitazione il quartetto di Providence, Rhode Island ma ecco che, dopo qualche minuto di attesa, Bob Otis e soci prendono posto sul palco. Qualche feedback assordante, risuonato dagli amplificatori, e lo sguardo fisso diretto al pubblico danno il via ad una carrellata di brani feroci dal sound abrasivo. Lo show è un totale delirio, la loro carica viene trasmessa subito al pubblico, che non perde tempo ed inizia un pogo sostenuto nel pit, con inserti di stage diving da parte dei superstiti, giusto per gradire. Gli unici attimi di respiro arrivano nei momenti di break che la band si prende per lasciar parlare Bob: i Dropdead sono ritenuti una specie di istituzione all’interno del mondo del DIY, soprattutto a livello ideologico ed attitudinale, ed il frontman infatti spiega più volte la posizione della band sul fronte dei diritti umani ed animali; non tarda a soffermarsi sul loro punto di vista contro ogni tipo di prevaricazione, discriminazione e sottomissione, ribadendo i vari concetti di impegno politico su cui si basano i loro testi, accolti con grande favore dagli spettatori. La proposta del quartetto americano a cavallo tra hardcore, powerviolence e grindcore rudimentale è implacabile e, pur contando più di quindici release in bacheca, la scelta dei brani eseguiti in questo show è limitata ai self-titled del 1993 e del 2020. Passiamo infatti da “Prelude”, “Torches”, “Only Victims”, “Book Of Hate” e “The Future Is Yours”, presenti nell’ultimo album, alle più note “Hopeless”, “Bullshit Tradition”, “Control” e “Unjustified Murder”. Bob e soci si prendono un’ultima pausa, questa volta per salutare e ringraziare l’organizzazione prima di scaraventare sui presenti l’ultima “At The Cost Of An Animal”. Scatta un lungo applauso di rispetto da parte del pubblico, pronto a congedarsi prima di disperdersi nelle varie aree del festival o prepararsi ad una breve notte di riposo.

 

SABATO 24 SETTEMBRE

Qualche nuvola di troppo inizia a muoversi sopra il cielo di Marghera nella tarda mattinata di sabato. Sono le 14 ed i cancelli del CS Rivolta si aprono per far entrare i primi arrivati all’interno del festival. Il tempo di gustare qualche prelibatezza all’osteria ed arrivano le 16 e mentre fuori cadono le prime gocce di una pioggia destinata ad accompagnare tutta la serata, nella zona Open Space gli SWALLOW aprono ufficialmente le danze di questo secondo giorno di festival, freschi dell’uscita del loro ultimo full-length “Sweeping”. Il quartetto locale spinge subito sull’acceleratore e lancia una serie di sfuriate grindcore che non lasciano respiro. I cambi tra una canzone e l’altra sono serratissimi e gli intermezzi midtempo all’interno dei pezzi lasciano appena lo spazio per riprendersi dal riffing inferocito che contraddistingue la proposta dei nostri. Nella sala nel frattempo si è radunata una cinquantina di persone, e mano a mano che ci si addentra nella scaletta, condita da riferimenti al mondo del cinema e delle serie TV – tra tutte “Warriors”, in omaggio a “I Guerrieri della Notte”, e il pun “Stress & the City” – i presenti iniziano a farsi avanti scuotendo la testa al ritmo dei pezzi degli Swallow, che sfruttano appieno i loro venti minuti di set sparando un totale di dodici velocissime cartucce.
Ad aprire il secondo giorno sul palco Nite Park ci pensano i genovesi COCKS: la band parte immediatamente bella convinta e suscita da subito qualche sorriso divertito tra i (pochi) presenti in sala, parzialmente convinto dall’incontro tra hardcore melodico con chitarroni dal tono vivace e punk rock decisamente cadenzato proposto dai musicisti. Il quartetto ligure mette in campo brani tratti dalle ultime release “Arena” e “Good Luck, Have Fun” mescolando a dovere melodie e velocità ad alto rendimento, ma creando una certa atmosfera malinconica che ci trasporta fino alla fine del set.
Dopodichè ci dirigiamo nuovamente in Open Space, dove troviamo i SECOLI MORTI ad attenderci. È il turno del trio punk hardcore milanese formato da Edoardo (tredici anni) alla batteria, il padre Mattia (ex bassista degli Skruigners) e Walter dei Menagramo, all’attivo dal 2018 e già conosciuti anche al di fuori del pubblico ‘di settore’ per la partecipazione ad Italia’s Got Talent. Sicuramente il fatto di essere figlio d’arte aiuta, ma Edoardo è indubbiamente un piccolo talento e al di là della peculiarità anagrafica, la proposta dei Secoli Morti si presenta come un ottimo hardcore old-school infarcito di ritmi serrati e stop-and-go chirurgici, con un riffing classico ma efficace ed una predilezione per i ritornelli da stadio, il tutto sorretto da una sezione ritmica solidissima – sarà l’alchimia padre-figlio?
La scaletta alterna brani estratti dai dischi “La Paura” (2020) e dal self-titled “Secoli Morti” (2018); tra il pubblico la gente sorride ad ogni rullata, apprezzando l’operato di Edoardo, che si rivela ‘tanta roba’ sia per velocità che per dinamica: il ragazzo batte come un fabbro, e nel giro di venti minuti convince tutti. “Contagio”, nel blocco di chiusura, è forse il pezzo più efficace per sviluppo e resa live, tanto che la carica generata dal set dei Secoli Morti inizia a muovere un numero maggiore di spettatori verso il Nite Park.
Molta gente si fa avanti in prima fila ad aspettare l’ingresso sul palco dei MONDAZE. Il quartetto di Faenza comincia la propria esibizione con vari brani dal loro full-length di debutto, “Late Bloom” e le luci completamente rosse, accese sopra al palco, aiutano a creare la giusta atmosfera shoegaze nebbiosa, canzone dopo canzone. Il loro set è molto tranquillo e calmo ma ciononostante risulta piacevole e soddisfa il pubblico, che accetta la proposta messa in campo dai romagnoli. I vari intrecci dei riff chitarristici dalle leggere influenze grunge spuntano fuori dalla viscosità dell’atmosfera creata e arrivano dritti al punto, portando molti applausi alla fine del live.
L’Open Space ospita ora il punk rock melodico dei MADBEAT, quartetto torinese all’attivo dal 2013 ed in grado di coinvolgere da subito i presenti grazie ad una riuscitissima proposta, che trova il suo punto di forza nelle linee vocali estremamente catchy, valorizzate da una sezione strumentale ben costruita e senza eccessi. Da subito il cantante invita i presenti a farsi sentire: il pubblico, ormai oltre il centinaio di persone, non se lo fa ripetere due volte e con “Luci Rosse”, titletrack dell’ultimo lavoro assistiamo anche ad un featuring sul palco con Eugenio dei Bull Brigade. “Perdere” è il pezzo più interessante del lotto, una cavalcata punk rock sostenuta fino ad esplodere nel ritornello, che si stampa dritto in testa. In chiusura, primi accenni di pogo: ormai i motori sono caldi ed è già ora di correre al Nite Park per i THE FROG.
È il turno del duo veronese per aumentare i bpm grazie al loro metal/punk. I ragazzi si presentano entrambi in completo camicia/pantalone Doomsday e sfoggiano una sportivissima fascetta bianca alla fronte; giusto il tempo di un breve soundcheck e i Nostri sparano a raffica i pezzi dei due EP che finora hanno all’attivo, “Unstoppable Tractor” e “Bovolone Frog City”. Il sound è d’impatto e omogeneo nonostante l’assenza di chitarre,ma al basso troviamo comunque un musicista capace di attirare totalmente la nostra attenzione, rifilando riff su riff dall’anima thrash metal, mentre senza alcuna fatica il batterista lancia urla incazzate sopra ogni beat e ripartenza, aiutato dai cori del bassista, nell’euforia tra i presenti nelle prime file. A chiudere il brano “Burney Gumble”, il duo di Bovologne sforna un estratto di “I’m Broken” dei Pantera a mo’ di saluto finale del pubblico, appagato e sorridente.
Direttamente dalla capitale, gli SHORT FUSE partono in quarta sopra il palco dell’Open Space con il loro hardcore/metalcore, e da subito le loro intenzioni sono chiare: con “Sandstorm” e le successive “The Fallen” e “Liberation Dance” il cantante salta come una cavalletta impazzita, creando subito il contatto giusto con il pubblico per generare un po’ di moshing. La band ha energia da vendere, e nelle (poche) pause il cantante degli Short Fuse si ritaglia uno spazio per spendere due parole sul ritorno ad una normalità che era decisamente mancata negli scorsi anni, ringraziando di cuore i presenti e tutta l’organizzazione. I brani del quintetto romano risultano perfetti per la dimensione live: i breakdown sono funzionali ai pezzi e quasi mai forzati, mentre i riff, specie per quanto riguarda il brano di chiusura, “Coming Back”, risultano tecnicamente interessanti pur non andando mai sopra le righe, contribuendo così a valorizzare il sound generale, accolto positivamente da un pubblico sempre più folto e coinvolto.
Si ritorna al Nite Park e sul palco troviamo i GOLPE. Qualche feedback tagliente inizia ad uscire dagli amplificatori e subito si inizia rapidi con un hardcore vecchia scuola con varie sonorità raw punk bellicose. Tadzio Pederzolli (Skruigners, Holy) alla voce sputa i testi impegnati in faccia ai presenti in prima fila, che rispondono a tono, urlando i ritornelli al microfono. “La Colpa È Solo Tua” provoca il primo pogo della giornata, proseguito fino alla fine del set dei milanesi. Il pubblico conosce le canzoni e si fa trasportare dal tiro deciso dei brani, abrasivi per la presa di posizione contro la politica istituzionale e la repressione.
Le botte del pogo ed il tiro raw punk dei Golpe ci hanno procurato una giusta carica per continuare a rimbalzare tra un palco e l’altro. Tocca ai WHY EVERYONE LEFT, formazione pop punk di Modena che richiama gruppi come A Day To Remember e All Time Low. Consci del fatto di risultare forse un po’ fuori fuoco rispetto al contesto generale, i WEL ringraziano il pubblico, comunque interessato alla proposta dei ragazzi. Nonostante il piccolo problema tecnico per la voce durante il set, i Why Everyone Left portano a casa una performance tutto sommato soddisfacente e “T.A.S.A”, pezzo in italiano in featuring con Elio dei Last Confidence – che nel frattempo ha posato momentaneamente la videocamera con cui sta seguendo il festival, per agguantare un microfono – risulta uno tra i più riusciti, alternando una strofa dal sapore vagamente nu metal ad un ritornello squisitamente pop, capace di catturare la voce e l’attenzione dei fedelissimi sotto il palco.
La seconda band locale della giornata prende posto sul palco del Nite Park per quello che si prospetta essere un ottimo show di reunion, ed ecco i 400 COLPI: la formazione presentata è quella del 2011, con l’aggiunta di ‘Seba’ degli Zeit alla seconda voce, già comunque presente nella line-up del 2009, per accompagnare le urla di ‘Cino’ (As The Sun, Maat Mons). Troviamo invece come inedito Stefano ‘Buraz’ alla batteria, ex Danny Trejo e attualmente nei Six Eyed Tiger. Un veloce intro con “Si può… fare!” direttamente da “Frankenstein Junior” dà il via allo show. Ritmi serrati in dbeat e riff gelidi di chitarra trascinano il pubblico a fare headbanging seguendo il groove brano dopo brano. Il quintetto, diviso tra Venezia e Bologna, spara cartucce presenti in tutti e tre i dischi rilasciati: i riff di chitarra in “Kane”, “Hibakusha” ed “Effetto Domino” direttamente dall’ultimo disco “Homo Homini Lupus”, regalano al deciso hardcore suonato una patina di aria fredda che odora di Svezia. La band chiude con “Stato D’Assedio”, storico singolo di debutto, prima di ringraziare calorosamente il pubblico di casa, che in cambio regala un sonoro lungo applauso di gratitudine. Set più corposo per la combo hardcore BIG CHEESE e FATE (questi ultimi con formazione mista che include membri degli stessi Big Cheese e The Flex) direttamente da Leeds, prime band non italiane a calcare l’Open Space in questa giornata. Sulla cassa del basso campeggia la bandiera del Galles, e dopo qualche secondo di feedback aprono il set i Fate: il cantante – lo stesso dei The Flex – è un colosso che sbraita con voce profonda e incazzata su riff e ritmi quasi tribali, tra rallentamenti e riprese repentine il pubblico si dimena, anche se sulle prime non sembra particolarmente coinvolto. Dopo un “Grazie” storpiato d’ordinanza, il gruppo spara tre canzoni una dietro l’altra per poi lasciare il posto alla formazione dei Big Cheese, già ospiti del fest nel 2017. Cambiano quindi batterista e cantante, che subito si presenta con un mix di blasfemia e frammenti di frasi a cavallo tra dialetto, italiano e inglese che non può non far presa sul pubblico, a questo punto ormai prontissimo a massacrarsi sotto il palco. I pezzi della band, estratti dal full-length “Punishment Park” e dagli EP “Aggravated Mopery” e “Anymore for Anymore?” risultano molto più uptempo rispetto a quanto sentito con i Fate, e in generale la sensazione è che il tutto sia più compatto e spietato. Il cantante si prende il palco coinvolgendo il pubblico: in molti cantano i pezzi e il mosh si fa via via più intenso a mano a mano che chitarra e basso macinano riff taglienti e massicci, sostenuti da un poderoso lavoro dietro le pelli. Durante la seconda metà del set, dopo “People’s War” e “Write Off”, l’intensità sotto e sopra il palco fa saltare una corda alla chitarra, ma dopo una rapida pausa tecnica il tutto riprende più inferocito di prima, lasciando la folla piacevolmente ammaccata e pronta fiondarsi dall’altra parte per il live dei FRAMMENTI.
I torinesi, nati ormai più di trent’anni fa e con cinque album all’attivo, si presentano sul palco con un sintetizzatore ed un theremin per suonare l’intro ed iniziare lo spettacolo. Il rapido tiro tra hardcore punk e punk rock scalda fin da subito il pubblico tra le prime file, che sale sul palco e urla i ritornelli di “Scivolando Via”, “Un Altro Inverno” e “Dicevano Di Noi”, mentre i fotografi adagiati in prima fila sono costretti a ripararsi dalle scarpate alla fronte di chi fa crowd surfing. Il totale delirio finirà per provocare la caduta a mezz’altezza di una ciabatta ancorata ad una di queste travi, prontamente risistemata dai ragazzi dell’organizzazione senza fermare lo show. Vari feedback di theremin fanno perfettamente da ponte tra un brano e l’altro, impiegato ad hoc all’interno della proposta strumentale della band di Torino. Il congedo viene dato con “Non Senza Mano Cattiva”, tra cori generali e le botte nel pit.
Tocca di seguito ai savonesi KLASSE KRIMINALE, veterani dello street punk italiano, sulla scena dal 1985. Dopo una breve intro strumentale Marco Balestrino sale sul palco, impugna il microfono e dà inizio al set con “Ci Incontreremo”, facendo subito scattare cori entusiasti da parte del pubblico che canterà a squarciagola ogni pezzo in scaletta. Il mix di Oi! e punk’n’roll della band riempie l’Open Space di suggestioni dalla vecchia scuola di genere italiana: le note di “Solo Un Cuore” accompagnano i primi corpi che surfano sulla folla urlando e dimenandosi come spiritati, pronti ad esaudire la richiesta di partecipazione da parte del cantante. “Camallo”, “La Ragazza Dalla T-Shirt” e “Oi! Fatti Una Risata” sono manifesti che uniscono una sala sempre più gremita: tutti ballano e saltano, felici e sudatissimi, mentre un boato accoglie le parole di Marco che, anticipando il brano “Uniti Si Vince” ricorda a tutti che “se i diritti non sono per tutti sono solo fottuti privilegi”– Amen. Chiusura del set ancora più partecipata con la bella cover di “If The Kids Are United”, con la quale i Klasse Kriminale salutano l’Open Space tra applausi scroscianti.
Mentre la pioggia che si sta abbattendo sul Centro Sociale Rivolta sembra non volersi arrestare, un’altra band di Torino sale sul palco del Nite Park. Il pubblico riempie completamente la sala e dà il benvenuto agli ARSENICO, pronti anche loro per uno speciale show di reunion. La loro proposta di hardcore dritto e classico fa divertire i presenti che si lanciano in continui stage diving. La band incita i propri fan battendo le mani a tempo e accogliendoli sul palco prima di abbandonarsi al singalong con i brani ”Distanti”, “Nei Pomeriggi” e “Ti Ho Visto In Piazza”. Nonostante la bassa temperatura all’interno di questa stanza, sia il pubblico che la band sono estremamente carichi e divertiti. Infatti, per concludere il set in bellezza, sulle note di “Fratello Servo”, il frontman si lancia sulle teste delle prime file per cantare le ultime strofe con aria divertita.
Di nuovo Inghilterra, di nuovo Leeds sul palco di un Open Space ormai affollatissimo, con l’hardcore dei THE FLEX caratterizzato da riff velocissimi, quasi grind, intervallati da midtempo e stop-and-go pescati a piene mani dal thrash metal. La band propone una scaletta con brani estratti dall’ultimo full-length “Chewing Gum For The Ears”, alternati a selezioni dalle precedenti release “Don’t Bother With The Outside World” e i vari capitoli della serie “Flexual Healing”. L’hardcore del quintetto inglese è brutalmente scarno e abrasivo, e proprio questa apparente semplicità sembra sortire un effetto magnetico e viscerale per il pubblico in sala: sotto palco ormai i calci volanti e le braccia mulinate in ogni direzione si susseguono in una danza primitiva, volano bicchieri e cappelli, un gavettone di birra si infrange a bordo palco. Lì sopra, invece, i The Flex danno tutto, spendendo ogni energia per consegnare al pubblico uno show in pieno stile hardcore inglese che non lascia prigionieri nel pit.
Ritorniamo in Nite Park per i MELT, co-headliner di questa seconda giornata di Venezia Hardcore Fest. Il trio vicentino, attivo dal 1992, si presenta sul palco estremamente felice e grato di essere parte del bill; il tempo di una velocissima chiacchierata ed il trio inizia a far roteare brani con un deciso tiro punk. Sezioni di due/tre brani scorrono con semplicità grazie ai cori divertiti e costanti tra le prime file. Vediamo facce felici e soddisfatte dalla proposta live del trio, tra “Quando Ero Bambino”, “Bravi Ragazzi”, “Devo Bere”, “Supereroi”, “Vivisezione” e “Insolazione”. I Melt ringraziano ancora e congedano il pubblico soddisfatto e non molto sobrio, che si presta ad indossare nuovamente le giacche per affrontare la pioggia battente e trovare riparo nell’Open Space per l’ultima band del fest.
La chiusura della giornata è affidata ai trevigiani OJM, cui spetta il compito di rallentare la tempesta impazzita di bpm che ha colpito l’Open Space, stregando la platea a suon di stoner rock venato di guizzi psichedelici. In una stanza ora solo parzialmente illuminata la band parte a razzo ed è subito come guidare un fuoristrada a tutto gas tra le dune del deserto, in un turbinio di polveri e vapori che offuscano l’ambiente, ben sposandosi con le atmosfere sospese, evocate dagli intermezzi distesi e dai tratti quasi onirici dei lunghi arrangiamenti psichedelici. Il parziale calo di marcia del gruppo non pone fine né al pogo né agli stage diving, la gente sembra non essere ancora sazia e vuole vivere il festival fino all’ultimo feedback. Per tutta la durata del set la folla scuote lentamente il capo per seguire le bordate scandite dal basso, che si impone mastodontico rimbombando come un cancello infernale tra le quattro pareti dell’Open Space. Sul finale c’è spazio per un lunghissimo medley – riconosciamo “Lazy Bones” di Brant Bjork, e girandoci per sondare la reazione vediamo un mare di teste soddisfatte che annuiscono in segno di approvazione – ad anticipare la chiusura affidata a “TV Eye” degli Stooges, accolta con un ultimo, sentitissimo pogo. Mentre fuori sta diluviando la temperatura all’interno della sala è ormai altissima, e una massa compatta di corpi estatici muove gli ultimi passi, rincorrendosi in una trance quasi sciamanica sulla rete di delay che pone fine a questa seconda, densa, incredibile giornata di concerti. Siamo convinti che anche quest’anno il festival abbia unito molti appassionati, vecchi e nuovi, speranzosi per un futuro meno incerto e sempre più ambizioso. Ben ritornato Venezia Hardcore Fest.

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