14/10/2019 - VOLBEAT + BARONESS + DANKO JONES @ Fabrique - Milano

Pubblicato il 16/10/2019 da

Report a cura di Simone Vavalà
Fotografie di Simona Luchini

Quella prevista al Fabrique è una kermesse ad alto contenuto di rock n’roll, chiaramente con le giuste spruzzate heavy, perfette come olive nel Martini. Danko Jones e i Volbeat condividono un’attitudine molto diretta e caciarona, mentre i Baroness, come noto, sono ormai dei prezzemolini buoni per ogni occasione, complice una proposta musicale decisamente ibrida – e forse ormai poco focalizzata, ci permettiamo di aggiungere. Poco male, comunque: come leggerete nel seguito, dal punto di vista delle esibizioni la serata è stata piacevole, o almeno avrebbe potuto esserla, visto che da ridire sul locale dove ha avuto luogo ne abbiamo, e parecchio. Ma troverete le note negative al termine di questo articolo, dopo il giusto resoconto del contenuto live.

 


DANKO JONES
Sono le 19 in punto quando il trio canadese sale sul palco; la sala è ancora piuttosto vuota, ma Danko e soci non si risparmiano, anzi. L’energia e la capacità di coinvolgimento fanno da sempre di loro la classica band trascina folle, e il posto in cartellone non sembra scalfire minimamente la loro verve. Cori, aizzamenti alla folla, ammiccamenti reciproci tra il funambolico chitarrista e il fedele bassista John Calabrese, ma soprattutto tanti bei riff supportati da una sezione ritmica concreta e spumeggiante. In soli sette brani, lo spirito evocato da questo power trio è quello delle migliori band anni Settanta, con un occhio di riguardo all’approccio scanzonato ma di qualità dei Thin Lizzy. Gran finale affidato alla trascinante “My Little RNR”, ennesimo brano che il pubblico canta sorridendo e ballando.

 

BARONESS
Come accennato nell’introduzione, i Baroness sono a nostro parere ormai una band dalla posizione indefinibile. Nati in un humus musicale assimilabile allo sludge meno caotico e alla proposta variegata dei loro amici Mastodon, hanno provato a intellettualizzare la prima componente e a rendere più catchy la seconda, perdendo in concretezza espressiva, senza però assurgere a chissà quale status in termini di vendita. Al Fabrique, in scaletta, la fa da padrone il recente e deboluccio “Gold & Grey” e il risultato è un concerto non malvagio, ma veramente monocorde. John Baizley si conferma un cantante dalle doti limitate, e purtroppo il suo tono declamatorio e uniforme non riesce certo a far brillare brani che, rispetto al passato, hanno anche perso mordente. Non sarà un caso che “Isak”, unico estratto dallo splendido e ormai remoto “Red Album”, faccia notare una certa differenza nella resa complessiva. Palma d’onore per Gina Gleason, chitarrista capace e decisamente efficace in termini di tenuta di palco, ma per il resto consigliamo a una band che abbiamo amato in passato di fare un bel respiro e provare a capire in che direzione darsi una registrata.

 

VOLBEAT
Annunciati da ben due intro registrate, ossia “Born To Raise Hell” dei Mötorhead e “Red Right Hand” di Nick Cave, i danesi salgono sul palco col piglio giustamente atteso dai duemila spettatori che si sono nel frattempo assiepati nella venue: spacconi, spensierati, con un look a metà strada tra i rocker degli anni Sessanta e i gangster newyorchesi di inizio Novecento – specialmente nel caso del buon Rob Caggiano, in gilet e coppola. Per scaldare gli animi i Volbeatscelgono di affidarsi a due brani del nuovo disco, che da quanto letto prima del concerto la farà del resto da padrone per il resto della scaletta. “The Everlasting” e “Pelvis On Fire” confermano subito che, li si ami o li si odi, i Volbeat hanno inventato una formula che funziona: gli ammiccamenti al rockabilly non sono solo nell’abbigliamento ma anche nei riff, pur tuttavia l’heavy metal c’è eccome, nelle loro ritmiche furiose e nelle chitarre grasse che li caratterizzano. Dopo un primo ripescaggio dal passato, propongono un altro brano nuovo, dove finalmente va a regime anche la voce di Poulsen, poco limpida e, apparentemente, anche a tratti fuori tonalità nell’avvio. La macchina da guerra è adesso rodata, il pubblico canta pressoché ogni strofa, ed ecco che a sorpresa i quattro abbassano un po’ i toni: almeno in termini di velocità, non certo di coinvolgimento. Arriva infatti una doppietta da accendini al cielo, cori di buona parte del pubblico (e ovviamente video coi cellulari, siamo nel 2019…): parliamo di “For Evigt” e “Lola Montez”, due dei brani più melodici e trascinanti dei Volbeat, in cui possiamo ascoltare anche un ispirato Caggiano alla dodici corde elettrificata. Il concerto procede da qui in avanti in scioltezza, è evidente come la band sappia coniugare intrattenimento e ottimi brani, e anche se spesso aleggia l’ombra dei Metallica o persino degli Slayer nei riff (“Slaytan”), il divertimento è assicurato. E’ il turno quindi di uno dei brani più famosi del gruppo: quella “Sad Man’s Tongue” debitrice di Johnny Cash che nel 2007 lanciò i Volbeat verso il successo, mentre a seguire ritorna sul palco Danko Jones per un duetto su “Black Rose”. La seconda parte dello show è un mix di brani più datati come “Dead But Rising” e il lentone “Fallen”, e altri estratti dal nuovo disco, tra i quali citiamo l‘adrenalinica  “Die To Live”, dalla ottima resa live. Il set principale si chiude con “Seal The Deal” e la trascinante “Last Day Under The Sun”, singolo che aveva anticipato l’ultimo album. Ben cinque i brani proposti nel finale, con un ripescaggio di classici come “Pool Of Booze, Booze, Booza”, in cui ancora una volta il cantante si mostra dotato di un’ugola carismatica, e il corale anthem conclusivo “Still Counting”, perfetto per chiudere questa divertente serata dal clima “biker e grigliata”.

Ma veniamo alle note dolenti. Premesso che non vogliamo accendere alcuna polemica con Live Nation, promoter della serata, ci pare giusto sottolineare le cose che non funzionano in un locale che esiste esclusivamente per il lucro ed evidentemente non per offrire musica ai suoi clienti. Già all’ingresso al Fabrique eravamo stati costretti a consegnare lo zaino al guardaroba, un servizio non richiesto e a pagamento, cosa a dir poco irritante; anche perché coinvolgeva solo gli zaini degli avventori maschi: le donne erano libere di entrare con le proprie borse, giustamente. Ovviamente senza possibilità di scelta e al ridicolo prezzo di cinque euro. Sorvoliamo nell’elenco delle schifezze economiche sul prezzo delle birre, ma quando alle 22 la fame si è fatta sentire, ci è stato segnalato, con fare anche sardonico, che il locale non offriva cibo, ed eravamo liberissimi di uscire per un panino, ma non di rientrare. Inutile approfondire nel dettaglio il turpiloquio scambiato con la Security del Fabrique, ma è evidente che impedire sia di mangiare che la libertà di movimento connessa per l’incapacità di gestire un controllo su timbri o simile sono segnali di un locale ben lontano dalla concezione del rock e del metal che amiamo e che promuoviamo. Specialmente quando le regole le sanno imporre per lucrare sugli zaini con cui una persona, magari, arriva direttamente dal lavoro per non perdere le band che ama.
Ecco perché, a costo di essere ostracizzati, ci auguriamo che il Fabrique in futuro non sia più parte del nostro circuito musicale; del resto è uso stipare fan di musica trap, di Achille Lauro e serate molto lontane dalle nostre, un pubblico con cui auguriamo loro immutato successo.

 

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