Introduzione a cura di Davide Romagnoli
Report a cura di Davide Romagnoli e Giovanni Mascherpa
Dopo i warm up show introduttivi in diverse location, ecco arrivare la vera e propria data finale del VVitch Festival, prima edizione per un melting pot di cultura metal e horror, convogliato nella cornice del Magnolia di Segrate, alle porte di Milano. La line-up è una vera e propria scaletta di band d’eccezione: a partire dallo stoner/doom, per passare alle atmosfere post dei KEN Mode, all’hardcore e alle tendenze più estreme, per concludere con lo spirito del grande cinema di Lucio Fulci, lasciato in eredità al Maestro Fabio Frizzi, suo collaboratore fidato. L’atmosfera, seppur carica di pathos e di aspettative, ricade su una partecipazione da parte del pubblico che poteva decisamente essere superiore, date le possibilità intriganti di seguire in una volta sola materiali live così succulenti. Il grande spirito della manifestazione è comunque quello su cui lo spettro della contingenza non dovrebbe pesare così bruscamente, perché quello che è rimasto ai presenti è comunque un piacevole ricordo. Vediamo di approfondirne le tappe più salienti.
THE NECROMANCERS
Arriviamo giusto in tempo per goderci il finale della band francese, dedita ad un rock occulto e psichedelico che già avevamo avuto modo di apprezzare con l’ascolto del nuovo “Of Blood And Wine”. Il quartetto francese risulta convincente ed in grado di scaldare l’atmosfera in maniera opportuna. I pochi presenti, dato l’orario pomeridiano, salutano la formazione con applausi, sintomo del buon risultato ottenuto dal quartetto. In tour coi Belzebong, i The Necromancers potrebbero risultare dunque una nuova band da tenere da conto per quelle scappatoie orrorifiche tanto care al Verbo sabbathiano.
(Davide Romagnoli)
COILGUNS
Piacevolissima sorpresa trovare nella line-up anche il nome degli svizzeri Coilguns, che seguono il tour di Birds In Row e KEN Mode. Il quartetto di La Chaux-de-Fonds si innesta su coordinate proprie al nuovo post-metal di scuola Amenra. Come già avuto modo di dire nella recensione al nuovo “Millennials”, i Coilguns devono inquadrarsi in un’ottica di impatto, più che di composizione specifica dei singoli brani, ancora reminiscenti di tanti nomi di riferimento. La potenza della band risulta tale inquadrata in una dimensione live, dove i quattro riescono ad imprimere la giusta forma al loro post-metal e renderlo efficace. Anche per loro, come per i The Necromancers, vale la pena ricordare come la caratura di un gruppo, posto in apertura pomeridiana, si vede anche dal proprio modo di affrontare la situazione. Promossi a pieni voti, dunque.
(Davide Romagnoli)
BIRDS IN ROW
Era interessante vedere come i tre giovanissimi di Laval avrebbero portato il nuovo album (recensione qui) in sede live, ed effettivamente quello che su disco poteva esprimersi in maniera accattivante viene ugualmente trasposto on stage dai Birds In Row. Manca certamente un po’ di lavoro sulla profondità dei suoni più ampi contenuti nell’album e di difficile riproposizione dal vivo, soprattutto quando si è solo in tre sul palco, ma la dose di potenza, grinta e messaggio dei francesi è sicuramente degna delle aspettative. Un messaggio di aiuto reciproco, di condivisione, di vera comunità che trascende il suo momento post-hardcore e diviene emblema di una scena che ha dalla sua un contenuto autentico e non solo una posa. I tre di Laval sono un’entità unica e ci tengono a ribadirlo, per questo preferiscono mettersi a chiacchierare coi fan dopo il concerto piuttosto che scattare delle foto con loro. “Remember Us Better Than We Are” e “I Don’t Dance” divengono un po’ emblemi di questo tipo di messaggio: una musica fatta di rabbia, quella ancorata al rumore, ma che può sfociare in un qualcosa di luminoso alla fine di un tunnel cupo in cui il mondo sembra essere finito.
(Davide Romagnoli)
KEN MODE
Anticipato lo slot per motivi logistici, così da consentire a loro e ai compagni di tour Coilguns e Birds In Row un viaggio più comodo verso la seguente tappa del tour, Nizza, i KEN Mode obliterano il VVitch Festival con quell’ansiogena caparbietà che abbiamo imparato ad associar loro. Ritornati all’ovile del noise-metal nerissimo ed efferato con le atrocità di “Loved”, i fratelli Matthewson e Scott Hamilton la buttano in panico e nevrosi, un fascio di nervi pronto a scattare in attacchi alla giugulare tremendi e definitivi. Non prima di essersi dimenati in un agitarsi caotico frutto della paranoia e del disagio più estremo. Sono sensazioni al limite della sopportazione quelle che promanano dal sound livido e scorticante del terzetto, che si esibisce con espedienti luminosi ridotti al minimo, come a enfatizzare il quadro buio e claustrofobico entro cui si dimena la musica. Perfetta fusione di noise, post-metal, hardcore e istintività omicida, i brani si contorcono in un’orgia di tempi fratturati, dalla botta di suono allucinante. Il rumore spadroneggia, addomesticato quel tanto che basta per dare corretta forma ai palpitanti incubi narrati dalla voce storpiata di un sogghignante Jesse Matthewson. Lui come i suoi due compagni vive il concerto come una probante competizione agonistica, disponendo il corpo a un’agitazione iraconda che asseconda le scariche strumentali. Gli estratti di “Loved”, come “Doesn’t Feel Pain Like He Should” e “The Illusion Of Dignity”, moltiplicano l’esagitazione del disco, del quale arriva anche, in chiusura, il brano più sperimentale, la strascicata, malatissima “No Gentle Art”. Anche senza l’apporto del sax, l’interpretazione da internato al manicomio di Jesse e il viscido talento del terzetto nel mettere inquietudine al prossimo confezionano una parentesi di ansimante terrore all’altezza di quella dell’album. Angoscianti.
(Giovanni Mascherpa)
BELZEBONG
Ciondolano all’unisono i Belzebong, investiti del compito non propriamente semplice di intervallare due mostri di ferocia come KEN Mode e Celeste. Lo stacco con i canadesi è netto, i polacchi possono contare su un andamento stoner-doom che suona come una versione rock’n’roll degli Sleep o, se preferite, degli Electric Wizard spogliati di malvagità e lasciva indole occulta. I ragazzi est-europei non sono musicisti di grandi pretese, si rivolgono agli amanti del fuzz roboante, invadente, origine e fine ultimo del proprio modo di intendere la musica. L’assenza di voci ci fa nutrire più di una perplessità, al cospetto di fraseggi spuntati e che in avvio sembrano riproporsi sempre nelle medesime modalità. Il trip si fa più vibrante col passare dei minuti, proseguendo nel dondolarsi coordinato le chitarre iniziano a bruciare di un minimo d’ardore e i colpi della batteria si fanno vigorosi, smuovendo dalla parziale sonnolenza indotta a inizio concerto. Dei Belzebong bisogna accettare questo minimalismo ridondante e accettarne il carattere di puro divertimento, senza pretendere chissà cosa. Capite le regole del gioco, le drogate jam session della formazione centrano l’obiettivo di intrattenimento che si erano poste. E strappano volentieri un sorriso dalle labbra.
(Giovanni Mascherpa)
CELESTE
Il buio riprende pienamente possesso del palco. Vuoi per la musica, vuoi perché ai Celeste piace esibirsi con delle torce frontali rosse come principale elemento visuale. Minatori nei bollenti abissi del black metal raggrumato nel post-hardcore, i quattro francesi portano in scena uno spettacolo che, nonostante i tanti epigoni, si mantiene su standard qualitativi invidiabili e che sa toccare le corde giuste dell’animo. Battono su concetti similari da una traccia all’altra, ora insistendo su un ferale ipnotismo, ora caricando di drammatica opulenza gli spessi intrecci di chitarra, i Celeste, però si tengono ben lontani da prolissità e manierismo. A una botta di suono impressionante corrisponde un dipanarsi dei pezzi tortuosamente avvincente, un tuonante mantra di percussioni indiavolate e cripticamente complicate, principali responsabili della forza propulsiva della formazione. Basso e chitarre erigono colonnati di suono dalle frequenze ottundenti, che si cospargono di pece e disperazione hardcore e raramente si diluiscono in un abbraccio meno mortifero del consueto. L’impenetrabilità della proposta, cui non manca una concentrazione d’odio scellerata da parte delle vocals di Johan Girardeau, ha comunque riguardo per piccole caratterizzazioni dei singoli brani, così che il set non arranchi in un tedioso perpetuarsi delle medesime formule. Prestazione efficace quella dei transalpini, bravi a mantenere un certo grado di freschezza nonostante i suoni di loro competenza siano fra i più abusati dell’underground.
(Giovanni Mascherpa)
FRIZZI2FULCI
Prima data milanese per il compendio della storia della colonna sonora horror del Maestro Fulci, la cui eredità viene lasciata nelle mani del suo collaboratore Fabio Frizzi e del suo ensemble. Sembra dunque assai succulenta la possibilità di rivedere in dettaglio alcuni momenti del cinema horror italiano di culto nelle sue rappresentazioni musicali, aiutate dalle presentazioni dello stesso Frizzi e dai visuals retrostanti la band. Vero è anche che è difficile non ascoltare i mormorii degli astanti quando si accorgono del bordo del player durante la proiezione. E la finestra che circonda le immagini dei vari film non andrà a svanire per l’intera durata dello show. Oltretutto è anche difficile non esimersi dal fatto che Frizzi2Fulci debba rappresentare in tutto e per tutto il cinema di Fulci e le colonne sonore ad esso riferite, più che le altre composizioni del Maestro Frizzi, seppur legate ad altri lavori a sfondo horror. Sono piccolezze per molti, queste, ma rischiano anche di compromettere l’estetica di un progetto che fonda il suo essere proprio nella forma, nel ricordo a cui queste musiche sono legate, al culto vero e proprio che ruota intorno alla figura del cineasta. Dunque è un piacere risentire i temi di “Sette Note in Nero”, “L’Aldilà” e “Zombi 2” e il livello di compiacimento del pubblico rimane altissimo in questi momenti. Purtroppo però si disperde molto in quelle altre situazioni in cui questa estetica legata al ricordo e al cult viene meno. Sicuramente un momento importante per il festival e la sua peculiarità, ma anche un territorio di difficile apprezzamento totale, laddove il grande tributo a Fulci si dilegua in altro. Interessante sì, ma che non riesce a competere con il nodo fondante del progetto. Almeno nella sua declinazione principale. La band e Frizzi sono musicisti che è un piacere sentire ma, appunto, talvolta questo è un altro conto.
(Davide Romagnoli)