Introduzione di Valentina Spanna
Report a cura di Lorenzo Mirani, Valentina Spanna, Luca Pessina e Fabio Scarpanti
Già dalla primavera, questo 2004 si preannunciava un anno importante e ricco di belle manifestazioni per il metallaro bramoso di polvere e sudore da live. Appuntamento quasi irrinunciabile è il W:O:A, giunto quest’anno ad una veneranda quindicesima edizione. Un traguardo da festeggiare assolutamente e in grande spolvero, vista la fama che la qualità e l’organizzazione ad altissimi livelli hanno contribuito a fargli acquisire nel panorama, ora florido, dei grandi festival open air. Dunque grandi aspettative e grandi speranze per la folla oceanica che ha invaso la ridente cittadina teutonica, pronta a metterla a ferro e fuoco. E in effetti il bill della tre giorni metallica più celebre d’Europa prometteva scintille, specialmente agli amanti del classico, i quali avevano solo l’imbarazzo della scelta nella miriade di vecchie glorie giunte a celebrare la manifestazione. Come ogni anno poi, un occhio di riguardo al divertimento dei tedeschi, assicurato dai J.B.O., da Onkel Tom e dai Bohse Onkelz, anche se, forse eccettuando la formazione di Tom Angelripper, un italiano fatica incredibilmente a comprendere la loro letterale esaltazione per le band suddette. Ma questa volta non proprio tutto è andato per il verso giusto, tra problemi a tratti inaccettabili per un evento di queste proporzioni e contraddistintosi sempre per l’alta soglia qualitativa. In primis la scelta di ridurre il numero delle band coinvolte, secondo l’opinabile criterio di dare maggior spazio e maggior spettacolarità agli show delle formazioni principali, quelle su cui gli organizzatori puntavano evidentemente di più. Dunque ben poche sovrapposizioni nel bill, addio alle corse suicide da uno stage all’altro per vedersi almeno una parte dell’esibizione di gruppi magari mai calati in Italia, ritmi infinitamente più rilassati… praticamente un festival da geriatrico! Oltretutto si è consolidata l’abitudine di confinare alcune tra le poche band esterne al mainstream, come i Misery Index e i Disbelief, all’infamia lercia del Wet Stage, costringendole a prove maiuscole per pochi eletti-reietti incrostati di terra secca e di altre secrezioni poco raccomandabili. E vista la scarsa disponibilità d’acqua e di rubinetti rispetto al numero imponente degli spettatori, vi lasciamo immaginare i colli rigati di sudore marrone che si agitavano sotto criniere dal colore ormai indefinito… dico, ci vuole tanto a tornare ai due sani palchetti gemelli della grandezza del Party Stage e soprattutto all’aperto?! Per il resto nessuna miglioria sostanziale all’area, organizzata più o meno come negli ultimi anni, piena di stand con rarità, merchandising e accessori di ogni tipo. Ma quello che è parso aver creato più disappunto è stata la scarsa qualità dei suoni: incredibile a dirsi, proprio qui nella mecca festivaliera del metallaro, sono state pregiudicate per buona parte le esibizioni di band come Amon Amarth, Hypocrisy e Nevermore, per non citare la miriade di piccoli problemi tecnici occorsi qua e là ad altre formazioni. In definitiva un’edizione molto riuscita se si guarda al versante gruppi storici ed icone teutoniche, insomma se ci si immerge nell’atmosfera più nostalgico-celebrativa. Ottima anche l’idea di deliziare le orecchie degli estimatori del black con i Mayhem e soprattutto con i Satyricon e l’evento Nocturno Culto. Ma se si cominciano a considerare a freddo mille altri fattori, riprendendosi dalla sindrome del fuoco pirotecnico, dall’alcolismo da sorpresa improvvisata, dal casino scomposto, dalle masse esagerate, si comincia a percepire come il W:O:A, sotto la quindicinale patina della festività comandata del metallaro, mostri un po’ di aver perso quell’atmosfera genuina dei primordi, quasi preferendo un ruolo più legato al business e sempre meno all’attenzione per le proposte giovani o particolarmente innovative. Resta comunque, innegabilmente, un grandissimo evento ed un’esperienza da provare; tuttavia sedersi sugli allori quando si è i migliori, i precursori, non è mai la scelta migliore né la meno rischiosa, vista la validissima concorrenza che ora sfoderano gli altri festival tedeschi ed est europei. Sempre comunque meglio di tutto ciò che si vede in Italia… Dunque aspettiamo il 2005 ed un’altra estate di fuoco!
MOTORHEAD
L’arduo compito di coronare il breve show del primo giorno di questo Wacken 2004 spetta alla band del sempreverde Lemmy Kilminster, che, in forma come sempre, si presenta su un palco con il sole ancora alto nel cielo per sparare sul pubblico tutta la sua carica e il suo essenziale e grezzo rock’n’roll d’assalto, senza fronzoli, senza tecnicismi o orpelli decorativi che possano togliere valore al contenuto dello show. La scaletta proposta, all’incirca, rimane sempre la stessa: abbiamo “We Are Motorhed” in apertura, “Civil War”, “Nothin’ Up My Sleeve” e “Capricorn” in mezzo allo show, con la solita doppietta di chiusura rappresentata dalla storica “Ace of Spades” e dalla roboante “Overkill”. Non è lasciato alcuno spazio per pezzi dal peraltro più che eccellente ultimo album “Inferno”, mentre vengono riservate, in esclusiva per il pubblico tedesco, due chicche che la band esegue con la dovizia e la voglia dei bei tempi: la divertente “Dr.Rock”, tratta da “Orgasmatron”, e “Shoot You In The Back”, pezzo di punta di “Ace Of Spades”. Dopo tutto questo, non restano più parole per una band che, sebbene parecchio avanti negli anni, faccia del divertimento e dell’energia le sue carte vincenti per intrattenere degnamente il pubblico!
METHEDRAS
Rappresentanti del Bel Paese in quel di Wacken, i Methedras salgono sul W.E.T. Stage trovando l’area adibita all’Headbangers Ballroom completamente gremita (sicuramente più di quanto ci si potesse aspettare!), e non si fanno pregare regalando al pubblico tutta la loro energia, sparando su chi guarda le proprie cartucce migliori, privilegiando, naturalmente, i pezzi del loro recente primo full-length; “Drowning By Torment”, “Wreck’N’Roll” e “Darkness” sono pezzi che, grazie al loro incedere martellante ed ossessivo, fanno grande presa sul pubblico, pubblico che si esalta ulteriormente quando viene eseguita, per il piacere di tutti, la cover di “Disciples Of The Watch” dei Testament. Se a tutto questo aggiungiamo che la band ha suonato veramente bene (con sugli scudi le vocals parossistiche di Claudio e le chitarre macina-riff di Massi ed Eros), possiamo promuovere con immenso piacere a pieno titolo i Methedras, e constatare che il metallo di casa nostra è stato degnamente rappresentato da questi cinque milanesi all’estero!
CATHEDRAL
Ore 12.25: incuranti dell’orario infame e del sole inclemente, i Cathedral dell’affascinante Lee Dorrian fanno il loro trionfale ingresso sul Black Stage, attesi da una gran folla di sostenitori. E non potrebbe essere altrimenti, considerata la brillante carriera più che decennale della band inglese, che ha abituato bene i fan, a colpi di lavori e di esibizioni sempre di prim’ordine. Sin dalle note d’apertura, accolte dalle ovazioni degli spettatori, è chiaro che i quattro mirano a rendere memorabili i loro quarantacinque minuti di show. Giovati da suoni curati e da una carica live davvero senza limiti, Lee Dorrian e compagni guidano la platea nelle incessanti, vorticose note di un doom che non conosce cali, rimasto forse ai margini, ma sempre immune ai trend e splendido nell’attimo della liberazione dall’artista verso il suo pubblico. Niente nuovi album in studio da promuovere e dunque una pioggia di classici indimenticabili. “Carnival Bizarre”, “Staind Glass Horizon”, “A Funeral Request” e “Hopkins (Witchfinder General)” sono solo alcune delle song che hanno deliziato i timpani dei fortunati fan. Puro coinvolgimento, un’energia oscura e penetrante che non può lasciare indifferenti, che ha spento il sole e ne ha gelato i raggi. Un feeling immortale che ha coronato una prestazione semplicemente impeccabile. Grazie Cathedral!
ARCH ENEMY
Dopo una mezz’ora in cui il Black Stage è rimasto invaso dalle atmosfere dell’ottima prestazione dei Cathedral, ecco i nuovi attori, ecco gli Arch Enemy. E’ una continua prova del fuoco per la band degli Ammot Bros, letteralmente idolatrata in Germania, come dimostrava la calca accorsa davanti al palco con molto anticipo sull’orario dell’esibizione. Banco di prova in quanto molti aspettavano al varco Angela Gossow, dopo le deludenti prestazioni del tour invernale per “Anthems Of Rebellion”, tra cui è compresa la data italiana al Motion di Zingonia. Accantonate definitivamente le speranze di sentire la bionda singer bissare il talento dell’indimenticato Johan Liiva, si confidava almeno in uno show coinvolgente e dai ritmi serrati, in cui la voce un po’ monocorde di Angela potesse mescolarsi all’indiscutibile talento degli altri quattro band-mate, regalando quantomeno una prestazione positiva. Purtroppo non è stato così. Innanzitutto per i suoni veramente scandalosi, che hanno ridotto all’impotenza le chitarre-killer di Michael e Chris, svuotato le prove di Sharlee D’Angelo e di Daniel Erlandsson e precluso al pubblico tutto il talento live dei quattro. La front-girl teutonica parte bene, contrariamente alle aspettative, si muove molto, incita la folla, insomma, tiene il palco a dovere. I fan la ripagano con boati d’approvazione e con uno stage-diving selvaggio, nonostante la musica si sia dispersa senza rimedio. Ma dopo una ventina di minuti Angela accusa la fatica e si trascinerà fino alla fine del set senza più fiato, togliendo anche quel poco di entusiasmo rimasto. In scaletta erano presenti ovviamente parecchi brani delle ultime due fatiche in studio; soprattutto quelli più lineari tratti da “Wages Of Sin” hanno dimostrato di avere un buon riscontro live, pur nelle condizioni sopra descritte. Per quanto riguarda gli sparuti brani dell’era Liiva, meglio non parlarne, tanto sono stati eseguiti a dir poco approssimativamente. Insomma, un concerto abbastanza incolore.
MAYHEM
Cosa scrivere dei Mayhem nel 2004? Al di là della questione indirimibile vecchio/nuovo, vero/falso, cosa sono stati capaci di comunicare alla nutritissima schiera di black metaller giunti da chissà dove, apposta per vederli? A considerare il totale coinvolgimento del pubblico, diremmo davvero molto. Non ho visto una testa deviare dalla traiettoria del Black Stage, non ho visto che attesa ed esaltazione per il combo norvegese, il quale, nell’immaginario, probabilmente vive ancora dell’ombra del celebre passato. I suoni, fortunatamente, vengono incontro alle aspettative di band e audience, permettendo ai Mayhem di confezionare uno show di buon livello, che pesca un po’ da tutta la loro storica discografia. Sarebbe quasi inutile sottolineare la perizia di Hellhammer, una sicurezza dappertutto, e anche gli altri membri sono apparsi carichi d’odio da riversare sull’incolpevole, bramosa platea. “Ancient Skin”, “Carnage” e “Deathcrush” si sono susseguite ad un ritmo scatenante, bene anche le canzoni dell’ultimo “Chimera”, l’immortale “Freezing Moon” e “Pure Fucking Armageddon”. E allora qual è il problema? Cosa trattiene dal promuovere a pieni voti i Mayhem della contemporaneità, buoni esecutori anche del materiale più datato? Il problema è che Maniac non si può vedere, o meglio non si può prendere sul serio, come pare molti facciano invece. Tra inutili giochini da circo con il fuoco e tiri al bersaglio con le teste di porco in putrefazione, sale la tristezza nel vedere come ci si può ridurre, nel nome di una apparenza “evil” che non impressionerebbe più neanche vostra nonna. Qualcuno spieghi a Maniac che la Body Art da auto-taglio è stata trasgressiva al massimo vent’anni fa… qualcuno gli spieghi che non è così figo fare la conta dei feriti dopo un concerto… qualcuno gli rida in faccia, per favore! Ma ho il sospetto che non sia poi così autoironico…
SATAN
Dopo quasi quindici anni di inattività ecco che dallo status di cult-band ormai semi-dimenticata una delle band cardine dell’underground del movimento N.W.O.B.H.M. ritorna alla vita la creatura di Brian Ross, e regala il piacere del suo primo show ad un pubblico tedesco che, sebbene non numerosissimo, si accalca in fibrillazione sotto il Party Stage per assistere a tale evento. C’è da dire che appena i Satan salgono sul palco ed attaccano a suonare l’entusiasmo sembra veramente quello di tempi che ormai sembrano troppo lontani nel tempo, e canzoni come “Into The Fire”, “Break Free” e “Blades Of Steel” (vengono privilegiati, chiaramente, i pezzi tratti dal mai dimenticato “Court In The Act” rispetto al resto della produzione della band) contribuiscono ulteriormente a creare un atmosfera, sotto il palco, che riporta veramente indietro di vent’anni, quando la band muoveva i suoi primi passi su palchi ben più ristretti di questo! Diamo dunque il bentornato ad una band la cui reunion, finora, viste le capacità dimostrate oggi, si è dimostrata più che fruttuosa… ed ora incrociamo le dita aspettando la prova su disco!
ASTRAL DOORS
C’è più folla di quanto ci si aspetti di vedere ad un concerto di una band al proprio debut album sotto il palco degli Astral Doors; fiducia pienamente meritata, poiché la band del poliedrico singer Nils Patrik Johansson (già negli Space Odissey e nei Wuthering Heights) è pienamente in grado di sostenere un ottimo concerto e di dare la polvere a band più affermate che spesso non risultano all’altezza della loro fama; ed allora via con una scaletta che vede coinvolto praticamente l’intero “Of The Son And The Father”, per ora l’unica produzione della band, con le ottime “Slay The Dragon”, “In Prison For Life”, “Man On The Rock” e la superba opener “Cloudbreaker” in chiusura. C’è da dire che, se la band suona molto bene, Nils non si dimostra dal vivo estremamente preciso come su disco; ma, come gli altri membri della band, la sua prestazione è assolutamente positiva, poiché non si può davvero chiedere di più ad un uomo venuto praticamente dal nulla che si cimenta nell’ardua impresa di emulare la tonalità di Sua Maestà Ronnie James Dio e dell-ex BlackSabbath Tony Martin. Astral Doors: un nome da ricordare perché, visto lo show di oggi, possiamo benissimo dire che il futuro dell’heavy metal può essere affidato, con fiducia, ad ottime band come questa.
GRAVE DIGGER
Ormai dei veri veterani del festival, i Grave Digger di Chris Boltendahl hanno calcato il mastodontico True Metal Stage con l’abituale sicurezza, offrendo il loro tipico show compatto e divertente. Si è trattato, proprio come tre anni fa, di un vero concerto best of, che per fortuna ha lasciato da parte i brani del recente, insipido “Rheingold”, e ha proposto quasi esclusivamente composizioni che hanno fatto la storia della band. “The Grave Dancer”, “The Dark Of The Sun”, “Scotland United”, “Morgane Le Fay”, “The Grave Digger” e “The Battle Of Bannockburn” sono stati gli episodi più graditi dal pubblico, ma come scordare l’ovazione che ha accolto la mitica “Heavy Metal Breakdown”? Un pezzo di storia dell’heavy metal tedesco ed europeo! Peccato che, tanto per cambiare, i volumi fossero un po’ bassi… ma che coinvolgimento! Su disco perderanno anche colpi, ma dal vivo i Grave Digger conoscono davvero pochi rivali!
MISERY INDEX
Investiti del ruolo di headliner del sempre più indecente W.E.T. Stage nella giornata di venerdì, i Misery Index sono stati protagonisti di uno dei migliori show dell’intera quindicesima edizione del festival. Il nuovo drummer ha veramente dato prova di avere una grande tecnica e precisione e anche il chitarrista Mike Harrison, pur essendo nella band solo provvisoriamente, ha fatto una buonissima figura, dando anche una mano al bassista/cantante Jason Netherton per parte delle vocals. Brani come “The Great Depression”, “Demand The Impossible” o “Manufacturing Greed” sono stati le cause del primo vero mosh pit della giornata, che ha coinvolto anche i solitamente tranquillissimi tedeschi. L’ennesima vittoria del death-grind dei nostri!
DIO
Il sole sta calando: lo scenario perfetto per introdurre una delle band più influenti di tutta la storia dell’heavy metal, capitanata da un uomo con alle spalle più di trent’anni di onoratissima carriera che, dopo tutto questo tempo, ha ancora l’entusiasmo e la voglia di suonare di un ragazzino alle prime armi, e niente più di questo può rendere felici tutti i numerosi presenti accorsi per vederlo all’opera! I primi minuti dello show trascorrono in maniera eccezionale grazie alle energiche “King Of Rock’n’Roll” e “Stand Up And Shout”, due tra le maggiormente ricordate hit del folletto americano; è tempo poi per le più soffuse “Rock’n’Roll Children” (quest’ultima suonata non sovente dalla band) e “The Last In Line”, durante le quali, oltre all’ottima prestazione della band, si registra la grande forma di Ronnie, sulle cui corde vocali il tempo sembra non agire nemmeno minimamente, così che il non più giovane ma carismatico frontman della band sembra poter usufruire di quella stessa magia che vent’anni orsono rendeva incredibili pezzi come “Sacred Heart”, “All The Fools Sailed Away” e “Don’t Talk To Strangers”; song, quest’ultima, che viene interpretata alla grande dalla Voce per eccellenza, con tono soffuso e quasi teatrale, tono che riscuote una grande ovazione da tutto il pubblico presente. C’è ancora tempo per omaggiare gli altri gruppi che hanno reso Ronnie famoso e gli hanno dato la possibilità di intraprendere la sua incredibile avventura da solista: ovviamente i riferimenti vanno tutti alle band madri Rainbow e Black Sabbath, omaggiate verso la chiusura con l’esecuzione di pezzi blasonati come “Stargazer”, “Man On The Silver Mountain” (che rimane sempre un vero e proprio inno!) e “Heaven And Hell”, per poi chiudere alla grande con una potentissima “We Rock”, che pone la parola fine ad un concerto veramente entusiasmante, e riconferma Ronnie James Dio come uno degli esponenti più rilevanti, a pieno merito, dell’heavy metal mondiale. Le ultime parole, prima di chiudere, vanno alla commovente scenetta che vede, dopo il concerto, un inaspettato Joey DeMaio salire sul palco e rendere il suo tributo personale a Ronnie, con tanto di consegna di targhetta e abbraccio fraterno per dimostrare che, forse, lo spirito dell’heavy metal, volendo, può ancora rivivere nel ‘lontano’ 2004…
DESTRUCTION
A cinque anni dalla storica esibizione che sancì il loro ritorno sulle scene e a due da quella che generò il celeberrimo live album “Alive Devastation”, ritornano i Destruction di Schmier, che ci regalano un’ esibizione ottima, coinvolgente e che lascia il segno! Si parte con una delle più belle, per chi scrive, canzoni thrash metal anni Ottanta, ovvero “Curse The Gods”, che, come è facilmente auspicabile, provoca effetti tellurici tra il pubblico e racconta a suo modo dell’attuale stato di grazia della band teutonica. Si prosegue con “Mad Butcher” e con la più attuale “Nailed To The Cross” per poi lanciare sul pubblico una fantastica serie di vecchie e nuove glorie: “Eternal Ban”, “Metal Discharge”, “The Ravenous Beast” e la fenomenale “Bestial Invasion”. Come aveva già preventivamente annunciato Schmier giorni prima, arriva infine la sorpresa in “Total Desater”: Peter Tagtgren degli Hypocrisy, “Evil” Abbath dei compianti Immortal e Sabina Classen degli Holy Moses calcano il palco e vanno a formare con i Destruction un dream team d’eccezione che conclude una delle migliori esibizioni di questa seconda giornata del Wacken 2004, facendoci assaporare un po’ di quella “vecchia scuola” tanto cara alle nuove leve. La storia, la leggenda, l’ istituzione del thrash…
DORO
E’ da non credere ciò che oggi abbiamo visto fare sul True Metal Stage dalla carismatica frontman dei riuniti Warlock; la metà della scaletta riservata allo show di Doro Pesch da solista si rivela, infatti, un’autentica sorpresa (e, purtroppo, anche un autentico disastro!) quando, sulle prime note di “Fear Of The Dark” (!) si apre il drappo posto sul palco e davanti agli occhi di tutto il pubblico appare l’orchestra sinfonica di Dusseldorf in tutta la completezza dei suoi numerosi elementi. Lo stupore aumenta ulteriormente quando sul palco sale un irriconoscibile Blaze Bayley a duettare con Doro (duetto che sarà ripetuto durante l’ormai stra-abusata “The Trooper” e l’inadatta, orchestralmente parlando, “Man On The Edge”); unico punto positivo dello show della bionda singer tedesca è l’esecuzione della ballad “Fur Immer”, che ha visto, tra le altre cose, una partecipazione speciale dell’axeman dei Savatage Chris Caffery; il pollice verso invece va all’esecuzione della maggior parte delle restanti song, tra le quali ricordiamo la recente “Live To Win” (tratta dall’ultimo “Fight”), l’ottima (ma in questo caso spompa!) “I Rule The Ruins” e la storica “All We Are”; il picco più basso del concerto di Doro si tocca però quando il pubblico viene sottoposto alla tortura dell’ascolto di una priestiana “Breaking The Law” eseguita con l’orchestra ed, addirittura, ad un tempo rallentato ed innaturale nei primi minuti. Fortunatamente, dopo la mezz’ora riservata al cambio di palco, cambiano le carte in tavola, ed ecco ripresentarsi sul palco Doro accompagnata dai Warlock, che decidono di fare uno show semplice e senza sorprese per quella che dev’essere una reunion che deve lasciare un ricordo positivo in tutto il pubblico; ed ecco allora la band dilettarsi in pezzi superbi quali “Metal Racer”, “Fight For The Rock”, “Burning The Witches” ed “Hellbound”, rivalutando la prestazione precedente della sua frontman (con uno show, per altro, non privo totalmente di imperfezioni) e riscattandosi davanti all’audience tedesca, che, ne siamo sicuri, manterrà, nel bene e nel male, un vivido ricordo di questa serata.
AMON AMARTH
Un manipolo di stoici ha atteso le due di notte, per coronare la giornata di venerdì con lo show degli Amon Amarth, pronto a sangue, spade e polvere! L’attesa era acuita dall’imminente release dei nuovi numi del viking, prevista per il 6 settembre ed intitolata “Fate Of Norns”. Ma ancora una volta non tutto è andato per il verso giusto. I possenti svedesi, capeggiati da un Johan Egg che più guerriero non si può, con una barba lunghissima ed un’espressione veramente truce (guardate l’ultima foto-session della band!), hanno guadagnato il centro del Black Stage accolti da un boato di approvazione. All’attacco iniziale qualcuno ha smesso di urlare incredulo: questa volta i suoni funzionavano, ma i volumi erano regolati all’altezza di una ninna-nanna da asilo-nido… purtroppo il problema si è protratto per tutta la durata dell’esibizione, castrando completamente l’ardore eroico delle composizioni dei nostri. A Wacken, in mezzo ai campi e al nulla, toccava sentire gli Amon Amarth come se avessero suonato in una casa di riposo. Inconcepibile. Johan e compagni avevano un bel da fare a muoversi per il palco, ad incitare il pubblico perché cogliesse la potenza dei brani e li cantasse con loro in quell’atmosfera così poco congeniale e ovattata. Così, tra gli highlight consueti dagli ultimi tre album, è spuntata l’anteprima di “Pursuit Of Vikings”, tratta da “Fate Of Norns”, che non ha sortito un’impressione positiva, rivelandosi un mid-tempo abbastanza scolastico e smorzato terribilmente dai due decibel di volume. L’amarezza è davvero grande, considerando che gli Amon Amarth, con il talento live che li ha sempre contraddistinti, potevano radere al suolo il W:O:A e regalare al loro audience una notte indimenticabile. In più sembrano non essere previste date italiane nel tour per il nuovo disco, dunque doppia delusione.
DEATH ANGEL
Ennesima buona prestazione da registrare per la band di Mark Osegueda e del dotato axeman Rob Castevany, che sotto il sole concente di mezzogiorno infiamma ulteriormente gli animi di tutti i presenti sotto il True Metal Stage, grazie a storiche hit del calibro di “Voracious Souls”, “Mistress Of Pain” e “Kill As One” (posta, quest’ultima, in chiusura di show), alle quali si alternano le canzoni dell’ultimo discreto “The Art Of Dying”, dal quale vengono estratte “Thrown To The Wolves”, “Thicker Than Blood”, “The Devil Incarnate” e la pessima “No”. In definitiva, ad ogni modo, un ottimo show, forse minato dalla scelta della scaletta (con solo tre quarti d’ora di tempo a propria disposizione si poteva evitare di inserire nello show così tanti pezzi dall’ultimo disco, per privilegiare la produzione storica), ma che ha sicuramente lasciato un marchio profondo in questa tre giorni di puro metallo.
UNLEASHED
Concerto carino ma non eccezionale quello degli Unleashed. Probabilmente il fatto di dover suonare all’una del pomeriggio, per giunta sostituendo un’altra band (i Deicide), non deve aver molto caricato Johnny Hedlund e compagni, i quali hanno sì dispensato sorrisi e suonato senza commettere errori ma non con la loro solita tipica ferocia. I volumi delle chitarre poi non erano esattamente il massimo e più di una song ha sofferto di questo handicap, perdendo in carica e stentando a coinvolgere il comunque numeroso pubblico accorso davanti al Black Stage. Ottime comunque le esecuzioni di “To Asgard We Fly”, “The Immortals” e “Before The Creation Of Time”, mentre del tutto inaspettata e accolta da una grande ovazione quella di “Evil Dead” dei Death, suonata per rendere omaggio a Chuck Schuldiner e a Quorthon, due fondamentali e sfortunati artisti molto cari alla band e ai fan.
ANTHRAX
Sono ormai anni che si parla degli Anthrax solamente come band decaduta, scialba copia della valida band che un tempo fu, che ormai si limita a riproporre, a stregua di una cover band, tutte il proprio repertorio sì con passione, ma ormai senza le capacità originarie. Effettivamente, da ciò che si è visto oggi a Wacken le conclusioni che si possono trarre, nonostante l’impegno di tutti i componenti del gruppo, sono all’incirca le stesse: è innegabile che sia sempre un gran piacere ascoltare i vecchi classici del gruppo come “Antisocial”, “Madhouse”, “Caught In A Mosh”, “Indians” e, regalo particolare della band ai fan per l’occasione particolare, l’ormai dimenticata “Deathrider”, storica opener del primo “Fistful Of Metal”; nonostante questo, però, la verve sembra ormai irrimediabilmente andata per sempre ed a nulla serve l’impegno di Bush e degli altri membri della band nell’emulazione dei loro illustri predecessori. Uno show, tutto sommato, più che sufficiente, ma indubbiamente di poco conto se paragonato agli spettacoli spropositatamente energici con cui gli Anthrax infiammavano le grandi e le piccole platee negli anni Ottanta…
CANNIBAL CORPSE
Nel pieno pomeriggio di sabato, sul Black Stage, si è consumato il solito massacro targato Cannibal Corpse. Un massacro un po’ strano per tutti coloro che non risiedono in Germania: come è ormai noto, infatti, la band in terra teutonica non può assolutamente suonare brani provenienti dai primi tre album, ai tempi giudicati osceni e tutt’oggi messi al bando! La setlist quindi comprendeva esclusivamente pezzi recenti: da “Pounded Into Dust” ad “Unleashing The Bloodthirsty”, da “Devoured By Vermin” all’ultimo singolo “Decency Defied” e a “They Deserve To Die”, quest’ultima dedicata da Corpsegrinder a “tutti coloro che vogliono fermare il death metal in Germania”! Dei suoni decenti e una buona partecipazione del pubblico hanno comunque decretato il successo dello show, intenso e divertente come al solito nonostante la scaletta mutilata.
NEVERMORE
I Nevermore erano una delle garanzie del Wacken, confermati sin dal 2003 come partecipanti dell’edizione dei quindici anni. Anzi, ci piacerebbe dire che questa band geniale, emersa dalle piogge perenni di Seattle, sia una garanzia anche in sede live… diremmo una menzogna, di questi tempi. Dispiace, ma i Nevermore sul palco non sembrano più quelli che esaltavano le masse durante i tour di “Dreaming Neon Black” e di “Dead Heart In A Dead World”. Alle cinque di sabato, con lo spiazzo del True Metal Stage gremito e un’ora a disposizione, hanno riservato alla platea wackeniana uno show davvero mediocre e privo di mordente, funestato oltretutto da suoni indegni, specialmente durante la prima parte, in cui sono state rovinate “The Seven Tongues Of God”, “Beyond Within” ed “Enemies Of Reality”, giusto per citare. Così i fonici hanno dato una sistemata ai volumi e reso finalmente riconoscibili i brani dei nostri, permettendoci di godere almeno di “The Heart Collector”. Già, perché poi l’ex-frontman prodigioso che ha nome Warrel Dane era ridotto alla quasi incapacità vocale, completamente bollito dai suoi letali cocktail da fai-da-te farmaceutico. “The Sound Of Silence”, “The River Dragon Has Come” senza più una linea vocale decente… e il biondo singer faceva pure il simpatico, imprecando contro MTV per aver censurato il video di “I Voyager”, colpevole di contenere scene sanguinose e frattaglie in eccesso, condannando anche quel brano ad uno storpio indegno… non ci siamo, àridatèce i Nevermore di qualche anno fa!
HYPOCRISY
Allucinazioni aliene e fobie del terzo millennio fanno da spalla a questa ennesima partecipazione al festival tedesco dei seminali Hypocrisy del geniale e richiestissimo padrone deli Abyss studios Peter Tagtren. La band, forte di un buon album quale “The Arrival” e di una nuova e già consolidata line-up (si ricordano infatti, oltre allo storico bassista Mikael Hedlund, anche il nuovo chitarrista Andreas Holma e l’ex Immortal Horgh dietro le pelli), comincia il suo show con la visionaria “Fractured Millennium” dal bellissimo “Hypocrisy”, penalizzata un po’ da un suono non proprio nitidissimo che non turba il pubblico, incurante ed entusiasta della proposta dell’act. Si prosegue con “Adjusting The Sun”, uno dei pezzi più belli mai scritti dagli Hypocrisy e riproposto solo nell’ultimo tour. Con “Fusion Programmed Minds” però si raggiunge l’apice della disorganizzazione per quel che riguarda l’apparato audio: chitarre troppo basse e coperte dalle percussioni, voce a intermittenza, etc. Lo show prosegue comunque tra vecchi e nuovi classici della band come “God Is A Lie” (disumana), “Fire In The Sky”, l’inaspettata “Inferior Devoties”, l’anthem “Roswell 47” (ribattezzata per l’occasione “Wacken 47”) e le più recenti “The Eraser”, primo singolo del nuovo disco, e “Turn The Page”, dall’ingiustamente criticato ed innovativo “Catch 22”. E’ bene precisare che lo show comunque è stato “macchiato” non solo dai problemi audio ma anche da una prova non proprio sopra le righe del leader maximum Peter Tagtgren, che è apparso a tratti un po’ approssimativo. Chi ha visto più volte gli Hypocrisy sa che la band è capace di ben altro… comunque la conclusiva “Burn Dead Buried Alive” chiude un concerto forse poco curato, ma coinvolgente e con una scaletta ottima. Gli Hypocrisy avranno sicuramente modo di rifarsi.
HELLOWEEN
Probabilmente uno degli show più coinvolgenti di Wacken (anche se non uno dei più riusciti), gli Helloween hanno raccolto vere e proprie ovazioni di apprezzamento da parte di un pubblico che sembrava veramente soddisfatto di tutto ciò che la band gli propinava. D’altra parte non è un mistero per nessuno che le simpatiche ‘zucche di Amburgo’ oggi giochino in casa, e non c’è da meravigliarsi se quando all’intro a cui segue l’ingresso sul palco della band e la terremotante “Starlight” tutti i presenti rispondano con un lungo ed incessante boato, nonostante si noti già dai primi minuti che i suoni di cui il gruppo gode oggi non sono ottimali e la voce di Andi non è in forma come in altre circostanze. La scaletta suonata, per certi versi, rappresenta una felice sorpresa: come secondo pezzo, infatti, gli Helloween (nonostante la breve ora a disposizione per il proprio show) decidono di suonare per intero la lunga “Keeper Of The Seventh Keys”, mandando al settimo cielo un pubblico già in visibilio. A questa fanno seguito le più recenti “Hey Lord” e “If I Could Fly” e, se l’ottimo e recentissimo “Rabbits Don’t Come Easy” viene completamente trascurato, così certo non è per i primi dischi della band, e così il pubblico ha il piacere di assistere all’esecuzione delle immortali “How Many Tears”, “Eagle Fly Free”, “Doctor Stein” e, dulcis in fundo, la grandiosa “Future World”, che raggiunge l’apice e vede come special guest nientedimeno che Sua Maestà Kai Hansen, che torna, dopo ben quindici anni, a calcare (anche se solo per cinque scarsi minuti) i palchi insieme a Michael Weikath. Conclusione: nonostante la forma non eccelsa in cui la band versava in data odierna, le cinque zucche continuano sempre a divertire ed a divertirsi… promossi a pieni voti!
DISBELIEF
Sembrerà assurdo, ma due dei migliori show di questa edizione del Wacken Open Air hanno avuto luogo sul puzzolente e dimenticato W.E.T. Stage! Dopo l’esaltante show dei Misery Index venerdì sera, esattamente ventiquattro ore dopo si è replicato con i Disbelief i quali, giocando in casa, hanno richiamato una gran folla sotto il tendone. I suoni erano eccellenti e il quintetto è apparso motivatissimo, suonando praticamente senza soste per quarantacinque minuti. Jagger si è confermato uno dei migliori growler della scena ma tutta la band ha girato alla perfezione, mettendo letteralmente a ferro e fuoco il piccolo palco. Da incorniciare le esecuzioni di “Ethic Instinct”, “No Control”, dell’ignorantissima “Godmaster” e del classico “Misery”. Sempre più grandi!
CHILDREN OF BODOM
C’è grande attesa sotto il Black Stage per vedere una delle poche band che negli ultimi anni ha realmente portato un vento di freschezza all’intero movimento metal; i Children Of Bodom ricambiano le aspettative presentandosi sul palco per suonare da veri professionisti, dando più spazio al contenuto che alla teatralità, e facendo sì che l’esecuzione delle loro hit più famose risultasse pressoché perfetta. “Bodom After Midnight”, “Dead Fucking Dead” ed “Everytime I Die” risultano assolutamente entusiasmanti (anche se non così coinvolgenti e ricche d’impatto, colpa di un suono non proprio ottimale), e la band riesce a mantenere la giusta tenuta di palco fino alla conclusiva “Towards Dead End”, che conclude ottimamente uno show da ricordare.
SAXON
Il festival volge al termine, ma il tempo a disposizione non è ancora terminato, e ne rimane in abbondanza (ben due ore!) per lo show della band del goliardico Biff Byford che, è bene dirlo subito, non tradisce assolutamente le aspettative, regalando, a nostro avviso, la migliore performance di questa tre giorni heavy metal. Dopo un breve intro, i cinque salgono sul palco facendo risuonare nell’area concerti le note della mitica “Heavy Metal Thunder”, da sempre song d’apertura per la band inglese, seguita a ruota da “Dogs Of War”, “Solid Ball Of Rock”, “Travellers In Time” (dal recente “Metalhead”) e dalla prima sorpresa dello show, ovverosia l’autentico inno che risponde a nome di “Rock Is Our Life”, canzone posta in chiusura dell’ultimo “Killing Ground” e, nonostante la sua bellezza, pressoché mai suonata negli ultimi anni di tour. Tra un richiamo e l’altro di Biff verso la platea, ecco incedere lo storico riff di “Princess Of The Night”, che già alle prime note manda in assoluto visibilio tutti i presenti, così come la veloce “And The Bands Played On”, da sempre song-cardine del repertorio della band on stage. Il tempo a disposizione è ancora parecchio, e così via con “Backs To The Wall” (song tratta dal debutto dei Saxon), la richiestissima “Crusader” e la mitica “Strong Arm Of The Law”… naturalmente c’è il tempo anche per i più grandi cavalli di battaglia della band, e così, tra un pubblico completamente stremato ma letteralmente in estasi, ecco avanzare le note delle immortali “Wheels Of Steel”, “Motorcycle Man” e “Denim And Leather”, autentici inni che portano verso la chiusura uno spettacolo veramente grandioso, nella quale la band ha dato tutta se stessa, suonando perfettamente e tenendo sempre alto il suo fattore di goliardicità grazie ad un Byford particolarmente in forma. La chiusura, dopo due ore quasi ininterrotte di concerto, è affidata ad un’altra chicca, ovvero all’ormai dimenticata “Forever Free”, title-track dell’omonimo album, che ormai da troppo tempo i Saxon non erano soliti suonare dal vivo; inoltre, non contenta, la band concede anche un bis, per la gioia del pubblico, con la storica “Dallas 1 P.M.”. Ultima nota va ai guest che la band ha presentato on stage, tra i quali una nota particolare va ai sempre carismatici Chris Caffery (Savatage) e Schmier, leader dei Destruction.
SATYRICON
I Satyricon con Nocturno Culto al Wacken 2004: evento storico o mossa azzardata? In un’analisi sintetica e forse un po’ scontata potremmo dire che la verità sta nel mezzo, ma in effetti questa considerazione va analizzata nelle tante sfaccettature che ne conseguono. Bisogna inanzitutto premettere che la calata dei Satyricon al festival tedesco è stata senza ombra di dubbio l’esibizione più attesa e che ha destato maggior curiosità, innanzitutto perché è stata la prima volta dei Satyricon al W.O.A, e poi perché si sarebbero portati dietro un ospite illustre quale Mr. Nocturno Culto dei Darkthrone. Ma ci si chiedeva anche: “Il vocalist dei Darkthrone si sarebbe trovato a suo agio in un simile contesto?”, “I pezzi dei Darkthrone non finiranno per perdere qualcosa nell’essere eseguiti in questo modo?”. E infine: “come reagirà il pubblico ad un simile show?”. Comunque lo spettacolo dei norvegesi comincia con un intro malsano ed inquietante che fa da apripista ai loro classici di sempre quali “Walk The Path Of Sorrow” “Night Of The Triumphator”, “Filthgrinder” – dal forse sottovalutato “Rebel Extravaganza – “Forhekset”, dal capolavoro assoluto “Nemesis Divina”, “Hvite Krists Dod”, da “The Shadowthrone” e, ahimé, “Angstridden”, “Fuel For Hatred” e “Repined Bastard Nation” dal debole “Volcano”. I Satyricon col passare degli anni hanno acquistato grande padronanza dei live show, e Satyr in qualche modo è riuscito ad essere un po’ più frontman e un po’ meno norvegese, mentre il suo compagno misantropo Frost è entrato definitivamente nell’olimpo dei batteristi (non solo in campo black) per perizia tecnica mista a velocità disumane. Dopo un breve break, due croci (neanche a dirlo) rovesciate vengono incendiate e ci annunciano il tanto atteso arrivo di Nocturno Culto che ci propina con Satyr alla chitarra ben quattro pezzi: “Transilvanian Hunger”, “Under A Funeral Moon”, “The Hordes Of Nebulah” e “Kathaarian Life Code”, quest’ultimo dal bellissimo “A Blaze In The Northern Sky”. La band interpreta bene i brani ma l’atmosfera presente sui dischi va inevitabilmente un po’ a perdersi, senza contare che il pubblico non reagisce esattamente alla grande. In ogni caso Nocturno Culto, un po’ impacciato e restio a muoversi sul palco, riesce ad aizzare parte della folla solo con la sua voce e quando annuncia di voler dedicare la sua performance a Quorthon e ai suoi Bathory esplode un vero boato! Poi giunge per lui il momento di congedarsi dal ruolo di frontman e di imbracciare la chitarra e con l’attesissima “Mother North” i Satyricon chiudono uno show sì bello, ma che a tratti è forse stato poco capito (non tutti i presenti infatti erano black metaller convinti, quindi forse ignari del concept dei Darkthrone, incapaci di farsi trasportare e di comprendere l’importanza di un simile evento). Onore comunque ai Satyricon e a Nocturno Culto per l’ottima performance, il coraggio e l’intraprendenza. The black flame is still burning!