Introduzione a cura di: Maurizio Borghi e Gennaro Dileo
Live report a cura di: Alessandro Corno, Maurizio Borghi e Gennaro Dileo
Foto a cura di: Bianca Saviane, Emanuela Giurano, Lunah, Wacken Open Air
Introduzione
Armati di tende, bagagli, sacchi a pelo, ma soprattutto del nostro consueto entusiasmo, siamo pronti a invadere in maniera pacifica Wacken per stilare il reportage di uno dei Festival più importanti al mondo, che anche quest’anno registra un meritato sold out. Giungiamo a destinazione nella Terra Promessa dell’Heavy Metal mercoledi 3 agosto intorno alle 18:00, e dopo aver sbrigato alcune formalità, decidiamo di fare un giro di ricognizione in questo enorme villaggio che assume i connotati del paese dei balocchi, invogliandoci a provare ogni delizia locale o internazionale, accompagnata rigorosamente da un buon boccale di birra tedesca. Chiunque desideri vivere le situazioni più deliranti e grottesche, deve visitare il vasto campeggio riservato al pubblico pagante, occupato da orde di ragazzi pittoreschi (abbiamo incrociato cinque tizi vestiti da Power Rangers ed un nostalgico dell’hair metal indossare un paio di pantaloni sadomaso mettendo in mostra il suo deretano) più o meno brilli occupati ad innalzare al cielo bicchieri e corna di bue colmi di birra, mentre il più pacato collezionista può trovare pane per i propri denti al Metal Markt, una sorta di fiera indoor presso la quale si possono reperire a prezzi tendenzialmente contenuti le ultime novità in cd e parecchie rarità in vinile. La macchina organizzativa ha operato in maniera pressochè impeccabile, dislocando sul territorio una serie infinita di stand zeppi di memorabilia, abbigliamento, sigarette, pelli di volpi, vibratori (!) e molti altri sfizi che hanno contribuito a rendere l’atmosfera davvero particolare. Per non parlare poi dello stupendo accampamento/mercato medievale con tanto di palco a sè stante, allestito all’esterno dell’arena concerti principale. Del tutto imparagonabile alla concezione di festival che siamo abituati a vivere in Italia, Wacken rappresenta, più di ogni altro concorrente nel mondo, la summa dell’essere metallari. Come ritrovo sommo, attaccamento agli ideali, spirito di fratellanza e fierezza concettuale possiamo paragonarla sensatamente ad un gay pride, al quale ovviamente i connotati sessuali vanno sostituiti con l’amore per la musica, con la stessa assoluta libertà di espressione. Tutto ciò è stato tramutato abilmente, negli anni, nella glorificazione di un marchio (quello del teschio di bue) divinizzato alla pari della mela di Apple e presente in ogni store all’interno dell’arena come in una serie di invenzioni merceologiche di dubbio gusto, dalla tenda al portasigarette, dal salviettone al caffè. Tutto fila con magnifica precisione tedesca, a livelli qualitativi da leader del settore – suoni potenti e perfetti sin dal mattino e su ogni palco, riprese multicamera con regia da DVD, tempistiche cronometrate, servizi puntuali e code ridotte al minimo – a discapito forse di un cartellone che potrebbe attirare nomi più altisonanti, ma che è già affollatissimo allo stato attuale. Molti d’altronde, preferiscono vivere appieno l’esperienza del villaggio e del campeggio più che assistere ai concerti. Per i “vergini”: ogni meraviglia che avete letto corrisponde a una realtà anche più brillante. Lo scotto da pagare? Per un posto nella Mecca del metallo comprate il vostro biglietto a scatola chiusa, incuranti del bill, e preparatevi a un traffico al collasso totale per raggiungere ed evadere dal placido villaggio di allevatori. Se vi proclamate metallari almeno una volta, nella vita, è un luogo da visitare. (Gennaro Dileo, Maurizio Borghi)
[flickr-gallery mode=”photoset” photoset=”72157627667616624″] [flickr-gallery mode=”photoset” photoset=”72157627451840901″]Giovedì 4 agosto 2011
GOLEM
Un tassello decisamente importante del Wacken è la Metal Battle, ossia il concorso per band emergenti che ogni anno vede la partecipazione di numerose formazioni provenienti da diversi stati. Qui al festival si svolge la fase finale di questa ambita competizione tra i primi classificati di ogni nazione. Quest’anno tocca ai Golem rappresentare l’Italia e per l’occasione il quartetto pugliese ha veramente fatto le cose in grande. A partire dagli inviti a partecipare al loro show diffusi nell’area stampa e nell’arena concerti, passando per una preparazione del set con dei professionali banner grafici, fino alla presenza di un bellissimo vero e proprio golem gigante che già la sera precedente si aggirava nel backstage. Il loro sound, a metà tra thrash-death metal scandinavo e hard rock diretto con ritornelli di gran presa, è quanto di più adatto ci sia per far presa sull’ascoltatore già dopo le iniziali “It’s A Long Night”, “We Say No”, “No Remorse” fino alla conclusiva “One Bullet Left”, titletrack dell’ultimo album. L’attitudine è abbastanza composta ma la prestazione è precisa e coinvolge un pubblico accorso in discreto numero, considerando che sullo stage principale gli Skyline stanno dando il via ufficiale al festival. La maggior parte dei presenti inoltre non immagina certo di vedere un mastodontico golem irrompere sul palco durante lo show e gli applausi non possono mancare, così come un coro finale “Golem!, Golem!” che rende perfettamente l’idea dell’impressione positiva lasciata dal breve ma intenso show proposto dai nostri. Anche se alla fine saranno gli israeliani Hammercult a portarsi a casa titolo, strumenti e contratto discografico in palio, per la formazione italiana resta comunque la certezza di aver rappresentato molto bene la ricca scena underground del nostro paese.
(Alessandro Corno)
KVELERTAK
Lontano dai grandi stage e fuori dall’arena? Una collocazione che sembra sfavorevole ad una delle band rivelazione del 2010, i norvegesi Kvelertak. La band ha dimostrato nel debutto di saper coniugare la pericolosità del rock n roll nordico con elementi dei hardcore evoluto “made in Deathwish” e black metal, ma non è mai stata veramente in grado di sfoggiare tutte le proprie qualità come nella cornice della “Bullhead City”, teatro di incontri di wrestling, show comici, lotte nel fango e capezzoli turgidi sotto magliette bagnate. Con uno zombie gigante lato palco, un ring da wrestling in mezzo alla tenda (collegata al palco da una passerella) e un’aquila d’acciaio nel lato opposto, le bordate dei norvegesi risultano ancora più esaltanti, tanto da gettar benzina su un pubblico infiammatissimo. Il sestetto conferma in toto quanto promesso su disco, ed esegue tutte le canzoni dell’album in quello che è praticamente un full set, visto che il gruppo ha all’attivo un solo lavoro. Il frontman sembra il più indiavolato: si arrampica sull’impalcatura delle luci, e in un secondo momento corre fino al ring per gettarsi sul pubblico dalle corde, terminando uno show per molti versi memorabile. L’ostacolo più grande alla loro esplosione resta la barriera linguistica… non chiedeteci la setlist dunque!
(Maurizio Borghi)
SKYLINE
Come al solito l’apertura ufficiale del festival spetta agli Skyline, formazione in cui militò anche uno degli organizzatori del Wacken Open Air, Thomas Jensen. Pur evidenziando la dubbia utilità dell’esibizione di questa che più che una band possiamo definire una “super cover band”, non possiamo esimerci dal raccontarvi come il Wacken Open Air 2011 ha inizio, precisando che i primi minuti della performance sono stati da noi sacrificati in favore della parzialmente contemporanea esibizione dei nostri Golem sul piccolo Wet Stage, alla quale non potevamo certo mancare. Perdiamo dunque il tributo al defunto Gary Moore, proposto on apertura con le cover di “Out In The Fields” e “Over The Hills And Far Away”, e arriviamo sotto al Black Stage quando sul palco con gli Skyline c’è l’immancabile Doro. La bionda metal queen è come da copione alle prese con “We Are The Metalheads” inno del Wacken 2009, com la nuova e poco esaltante “Raise Your Fist” e con “All We Are”, pezzo quest’ultimo che oramai conoscono anche le vacche al pascolo nei prati limitrofi. Tocca quindi a Chris Boltendahl dei Grave Digger prendere il microfono e intonare “Wacken Will Never Die”, canonico mid tempo di stampo teutonico che fa da inno al Wacken 2011. Segue Tom Angelripper di Sodom e Onkel Tom con la sua “Auf Noch Wacken” e infine all’ex-Accept e istituzione Udo Dirkschneider che chiude le danze con “Heavy Metal WOA” e i classici “I’m A Rebel” e “Princess Of The Dawn” della sua vecchia band. Poco o nulla altro da segnalare, se non i mega palloni marchiati Wacken che vengono lanciati sulla folla durante gli ultimi pezzi. Iniziativa simpatica dunque ma ben poco interessante.
(Alessandro Corno)
HELLOWEEN
Le zucche amburghesi hanno l’enorme vantaggio di giocare la partita in casa, difatti appena fuoriescono le note di “Are You Metal” dalle casse poste sul monumentale True Metal Stage, i ragazzi vengono accolti dal pubblico alla grande. La band appare sorridente e in buona forma, ma appena giunge il momento di intonare il ritornello del brano salta l’impianto di amplificazione. Colti inizialmente alla sprovvisa da questo inconveniente che scalfisce in qualche modo la proverbiale perfezione tedesca, Deris & C. scoppiano in una sincera risata che contagia i presenti. I Nostri non si danno per vinti, ci riprovano, ma al medesimo punto di prima avviene il medesimo blackout. La band esce di scena improvvisamente, lasciando un grosso punto interrogativo sulla nostra testa, per riapparire qualche minuto dopo con il buon Deris impegnato a interagire scherzosamente con la folla in lingua madre. Le note estratte dal manuale del power metal assumono le sembianze di “Eagle Fly Free” e “March Of Time” che fanno sempre un certo effetto a più di vent’anni di distanza, mentre spetta al roccioso mid tempo “Where The Sinners Go” allentare le emozioni accumulate nei due precedenti episodi. Dani Loble imbecca la giornata di grazia sfornando una performance ineccepibile dietro le pelli, sciorinando un riuscito mix di potenza, tecnica e fantasia che sfocia nel suo terremotante drum solo amplificato coreograficamente dal set composto da ben quattro grancasse. Il consueto medley composto da “Keeper Of The Seven Keys”/”The King For A 1000 Years”/”Halloween ” riassume le tre suite che rappresentano il repertorio più intricato e progressivo della loro carriera, eseguito in questa occasione con stile ed un pizzico di mestiere, mentre le quotazioni calano vertiginosamente durante l’esecuzione delle anthemiche “Future World” e “I Want Out”, prolungate fino allo sfinimento da un continuo ed irritante botta e risposta tra un Deris in evidente difficoltà vocale e il pubblico, mettendo a dura prova la nostra pazienza e sottraendo di conseguenza del tempo prezioso che poteva essere impiegato meglio, magari nell’esecuzione di almeno due o tre brani in più. Agrodolci.
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
Are You Metal?
Eagle Fly Free
March of Time
Where the Sinners Go
Drum Solo
I’m Alive
Keeper of the Seven Keys / The King For a 1000 Years / Halloween
Future World
Dr.Stein
I Want Out
BLIND GUARDIAN
Mentre il True Metal Stage viene allestito per lo show di Ozzy Osbourne, un’altra band praticamente headliner come durata del set e scenografia si prepara a salire sul palco. Si tratta dei Blind Guardian, gruppo che in madrepatria è in grado di sfiorare di poco il primo posto in classifica nazionale e può dunque vantare un seguito impressionante. Chi scrive li ha già visti diverse volte esibirsi qui a Wacken e anche in questa occasione si ripete il vero e proprio successone a cui Hansi Kursch e compagni ci hanno abituato. La band questa sera è in forma e in particolare proprio il cantante che, sebbene tenda come di consueto a semplificare qualche passaggio, appare molto più pulito e preciso del solito anche sulle tonalità più alte, una bella sorpresa per i fan. Lo show, supportato da suoni a dir poco nitidi e potentissimi, è tutto un alternarsi di brani vecchi e nuovi tratti da quasi tutta la discografia. Troviamo la nuova “Sacred” posta in apertura e convincente anche dal vivo, sebbene le parti orchestrali siano per forza di cose registrate. Ecco subito dopo l’incursione micidiale di “Welcome To Dying”, che scatena le prime file e il relativo crowd surfing, o la perla “Nightfall” cantata a piena voce dalle decine di migliaia di fan assiepati sotto al palco. Hansi non risparmia ringraziamenti ma purtroppo per noi solo in tedesco. Da manuale la prestaziome del batterista Frederik Ehmke, devastante sia sulle più datate “Time Stands Still” o “Traveller In Time” che sulla estrosa “Fly”. “Tanelorn (Into The Void)” passa senza lasciare più di tanto il segno e dopo la monumentale “Imaginations From The Other Side” è il lento “Lord Of The Rings” a far alzare a tutti le braccia al cielo e cantare. Si rientra invece nel repertorio recente con “Wheel Of Time”, altro pezzo orchestrale che dal vivo però colpisce meno della “sorella” “Sacred”. Cambio radicale di sound e tuffo nel passato più lontano con “Valhalla” e “Majesty”, prima dell’immancabile e sempre emozionante “The Bard’s Song (In The Forest)”. Il massimo dello spettacolo e dell’esaltaziome collettiva arriva però con la conclusiva “Mirror Mirror” sulla quale la super partecipazione del pubblico è accompagnata da fuochi d’artificio e fiammate a non finire, per un finale che corona nel migliore dei modi una delle prestazioni più esaltanti del Wacken 2011 nonchè la migliore dei Blind Guardian alla quale il sottoscritto abbia mai assistito.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Sacred
Welcome To Dying
Nightfall
Time Stands Still
Traveller In Time
Fly
Tanelorn (Into The Void)
Imaginations From The Other Side
Lord Of The Rings
Wheel Of Time
Valhalla
Majesty
The Bard’s Song (In The Forest)
Mirror Mirror
OZZY OSBOURNE
Dal corposo diario della pazzia scritto dal poliedrico artista inglese, potremmo estrarre senza alcuna difficoltà una serie di folli aneddoti da tramandare ai posteri, episodi che assieme ad alcuni dischi fondamentali nella storia del rock hanno elevato allo status di leggenda vivente il signor John Michael Osbourne. Il frontman sale sul palco incitando la folla ad andare completamente fuori di testa e non appena parte l’incendiario riff di “I Don’t Know”, veniamo catturati da un sound decisamente devastante amplificato all’eccesso da una resa sonora davvero eccellente. La particolare nota dolente risiede nel pessimo stato di forma delle sue corde vocali (poco prima dello show le agenzie di stampa hanno ad ogni modo riportatoche Ozzy ha perso due corone ai denti, ndA), che penalizza notevolmente la qualità complessiva dello show, steccando clamorosamente anche le parti più semplici, ma salvato in corner dall’impeccabile esecuzione strumentale dei suoi musicisti. Il giovane batterista Tommy Clufetos dimostra di avere la dinamite al posto delle braccia, prodigandosi in una devastante esecuzione dei vari classici come “Suicide Solution”, “Mr.Crowley” e “Bark At The Moon” raggiungendo vette inaudite di potenza nella lunga strumentale “Rat Salad” che permette al Madman di tirare il fiato. Gus G tesse in maniera impeccabile le trame chitarristiche, limando all’osso l’utilizzo degli armonici di chitarra, snocciolando altresì assoli architettati su un sound meno grasso, ma altrettanto potente. Il lungo, tortuoso e distorto blues di “War Pigs” ci scaraventa nella macchina del tempo con destinazione 1970, quando i Black Sabbath hanno rivoluzionato in maniera lungimirante il modo di concepire la musica pesante, senza perdere di vista la melodia nell’accattivante “Iron Man”. Il riff immortale di “Paranoid” è la più logica ed apprezzata conclusione di uno show controverso che accende un’ulteriore e preoccupante campanello d’allarme sull’ugola del Madman generando di conseguenza un dubbio lecito: quando calerà definitivamente il sipario sul Principe delle Tenebre?
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
I Don’t Know
Suicide Solution
Mr. Crowley
War Pigs
Bark at the Moon
Road To Nowhere
Shot in the Dark
Rat Salad
Iron Man
I Don’t Want To Change The World
Crazy Train
Encore:
Mama, I’m Coming Home
Paranoid
Venerdì 5 agosto 2011
ENSIFERUM
Il viking metal melodico nella parte Nord della Germania vicina alla Scandinavia è molto seguito e l’arena che a mezzogiorno è già discretamente popolata di fan accorsi per assistere allo show degli Ensiferum, ne è l’ennesima conferma. Il gruppo entra in scena rigorosamente a petto nudo, con kilt e trucco da battaglia sulle note dell’intro “By The Dividing Stream”. E’ la titletrack dell’ultimo e decisamente bello album in studio “From Afar” a fare da apripista e scaldare un pubblico ancora poco attivo. le parti corali registrate e qualche semplificazione di troppo da parte del batterista Janne Parviainen sui velocissimi ritornelli sono gli unici nei di una performance ottima sia dal punto di vista strumenale che come prestazione al microfono da parte di Petri Lindroos. Il coinvolgimento sale con la successiva e divertente “Twilight Tavern”, mentre il taglio più epico degli Ensiferum è ben rappresentato da “Battle Song” e della vecchia “Tale Of Revenge”. Spettacolare il break centrale “folk-western” della successiva “Stone Cold Metal” con molti ragazzi in platea che, birra rigorosamente alla mano, si prodigano in balletti e danze varie e cinque minuti dopo si lanciano nel pogo con la tiratissima “Blood Is The Price Of Glory”. Il finale arriva con la lunghissima “Victory Song” e l’immancabile “Iron”. Show dunque divertente e di buon livello da parte di una delle melodic viking/folk metal band più valide in circolazione.
(Alessandro Corno)
By The Dividing Stream
From Afar
Twilight Tavern
Battle Song
Tale Of Revenge
Stone Cold Metal
Blood Is The Price Of Glory
Treacherous Gods
Victory Song
Iron
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SUICIDAL TENDENCIES
I Suicidal partono alla grandissima con “You Can’t Bring Me Down”, e sia l’eccellenza del materiale che lo stato di salute del gruppo vengono messi in bella mostra dal primo minuto. Sarà durante lo spettacolo che farà bella mostra di sè una sezione ritmica davvero eccezionale, costituita da un sempre ottimo Stephen ‘Thundercat’ Bruner che si interfaccia in maniera egregia col colossale Eric Moore, batterista di dimensioni spropositate (a livello del collega Gene Hoglan), protagonista di funamblolici giochetti con le bacchette per tutto il tempo a disposizione della band, e anche per un meritato siparietto a lui esclusivamente dedicato. L’essenza dei Suicidal (come degli Infectious Grooves) rimane inossidabile, sia come grinta e presenza scenica quanto come MC, in grado di introdurre con sermoni ispirati i classici “Come Alive”, “Possessed To Skate” e gli altri. Mister “Bandana Blu” è ingrassato e invecchiato non c’è dubbio, ma mantiene un carisma unico e soprattutto, dopo anni di attività, non ha perso la credibilità e lo stile che ha contraddistinto il suo intero percorso artistico. Se anche Dean Pleasants se la cava bene sul palco della manifestazione tedesca è Cyco Mike a disertare, restando inspiegabilmente a lato palco per quasi tutta la scaletta, limitandosi a fare il suo, praticamente rimanendo ad osservare i colleghi suonare. Poco male comunque; il concerto fila liscio e il pubblico, coinvolto in continuazione, si dimostra assolutamente entusiasta, tanto che il gruppo esce su un coro insistente che inneggia “S-T, S-T!”. Oltre al minutaggio per molti il neo più evidente dello show è l’esclusione di “Institutionalized” dalla setlist: quasi tutti vogliono (una Pepsi, ndR) sentire la canzone più famosa e rappresentativa del gruppo, ma per chi scrive va più che bene così. I Suicidal possono permetterselo e rimanere intrappolati in questi obblighi formali non è certo cosa da Cyco!
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
You Can’t Bring Me Down
Join the Army
War Inside My Head
Subliminal
Come Alive
Possessed to Skate
(Drum Solo)
Suicidal Failure
How Will I Laugh Tomorrow
Pledge Your Allegiance
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AS I LAY DYING
Una delle bandiere del metalcore attuale, sopravvissuta allo sfascio del genere e all’attualizzazione della moda nel movimento deathcore, sono sicuramente gli As I Lay Dying. La formazione è molto attesa a giudicare dall’affluenza al palco principale: il quintetto fa la sua entrata in scena avvolto dalle nubi artificiali, che col vento creano un coreografico “effetto tempesta” e rendono possibili, allo stesso tempo, giochi di luci anche in pieno giorno. L’incipit è affidato a “Within Destruction”, e subito si intuisce che la prestazione del gruppo, sempre sopra le righe, è oggi ai massimi livelli, grazie all’impianto sonoro incredibile e al sostegno di un pubblico in piene forze. Esaltazione totale quando arrivano anche le fiamme, che si proiettano trasversalmente da fondo palco in direzione pubblico: un plus a cui gli spettatori non sono per niente abituati e che aumentano la foga di un pit che va in crescendo. Se Tim Lambesis è un frontman sempre più sicuro di sè Josh Gilbert, alle clean, non fa una sbavatura. Aggiungiamo una band decisamente “in palla” e il risultato, soprattutto sul climax di “Forever”, non può che essere una carneficina sotto il sole tra mosh e abbondante crowd surfing. Serie A.
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
Within Destruction
The Sound of Truth
Upside Down Kingdom
Through Struggle
An Ocean Between Us
Anodyne Sea
Condemned
Parallels
Separation
Nothing Left
Forever
Confined
94 Hours
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RHAPSODY OF FIRE
Mentre sul Black Stage stanno per salire gli As I Lay Dying, la parte di pubblico più incline al power classic si sposta verso il più piccolo Party Stage dove stanno per andare in scena i nostri Rhapsody Of Fire. L’arena antistante il palco presto si riempie ed è piuttosto evidente che la symphonic power metal band friulana avrebbe meritato uno dei due palchi principali. Con il solo fondale con copertina di “Frozen Tears Of Angels” a fare da contorno e a indicare che questo show non è parte del tour dell’ultimo album “From Chaos To Eternity” (dal quale infatti non verrà proposto alcun pezzo), Luca Turilli, Alex Staropoli, Fabio Lione e il resto della squadra danno il via alle danze con una “Triumph Or Agony”. La resa del pezzo soffre di suoni che a centro platea penalizzano soprattutto orchestrazioni e chitarre, complici anche delle fastidiose raffiche di vento. Sebbene non manchi anche qualche imprecisione, la prestazione del gruppo in cui troviamo il nuovo chitarrista Tom Hess è più che buona, con uno strepitoso Fabio Lione a farla da padrone. È la sua voce a catalizzare l’attenzione dei molti presenti su brani come l’acclamatissima “Holy Thunderforce” o “Village Of Dwarves”. D’altronde chi era presente al Wacken 2000, ricorderà una prestazione non molto brillante da parte del biondo frontman e non potrà che essere entusiasta dello stato di forma attuale di un cantante che oggi ha pochi rivali in ambito power. Dopo una buona ma meno attesa dal pubblico “On The Way To Ainor” è il turno dei cori da stadio di “Dawn Of Victory” e il coinvolgimento è garantito. Grandi applausi nel finale accompagnano la band verso “Lamento Eroico” dove è ovviamente ancora una volta Fabio a dominare la scena con una prova vocale impeccabile. “March Of The Swordmaster e Unholy Warcry” precedono la complicatissima “Reign Of Terror” che impegna non poco il reparto strumentale ma anche il vocalist, il quale si destreggia bene nei continui cambi tra scream e cantato pulito. Gran finale con il super classico “Emerald Sword”, sulla quale il pubblico si infiamma e dimostra il suo grande apprezzamemto con il solito fiume di fan che si lancia nell’immancabile crowd surfing. I Rhapsody Of Fire escono dunque a testa alta, fieri di aver ben rappresentato il metal tricolore in un contesto dove le band italiane hanno pochissimo spazio.
(Alessandro Corno)
SETLIST:
Triumph Or Agony
Holy Thunderforce
The Village of Dwarves
On The Way To Ainor
Dawn of Victory
Lamento Eroico
Unholy Warcry
March of the Swordmaster
Reign of Terror
Emerald Sword
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SODOM
L’ultimo anno è stato piuttosto intenso per i Sodom e il loro leader Tom Angelripper. Se da un lato la thrash metal band tedesca ha pubblicato un album convincente come “In War And Pieces”, dall’altro ha dovuto fare i conti con un cambio di batterista che andava così a incrinare la stabilità di una formazione fissa dal 1997. Reclutato Makka alle pelli, il gruppo forse più seminale del panorama thrash teutonico dimostra anche oggi di non risentire per nulla dell’assenza del vecchio Bobby. Sebbene debbano esibirsi in orario pomeridiano, con suoni non ottimali e con una sola triste inquadratura fissa dello show proiettata sui megaschermi, i Sodom picchiano estremamente duro, alternando brani nuovi come “In War A d Pieces” o “Feigned Death Throes ” ad autentiche immortali bordate che rispondono al nome di “The Voice Of Killing”, “Outbreak Of Evil” e “The Saw Is The Law”. Makka è, appunto, una macchina e la coppia Bernemann-Angelripper suona con un tiro che altre band magari più precise e meno grezze nemmeno si sognano. Ottima anche la performance vocale di Tom, un ragazzino a cinquant’anni. Il pubblico non può che apprezzare e lo si capisce dalla quantità di ragazzi che pogano e passano sopra le teste dei malcapitati nelle prime file. Il concerto cresce d’intensità man mano che verso il finale la band sfodera le classiche “Agent Orange”, “Blasphemer”,”Remember The Fallen” e la conclusiva devastante “Bombenhagel”. I Sodom ancora una volta non deludono e lasciano un segno indelebile anche sui giovani in attesa di e Trivium e Heaven Shall Burn.
(Alessandro Corno)
SETLIST:
In War and Pieces
The Voice of Killing
Outbreak of Evil
The Saw Is the Law
I Am the War
M-16
Feigned Death Throes
The Art of Killing Poetry
Agent Orange
Blasphemer
City Of God
Remember the Fallen
Stalinorgel / Knarrenheinz / Bombenhagel
TRIVIUM
I fan delle sonorità più moderne aspettano lo show dei Trivium dopo gli As I Lay Dying, per una accoglienza tutto sommato calorosa per una delle formazioni più odiate/invidiate/chiaccherate della scena. Chi scrive vi ricorda in ogni caso che Matt Heafy, frontman della band, ha oggi 25 anni, e per molti versi qualche motivo per menarsela ce l’avrebbe pure. Ovviamente resta composto ed educato, forse ancor più del solito nel nuovo taglio corto, e si dimostra deciso a provare il valore della sua creatura. Contrariamente alla filosofia di molti, e a nostro parere in una mossa molto furba vista l’enorme concentrazione mediatica, i Trivium danno molto spazio al nuovo album “In Waves”, non ancora nei negozi ma sbarcato in anticipo su internet: ad aprire lo show sono infatti la title track e l’intro dell’album, che saranno seguite da “Dusk Dismantled”, “Black” e “Built To Fall”. Si capisce istantaneamente come tutte le composizioni citate siano del tutto perfette per la dimensione live, e vadano a donare, nelle strutture semplici come nella ricerca del ritornello, quello scambio con il pubblico prima destinato esclusivamente a cavalli di battaglia come “Pull Harder…”. Il set diventa in questo modo più vario, assimilabile ed immediato, dando la possibilità a brani più complessi come “Down From The Sky” di essere seguiti ed apprezzati da tutti. In questo marasma di pezzi nuovi quasi non fa notizia il neo assunto Nick Augusto, autore di una prova senza sbavature dietro le pelli, che gli giustifica ampiamente il posto in formazione. Heafy rimane un frontman eccellente, soprattutto considerata l’età, e oggi sa prendersi carico di gran parte del cantato lasciando a Gregoletto e Beaulieu solo il giusto ruolo di comprimari. Ai tempi si diceva che i Trivium corressero troppo, facendo terre bruciata attorno a sè e attirando l’invidia di colleghi, ascoltatori e addetti ai lavori. Guardandoli oggi ci sembra tutto una montagna di fesserie…
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
Capsizing The Sea
In Waves
A Gunshot To The Head Of Trepidation
Dusk Dismantled
The Deceived
Black
Like Light To The Flies
Built To Fall
Pull Harder On The Strings Of Your Martyr
Down From The Sky
Throes Of Perdition
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HEAVEN SHALL BURN
Gli Heaven Shall Burn in Germania hanno ben pochi rivali in quanto a capacità di coivolgere le masse in moshpit e circle pit giganteschi. Solo due anni fa il gruppo aveva scatenato un delirio collettivo mai visto prima in quel di Wacken e oggi ci si attende più o meno la stessa cosa. Il frontman Marcus Bischoff lo sa e per questo durante la prima parte dello show con “Profane Believers” e “Voice Of The Voiceless” cerca di dare il via al pogo e ai circle pit ma la folla sembra non rispondere più di tanto al suo comando. La prestazione della band è di grande impatto, così come l’aspetto puramente scenico con fiammate, fumo e immagini a tema che scorrono sul megaschermo piazzato sul fondo dello stage. Non manca nulla dunque ma la vera reazione del pubblico, al di là di applausi, urla, qualche circle pit isolato su “Forlorn Skies” o il pogo su “The Omen”, tarda ad arrivare. Tarda, appunto, perchè quando il concerto sembra destinato a procedere senza troppi contusi, ecco che su “The Disease” si aprono enormi cerchi in mezzo alla platea e ha inizio il circle pit generale, che raggiunge poi livelli a dir poco impressionanti con “Behind A Wall Of Silence”. Avendo già partecipato con estrema soddisfazione alla cosa in occasione del Wacken 2009, non perdiamo l’occasione di salire sullo stand dell’American Spirit e guardare dall’altro la platea del festival prendere le sembianze di un campo di battaglia. Per non parlare poi delle decine e decine di ragazzi che fanno crowd surfing con la successiva “Return to Sanity”, penultimo atto prima di “Black Tears” di uno show che nel finale ha dato i suoi momenti più intensi e divertenti.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Profane Believers
Voice Of The Voiceless
The Omen
Forlorn Skies
Combat
Awoken
Endzeit
Counterweight
The Disease
Whatever It May Take
I Was I Am I Shall Be
Behind A Wall Of Silence
Return to Sanity
Black Tears
BULLET
Mentre gli Heaven Shall Burn mietono numerose vittime al Black Stage, grazie alle ripetute sciabolate che oltrepassano la soglia del metalcore più estremo e intransigente, chi scrive viene rapito nel più piccolo ma altrettanto affollato W.E.T Stage da cinque pirati delle autostrade svedesi guidati dal simpatico corpulento Hell Hofer. Il fragoroso e stradaiolo hard rock’n’roll dei Bullet esplode senza tanti orpelli, conquistando tutti coloro che conoscono a menadito la discografia degli AC/DC e di tutti i loro discepoli che da quarant’anni continuano incessantemente a tramandare il verbo del rock. I suoni sono ben bilanciati e sufficientemente potenti ad invogliare il pubblico sin dalle prime battute a scatenarsi in un sano headbanging sulle note delle devastanti “Highway Pirates” e “Turn It Up Loud” veri e propri anthem eseguiti con grinta e feeling, mentre spetta alla divertente “Bite The Bullet” concludere un breve ma intenso party che ci invoglia ad andare ad acquistare l’intera discografia della band. Rocciosi.
(Gennaro Dileo)
JUDAS PRIEST
A poco più di un mese di distanza dall’ottimo concerto al nostrano Gods Of Metal, i Judas Priest proseguono il loro itinerante “Epitaph Tour” conquistando il trono come headliner della seconda giornata. Affascinati dalla recente performance italiana, attendiamo con ansia le prime note di “Rapid Fire” per intuire se ci aspetta o meno una grande serata, ma immediatamente notiamo un’anomalia piuttosto evidente che si protrarrà per l’intera durata dello show: la posizione sul palco di Glenn Tipton. Posto quasi al fianco del perennemente defilato bassista Ian Hill, Glenn esegue il suo compitino senza infamia e senza lode, mantenendo incomprensibilmente un atteggiamento prevalentemente distaccato dal pubblico, lasciando così il proscenio al suo estroverso partner Richie Faulkner. Difatti, spetta al giovane chitarrista biondocrinito eseguire le parti più impegnative centrando l’obiettivo senza alcuna difficoltà, evidenziando inoltre un carisma notevole che gli permette di accattivarsi facilmente le simpatie dei presenti. Il buon Rob Halford oramai alla soglia dei suoi sessant’anni è autore di una performance complessiva più che dignitosa, sebbene venga aiutato dal microfono ultra effettato e da una buona dose di mestiere che gli permette di sgolarsi per oltre due ore senza subire clamorosi abbassamenti di tono. Il concerto assume i connotati di un best of che spazia per la quarantennale carriera della band, cosi ci ritroviamo con piacere ad ascoltare ancora una volta alcuni classici della storia dell’heavy metal britannico come l’oscuro progressive metal ante litteram infarcito di scream che paiono come fulmini a ciel sereno in “Victim Of Changes” e l’accattivante “Heading Out To The Highway” che flirta con le sonorità più catchy dell’hard rock. Impetuose scariche elettriche assumono le sembianze di “Nightcrawler” e “Painkiller”, – schegge estratte dall’omonimo album del 1990 che ha proiettato la band nella leggenda -, generando di conseguenza un furioso headbanging, mentre alcuni temerari si lanciano in un coreografico ed impegnativo stage diving. Tirando le somme, abbiamo assistito ad un’altra lezione di storia dell’heavy metal, forse meno brillante e coinvolgente della precedente, ma indubbiamente imperdibile per chiunque desideri comprenderne il significato.
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
Rapid Fire
Metal Gods
Heading Out to the Highway
Judas Rising
Starbreaker
Victim of Changes
Never Satisfied
Diamonds & Rust (Joan Baez cover)
Dawn of Creation
Prophecy
Night Crawler
Turbo Lover
Beyond the Realms of Death
The Sentinel
Blood Red Skies
The Green Manalishi (Fleetwood Mac cover)
Breaking the Law
Painkiller
The Hellion
Electric Eye
Hell Bent for Leather
You’ve Got Another Thing Comin’
Living After Midnight
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TRIPTYKON
Archiviata con amarezza la sua esperienza con i Celtic Frost, Thomas Gabriel Fischer (O Warrior se preferite) non si è dato per vinto ripartendo da zero con i Triptykon, che lo scorso anno hanno esordito sulla lunga distanza con “Eparistera Daimones”, proseguendo con una certa coerenza il discorso artistico iniziato con “Monotheist” e ottenendo un buon successo almeno da parte della critica. Oramai le tenebre hanno soffocato anche l’ultimo spiraglio di luce e su entrambi i lati del Black Stage vengono posizionati due grossi bracieri dai quali svettano le fiamme ardenti che disegnano un’atmosfera cupa e infernale. Scoccano le 23:15, la band si presenta puntualmente sul palco in tenuta ‘all black’ iniziando la cerimonia con la leggendaria “Procreation Of The Wicked”, ingrassata da suoni oltremodo pesanti e limacciosi che penetrano nei territori cari al doom più malsano, donando al pezzo un’atmosfera ferale. La stessa sorte tocca alle leggendarie “Babylon Fell” e “Circle Of The Tyrants”, autentici capisaldi del metal estremo, purtroppo qui soffocati in un viscoso pantano sonoro che annulla l’aura progressiva e i geniali stop’n’go insiti nel loro DNA originario. Se una discreta parte del pubblico rompe le fila per dedicarsi ad altro, i Nostri riescono comunque ad ipnotizzare i presenti sulle macabre note tessute in “Goetia”, “Synagoga Satanae” e “The Prolonging”, episodi che assumono i connotati di una lunga e straziante marcia verso l’inferno. Non per tutti.
(Gennaro Dileo)
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SKINDRED
Ci ricordiamo un paio di esibizioni degli Skindred al “fratellino minore” di Wacken, il Summer Breeze: palchi minuscoli, pubblico distratto e ridottissimo in pieno orario bratwurst. Pensavamo quindi che la Germania non avesse un amore particolare per la formazione inglese, artefice di un mix di reggae, dub, dancehall, rock e metal decisamente troppo elaborato e fuori dagli schemi per il pubblico italiano; la smentita arriva in primis dalla popolazione che affolla il WET stage, che va dalla frangia più “alternativa” di Wacken al vichingo barbuto con corno alla mano e giacchetto dal quale spunta il ventre gonfio di birra. In secondo luogo è meravigliosa la partecipazione di tutti, anche dei succitati trve metallers, nei contagiosi giochi di Benji Webbe, che non ci stancheremo mai di definire uno dei migliori frontman in circolazione per quanto riguarda il rapporto col pubblico. I pezzi fanno quasi da contorno alle trovate irresistibili del più giamaicano degli abitanti di Newport, Galles, che vanno dall’entrata, sulle note del tema della 20th Century Fox, a “Breathe” dei Prodigy introdotta e successivamente stravolta in un remix dubstep, alla citazione di “Sad But True” dei ‘tallica che fa da prologo a “Trouble”. L’esagitato frontman, con numeri tra l’animatore turistico e il cabarettista, lancia il pubblico metallaro in cori e mosse tipici delle esibizioni dancehall, scatenando risate ed euforia in un contesto molte volte troppo forzatamente serioso, arrivando anche ad obbligare i presenti a ballare (!) con le note movenze del robot (!!!), con conseguente ilarità generale. Gli Skindred si sono fatti di sicuro centinaia di nuovi sostenitori, chi li conosce invece ha goduto il doppio nel sentire il meglio del meglio della loro produzione. Infine chi scrive è contento, finalmente, di vedere riconosciuto il talento del gruppo al di fuori dei confini del Regno Unito.
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
Stand for Something
Rat Race
Trouble
Doom Riff
Set It Off
Breathe [Dubstep Remix Snippet]
Pressure
Destroy the Dancefloor
Nobody
Warning
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AIRBOURNE
Giunta alla sua terza partecipazione nelle ultime quattro edizioni del festival, la band australiana conferma con i fatti di essere la realtà più interessante dell’hard rock’n’roll suonato con energia, sudore e passione. Gli immancabili detrattori da sempre impegnati a puntare il dito contro i quattro canguri di Warnambool, colpevoli di essere l’ennesimo clone senz’anima degli AC/DC, vengono messi a tacere da un concerto letteralmente esplosivo e coinvolgente. Attivi dal 2003, i ragazzi hanno sfornato due ottimi studio album (a parere di chi scrive, “Runnin’Wild” è il disco che non sono mai riusciti ad incidere gli AC/DC dopo “Back In Black”) che hanno riscosso un buon successo di pubblico e critica, amplificato nel tempo da una serie impressionante di concerti in tutto il mondo, determinanti nel cementare una chimica enorme tra tutti e quattro i componenti. La bandiera del rock’n’roll svetta orgogliosamente su Wacken con “Raise The Flag” alla quale spetta di aprire le danze, resa ancora più adrenalinica da un impianto acustico di prima classe, mentre spetta alle accattivanti note di “Diamond In The Rough”, “No Way But The Hard Way ” e “Too Much, Too Young, Too Fast” coniugare le fragorose ritmiche con ritornelli immediati. La parte del leone la fa sicuramente il leader Joel O Keeffe, estremamente abile con la sua ugola ad intepretare tutti i brani senza subire alcun brusco calo di tono. Al tempo stesso dimostra di avere una riserva di energia inesauribile che gli permette di correre in continuazione da una parte all’altra del palco, esternando un carisma davvero invidiabile che magnetizza lo sguardo del pubblico in ogni sua impresa. Difatti durante l’esecuzione di “Blackjack”, Joel sistema la sua chitarra a tracolla e si arrampica con disinvolutura giungendo sul tetto dello stage, mettendo a repentaglio la propria vita. Una volta giunto su un pianerottolo posto al di sopra alle luci, lo spericolato frontman si prodiga in un assolo che mozza il fiato, mentre i suoi comprimari non perdono nemmeno una battuta nelle frenetiche ritmiche che si protraggono come una tempesta incessante fino alla chiusura dello show affidata a “Runnin’Wild”, autentico pezzo da novanta che sigilla una prestazione da tramandare ai posteri. Esaltanti.
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
Raise The Flag
Born To Kill
Diamond In The Rough
Blonde, Bad And Beautiful
Chewin’ The Fat
Blackjack
Bottom Of The Well
Cheap Wine & Cheaper Women
Girls In Black
No Way But The Hard Way
Too Much, Too Young, Too Fast
Stand Up for Rock ‘N’ Roll
Runnin’ Wild
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Sabato 6 agosto 2011
CRASHDIET
I Crashdiet nell’arco di cinque anni hanno inciso tre studio album con altrettanti cantanti: il buon esordio “Rest in Sleaze” con Dave Lepard, morto suicida pochi mesi dopo, il seguente “The Unattractive Revolution” con H. Olliver Twisted, successivamente confluito nei Reckless Love, ed il recente “Generation Wild” con Simon Cruz. Forti di una fan base che aumenta giorno dopo giorno, i Nostri si presentano on stage con il consueto look fatto di capelli cotonati, make up e jeans aderenti, dandoci il benvenuto con la ruvida “Breakin’The Chainz”, ma dopo qualche minuto appuntiamo che qualcosa non va. La band svedese fatica a mantenere un buon livello di adrenalina, nonostante la ricetta sia composta da riff immediati e ritornelli ammiccanti, ma latita la verve che dovrebbe far scattare la scintilla per mandarci fuori di testa. Il mid tempo “So Alive” suona fiacco, spompato e irriverente nella sua ingenuità, mentre l’hard rock sporcato dal vago retrogusto blues di “Native Nature” ci presenta una copia neanche tanto riuscita degli Warrant (quelli americani). Le plastificate movenze del four piece appaiono studiate nei minimi dettagli, cozzando paradossalmente contro le tematiche intransigenti di “Riot in Everyone” e non basta una vincente anthem song come “Generation Wild” a risollevare le sorti di un gig formalmente perfetto, ma noioso nella sostanza. Attualmente, c’è di meglio in giro, è sufficiente aguzzare la vista ed aprire bene le orecchie.
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
Breakin’ the Chainz
Down With the Dust
So Alive
Riot in Everyone
Native Nature
In the Raw
Rebel
Encore:
Armageddon
Generation Wild
DIR EN GREY
Diventati famosi come alfieri del movimento Visual Kei, i Dir En Grey hanno fatto molto parlare di sè nei loro stravolgimenti artistici e musicali, andando a toccare svariati generi e tendenze. La formazione che ci troviamo davanti sul palco di Wacken sembra essere figlia del movimento dark, sia per estetica che per l’atteggiamento, sostanzialmente immobile, dell’intera formazione. La barriera linguistica non aiuta i giapponesi nel rendere comprensibile una performance criptica all’eccesso, dove i pezzi vengono dilatati, riletti, stravolti in chiave di una esibizione artistica indecifrabile, più spesso catatonica che schizofrenica. Certo Kyo è un frontman eccellente e sul palco sembra dare l’anima, ma, a parte qualche gruppo di asiatici e qualche fan accanito, solo i tedeschi bruciati da sole ed alcool riescono a sbattere la testa, anche se di sicuro non riescono a leggere gli input sonori di una poesia e un’astrattismo che ci viene il dubbio esser solo di facciata. Chi scrive davanti a tanta sfacciata pretenziosità non può che crollare sulla terra arsa dal sole, accendersi una American Spirit e sorseggiarsi una birra nel bicchiere marchiato Wacken.
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
Tsumi To Batsu
Lotus
Red Soil
Hageisha To, Kono Mune No Naka De Karamitsuita Shakunetsu No Yami
Obscure
DIfferent Sense
COnceived Sorrow
Dozing Green
Bugaboo
Reiketsu Nariseba
Merciless Cult
Agitated Screams of Maggots
Rasetsukoku
SKELETONWITCH
Siamo abituati ad assistere ad un live set degli Skeletonwitch in circostanze più sfortunate (leggasi qualsiasi pisciatoio con palco minuscolo e impianto indegno in qualche angolo del globo), vederli quindi nel contesto del WET Stage, con suoni impeccabili e potentissimi, amplifica a dismisura l’impatto dei thrashers: band e pubblico si galvanizzano a vicenda e il risultato è una prova che ridefinisce il concetto di “sintesi” e “incendiaria”. Pochi fronzoli visto che i minuti sono contati, giusto il tempo di alzare un paio di birre a ringraziamento del pubblico (“Siamo solo campagnoli a cui piace il metal, abbiamo passato l’adolescenza a prendere a calci la Strega Di Blair, è un onore per noi suonare davanti a questo pubblico!”) e il blackened death/thrash metal esalta un pit lercio e completamente soggiogato alla volontà del gruppo. Uno scambio equo di energie dunque, che alimenta lo show per la sua totale interezza, nella quale vengono eseguiti con foga ed headbang sfrenato gli estratti migliori dai capitoli discografici della band. Rimane deluso solo chi aspettava succose anteprime dall’imminente “Forever Abomination”, ma per quello ci sarà tempo. “Beyond The Permafrost”, “Repulsive Salvation”, “Bringers Of Death”, “Breathing The Fire” e le altre sono sufficienti a sancire una delle migliori performance della giornata, se non di tutta l’edizione di Wacken 2011.
(Maurizio Borghi)
ICED EARTH
Il logo della band posto a fondo palco e la bandana con bandiera sudista indossata da Jon Schsffer sono gli unici elementi coreografici di uno show che rimarrà nella storia degli Iced Earth. Oggi infatti è l’ultima volta che salirà sul palco con la band il cantante Matt Barlow, eccezionale vocalist che dopo un rientro durato un solo album, si appresta a lasciare di nuovo la squadra per dedicarsi alla sua famiglia. Il suo successore è già stato nominato e si tratterà del talentuoso Stu Block degli Into Eternity ma bastano le iniziali “Burning Times” e “Declaration Day” per ricordare a tutti quanto dovrà impegnarsi il nuovo ragazzo per non far sentire la mancanza di un singer come Matt, dotato di una timbrica particolare e di un’estensione fuori dal comune. La precisione chirurgica della sezione ritmica e del riffing della coppia di chitarre, unite a mazzate sul collo che rispondono al nome di “Vengeance Is Mine” e “Violate” completano il quadro di una performance come al solito di altissimo livello. Il pubblico applaude, poga e partecipa ma non c’è il delirio visto in questi giorni in altri show. Il concerto prosegue sulle note di “Last December” e del lento “I Died For You”, prima di un rientro su territori power-thrash con “Jack” e “The Hunter”. La lunga trilogia finale del masterpiece “Something Wicked This Way Comes” ci porta al momento del saluto definitivo per Matt. Al termine di “The Coming Curse” Jon Schaffer prende il microfono, ringrazia il cantante per i quindici anni passati assieme e incita la folla a urlare il suo nome. Matt non nasconde un po’ di commozione e ringrazia la band, la crew e soprattutto il pubblico, prima di assestare il colpo definitivo con la conclusiva Iced Earth. Si chiude così, almeno per ora, un altro capitolo della storia di questa band che ora dovrà dimostrare di essere in grado di rinascere con l’ennesimo importante cambio di formazione.
(Alessandro Corno)
SETLIST:
1776′ (Intro)
Burning Times
Declaration Day
Vengeance Is Mine
Violate
Last December
I Died For You
Jack
The Hunter
Prophecy
Birth Of The Wicked
The Coming Curse
Iced Earth
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SEPULTURA
Mentre la stampa e i fan sparsi in tutto il globo dibattono sulla scottante questione se sia opportuno o meno mantenere in vita i Sepultura senza i fratelli Cavalera a bordo, la band carioca se ne infischia delle persistenti polemiche da più di due lustri realizzando dischi più o meno riusciti. Lo show è incentrato prevalentemente sui vecchi cavalli di battaglia, difatti l’accoppiata iniziale formata da “Arise” e “Refuse/Resist” riscalda a dovere gli animi dei presenti, generando un discreto moshpit. Derrick Green è in splendida forma atletica, nonostante non sia il frontman più carismatico della storia, ma la sua interpretazione non lascia affatto a desiderare. Le urticanti “Troops Of Doom” e “Inner Self” mettono a dura prova le capacità del batterista Jean Dolabella, abile comunnque a non far rimpiangere il funambolico drumming del suo illustre predecessore riappacificatosi da qualche anno con il fratello Max. Dal recente “Kairos” vengono eseguite la title track e “Relentless”, episodi che evidenziano una discreta vena compositiva ritrovata da qualche anno. Il groove assassino della cover dei Ministry “Just One Fix” non lascia scampo, mentre spetta al duo “Ratamahatta” e all’anthemica “Roots Bloody Roots” chiudere uno show che testimonia il buon stato di forma attuale della band.
(Gennaro Dileo)
SETLIST:
Intro
Arise
Refuse/Resist
Kairos
Just One Fix
Convicted in Life
Choke
What I Do!
Relentless
Troops of Doom
Territory
Inner Self
Ratamahatta
Roots Bloody Roots
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AVANTASIA
Sono le otto di sera e di fronte al True Metal Stage una folla infinita di fan riempie la platea. L’attesa per lo show degli headliner Avantasia è infatti notevole ed è piuttosto comprensibile, visto lo strabiliante secondo posto in classifica tedesca raggiunto dagli ultimi album “The Wicked Symphony” e “Angel Of Babylon”. Ma non è solo questo a spingere decine di migliaia di persone verso il palco. Il mastermind Tobias Sammet è infatti riuscito in un’impresa titanica quanto sognata da ogni amante del power metal di questo mondo: portare dal vivo e al più grande festival metal il mai dimenticato ex cantante degli Helloween, Michael Kiske. Dopo la serie di show invernali, in cui Kiske era già presente, la voce che aveva reso così insuperabili i due “Keeper Of The Seven Keys” si appresta a dimostrare a tutti i presenti il suo immutato smalto. Quasi un contorno dunque, se non altro perchè proposte in maniera molto simili al tour del 2008, le sempre belle “Twisted Mind”, “The Scarecrow” e “Promised Land” con Jorn Lande alla voce o “The Story Ain’t Over” con al microfono un un’istituzione come il magistrale Bob Catley. L’attesa finisce con “Reach Out For The Light” sulla quale Kiske entra in scena con giubbetto in pelle, testa rasata, passo lento e atteggiamento inizialmente un po’ distaccato. La sua voce però non tradisce le attese e il suo duetto con Tobias vede il singer degli Edguy perdere su tutta la linea e osservare il suo “maestro” con sguardo incredulo. L’ex Helloween brilla ancora per potenza e precisione anche sulle tonalità più alte. A fine pezzo è un tripudio di applausi anche da parte di chi segue lo show più distrattamente. Kiske resta sul palco anche per il singolo “Dying For An Angel”, mentre lascia il posto all’altro ex compagno di squadra negli Helloween che furono nonchè suo attuale chitarrista degli Unisound, Kai Hansen, per una fantastica “Death Is Just A Feeling”. Il frontman dei Gamma Ray armato di bastone e cilindro nero riesce infatti nel difficile compito di reinterpretare a modo suo le parti che su disco sono cantate da Jon Oliva, lasciandone immutate le affascinanti atmosfere alla Tim Burton. Seguono “Lost In Space”, che Tobias introduce ironizzando come al solito sulle accuse a lui mosse di aver creato una “pop song”, e il lentone “Farewell” con Amanda Somerville al secondo microfono. La band, composta da membri di alto livello quali sono il bassista Robert Hunecke Rizzo, il chitarrista e cantante Oliver Hartmann, il tastierista Miro Rodenberg, il batterista degli Edguy, Felix Bohnke e il chitarrista e celebre produttore Sascha Paeth è autrice di un’ottima prova, sebbene stranamente sia proprio Sascha Paeth a cadere in qualche imprecisione di troppo. Bocciatura invece per la regia e le relative immagini live che vengono proiettate sui quattro grandi megaschermi, visto che spesso insiste nell’inquadre Tobias, anche quando stanno cantando altri ospiti. Un dettaglio ad ogni modo largamente messo in secondo piano dalla musica stessa e dall’emozione dei presenti e dello stesso Tobias nel vedere Kai Hansen alla chitarra fianco a fianco con Michael Kiske sul power metal classicissimo di “Shelter From The Rain” e “Avantasia”. Chiude lo spettacolo il medley tra “Sign Of The Cross” e il coro finale di “The Seven Angels” con tutti gli ospiti sul palco assieme. Un grande inchino conclusivo con foto di gruppo da parte dei musicisti spalle al pubblicoe uno scroscio di applausi, chiudono un concerto che, sebbene in certe parti abbia riproposto quasi pari pari quanto visto nel tour di “The Scarecrow”, ha saputo regalare grandi emozioni ai numerosi fan del metal più melodico.
(Alessandro Corno)
SETLIST:
Twisted Mind
The Scarecrow
Promised Land
The Story Ain’t Over
Prelude
Reach Out for the Light
Dying for an Angel
Death Is Just a Feeling
Lost in Space
Farewell
The Wicked Symphony
Shelter From the Rain
Avantasia
Sign of the Cross / The Seven Angels
DANKO JONES
Dispiace fare appunti all’organizzazione del festival, quasi sempre impeccabile, ma la soluzione del Party Stage non si è rivelata sempre ottimale, per via delle interferenze sonore con i palchi principali, neppure ora che il palco è stato riposizionato più lontano rispetto agli anni passati. Danko Jones fa buon viso a cattivo gioco e durante la pausa tra un pezzo e l’altro all’inizio del set saluta Mille e i Kreator, che nel frattempo furoreggiano sul black stage, e racconta al pubblico che nel 1993 andò a vederli in concerto a Toronto durante un tour con i Morbid Angel. Il canadese è senz’altro uno dei nomi più rock e meno metal dell’intero cartellone del festival, e furbamente cerca forse di imbonirsi la parte più metallara nel pubblico. Chi lo ha già visto in azione dal vivo e ha familiarità con la sua musica, sa che i suoi concerti sono principalmente basati sull’energia e sull’impatto delle proprie canzoni. Questa esibizione di Danko Jones a Wacken (la seconda dopo l’apparizione del 2006) purtroppo non rende giustizia alla reputazione live del trio. Non che il concerto sia spompato o scarso, ma comunque non esplosivo come il canadese ci ha abituato in altri festival o quando di passaggio in tour in Italia. Il trio ha recentemente cambiato batterista e Danko ci comunica che quello di Wacken è il decimo concerto con il nuovo batterista Atom Willard, che comunque appare già integrato nella band. Un’esibizione piacevole, che finisce come di consueto con il brano ‘Mountain’ in cui Danko ricorda i “caduti” del rock, ma sappiamo che da lui ci si può aspettare molto di più.
(Igor Belotti)
SETLIST:
The Rules
Play The Blues
Active Volcanoes
Forget My Name
First Date
I Think Bad Thoughts
Full Of Regret
Sugar Chocolate
Sugar High
Invisible
Lovercall
Had Enough
Cadillac
Mountain
KREATOR
Tra gli ultimi show di questo Wacken Open Air, quello dei Kreator è anche uno dei più attesi in assoluto dell’intero festival. Quando la band di Mille Petrozza gioca in casa, è sempre un gran concerto e anche questa sera le attese vengono confermate. Tutto è ottimamente curato: a partire dalla scenografia con enorme megaschermo montato sul fondo del palco, passando per un impianto luci sfruttato al meglio per dare la giusta atmosfera ai pezzi, fino ad una prestazione travolgente del gruppo. Le iniziali “Hordes Of Chaos” e “Warcurse”, contornate da un palco illuminato di rosso, sono due mazzate nei denti che colpiscono le migliaia di fan già in delirio. Mille, si distingue come sempre, ricordando che il Wacken Open Air è un festival internazionale con fan di tutte le nazioni e dunque accantona il tedesco e in inglese chiede e ottiene un furioso moshpit per “Endless Pain”. Segue “Pleasure To Kill” che segna uno dei momenti di maggior partecipazione dell’intero show, prima di un leggero calo con le successive e senza meno coinvolgenti “Destroy What Destroys You” e “Voices Of The Damned”. Si torna a correre con “Enemy Of God”, mentre “Phobia” travolge con il suo riff dal groove micidiale, valorizzato da dei suoni impressionantemente potenti. La prestazione è come d’abitudine ottima e solo Mille dopo metà concerto inizia a mostrare qualche segno di cedimento, abbassando qualche parte vocale ma senza ad ogni modo compromettere la resa dello show. Così dopo “Reconquering The Throne” e “Violent Revolution”, ecco i grandi classici a tutta velocità “Betrayer”, “Flag Of Hate” e la conclusiva devastante “Tormentor” che tra fiammate e colonne di fumo chiude un concerto che resterà tra i top di questa edizione del Wacken.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Intro (Choir of the Damned)
Hordes of Chaos (A Necrologue for the Elite)
Warcurse
Endless Pain
Pleasure to Kill
Destroy What Destroys You
Voices of the Dead
Enemy of God
Phobia
Reconquering the Throne
The Patriarch
Violent Revolution
Betrayer
Flag of Hate
Tormentor
MOTORHEAD
Il binomio Motorhead-Wacken è ormai talmente consolidato che forse solo i Saxon (il loro manager Tomas Jensen è uno degli organizzatori del festival) possono rivaleggiare con il gruppo di Lemmy come band che più spesso si esibisce al festival tedesco, praticamente ad anni alterni. La loro presenza a Wacken è quindi un appuntamento fisso, e anche il bomber, la struttura a forma di bombardiere che sorregge le luci del palco utilizzato nei tour degli anni d’oro dei primi anni ‘80, è diventata quasi una consuetudine dell’evento, dopo essere stato rispolverato per l’edizione del 2001. Se avete già visto la band in azione (e visto che il gruppo vive praticamente in tour, le occasioni non mancano certo) sapete quindi già cosa aspettarvi da un concerto dei Motorhead. L’odierna formazione a tre con Phil Campbell e Mikkey Dee si è rivelata a posteriori la più longeva di sempre, con i suoi ormai 15 anni di attività, con buona pace di chi rivorrebbe nella band ‘Fast’ Eddie Clark e ‘Philty Animal’ Taylor. Una cosa è certa, con un batterista come Mikkey Dee, il livello di energia delle perfomance della band è garantito, fin dall’apertura di ‘Iron First’, una delle opener più brutali del repertorio del gruppo. Classici nuovi e vecchi della band si alternano, tra cui non mancano estratti dagli album più recenti come ‘Kiss of Death’, ‘Motorizer’ e ovviamente dall’ultimo ‘The World is Yours’, conditi tra un pezzo e l’altro dal solito cinismo di Lemmy e dall’atteggiamento strafottente di Phil Campbell. Nonostante Lemmy sia ormai consacrato ad icona immortale del rock (vedi il recente documentario a lui dedicato), l’età avanzata è comunque un dato di fatto ed il vecchio rocker è ormai una presenza praticamente immobile sul palco, una mancanza che però non sembra privare l’esibizione di un senso di fisicità che sembra riversarsi nella brutalità del suono iper-distorto del gruppo. Quando arriva la canzone omonima, il bomber fa finalmente il suo ingresso dall’alto e l’effetto scenico è notevole, giocando anche su un sicuro effetto nostalgia. Purtroppo, durante la parte finale dell’esibizione del gruppo, una fastidiosissima pioggia disturba il pubblico che si infittisce proprio durate gli attesi bis del gruppo, ‘Overkill’ e l’immortale ‘Ace of Spades’, impendendo di goderseli appieno.
(Igor Belotti)
Setlist
Iron Fist
Stay Clean
Get Back In Line
Metropolis
Over the Top
Rock Out
One Night Stand
The Thousand Names of God
I Know How to Die
The Chase Is Better Than the Catch
In the Name of Tragedy
Just ‘Cos You Got the Power
Going to Brazil
Killed by Death
Bomber
Encore:
Ace of Spades
Overkill
CHILDREN OF BODOM
Sabato. Si è da poco concluso lo show dei Motorhead, irriducibili mattatori e icone di genere, per molti i veri headliner della serata. La stanchezza della tre giorni cominica a farsi sentire, assieme a un’aria pungente che fa presagire poco simpatiche precipitazioni. Prima del discorso degli organizzatori, che abitualmente salutano la popolazione del festival, è turno dei giganti del metal finlandese, i Children Of Bodom. Sostenuti da un pubblico presente in massa, anche sotto scrosci e secchiate di pioggia che hanno abbassato notevolmente la temperatura, i Bodom non riescono a dare più della sufficienza, forse troppo stanchi per il tour intensivo a supporto di “Relentless Reckless Forever”. E’ sicuramente un male visto il trattamento offertogli, con un palco decisamente impressionante, fornito di un impianto luci ragguardevole, rampe, fiamme e fuochi d’artificio, quasi fossero i Four Horsemen. A rincarare la dose qualche problema tecnico a inizio spettacolo, che di sicuro non ha aiutato l’umore di una formazione che sicuramente sa dare di più. Anche la setlist sembra sbiadita e in contrasto con uno show ultra-pompato: il susseguirsi dei brani è identico a quello delle recente date continentali, senza sorpresa alcuna per i fedelissimi della Hate Crew presenti a supportare i loro beniamini. Com’è noto però il pubblico tedesco ha aspettative ben più basse di quello italiano, e rimane fino alla fine e oltre, infiammato dall’orgoglio metallaro che pervade l’intera manifestazione, sostenendo il gruppo sul palco in ogni maniera e condizione climatica. Chi scrive, purtroppo, da pesi massimi come i Children Of Bodom pretende molto di più, soprattutto in queste occasioni, anche perchè a questo punto sarà per loro improbabile che la situazione si ripeta.
(Maurizio Borghi)
SETLIST:
Not My Funeral
Bodom Beach Terror
Shovel Knockout
Roundtrip to Hell and Back
In Your Face
Living Dead Beat
Children Of Bodom
Hate Me!
Blooddrunk
Angels Don’t Kill
Follow the Reaper
Downfall
Encore:
Are You Dead Yet?
Hate Crew Deathroll
Altre Foto
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