Report a cura di Alessandro Corno, Dario Cattaneo e Lorenzo Ottolenghi
Foto a cura di Bianca Saviane e Wacken Open Air
‘Rain or shine’ è forse il motto più conosciuto del Wacken Open Air. Il clima nel nord della Germania, ad inizio agosto, può essere parecchio fastidioso: pioggia scrosciante e continua, brusco abbassamento della temperatura durante la notte e vento; oppure, quando va bene, è come le migliori giornate di inizio estate da noi. Quest’anno è andata male, succede e non è colpa di nessuno, anzi…fa un po’ parte del gioco. Ma quando si deve gestire un numero di persone che si aggira intorno alle centomila (la popolazione di Varese, Lecce o Arezzo, per intenderci) e si ha un’esperienza pluriventennale, si dovrebbe saper mitigare in qualche modo i disagi relativi al clima. E questo è stato il primo grosso problema. Il secondo è stato l’impianto sonoro: se si organizzano concerti a cui assisteranno tra le quarantamila e le settantamila persone, lo show deve essere udibile da tutti (dato che tutti hanno pagato un biglietto) e l’area concerti deve poter accogliere tutti (per lo stesso motivo); se più di metà della gente che viene per vedere una band non riesce a sentire niente e se un numero importante di persone non può neanche accedere all’area concerti perché è piena, è sintomo che qualcosa non va. Ma andiamo con ordine: il festival si svolge in un terreno che, dopo tutti questi anni, è martoriato; in una zona così piovosa, semplicemente, la terra non riesce più ad assorbire l’acqua, ed in un anno l’erba non fa neanche in tempo a ricrescere. Questo porta al famigerato fango: fango in cui si affonda fino a ben oltre la caviglia (chi scrive è alto quasi due metri), fango che copre gradini e sassi, fango che – davanti ai bagni (a pagamento) – dà l’impressione di non essere formato solo da terra e acqua. Ma chissenefrega: è un festival metal, no? Piove per giorni, non è una novità. Ma non c’è una tettoia, un tendone, un qualunque posto dove potersi riparare dalla pioggia. Non c’è nell’intera area del festival, non c’è dove si attendono le navette che fanno la spola da e per il festival, non c’è nei punti ristoro. Nulla. Ma, alla fine, un po’ di pioggia non ha mai ucciso nessuno, giusto? Il sottoscritto è arrivato ad Amburgo mercoledì in tarda mattinata e, come molti, ha deciso di prendere un taxi: essendo un gruppo abbastanza nutrito, il costo diventa più conveniente delle navette o del treno. Il viaggio è normale fino a qualche chilometro da Itzehoe, il paese più grande prima di Wacken, poi una coda interminabile. Succede. Tramite l’app per smartphone ed il sito, l’organizzazione del festival comincia a mandare strani messaggi, invitando chi non è ancora in viaggio di partire il giorno dopo (e gli Europe che suonano mercoledì sera?); dopo un’ora o due di coda si arriva ad un bivio: a sinistra macchine, van e camper che devono accedere all’area campeggio, a destra autobus e taxi che devono semplicemente ‘scaricare’ le persone davanti agli ingressi pedonali; per qualche motivo, però, i taxi vengono mandati a sinistra. L’organizzazione informa che, viste le condizioni climatiche, gli ingressi per la giornata di mercoledì sono stati chiusi, che sono state organizzate delle aree in alcuni parcheggi per passare la notte e che queste aree sono gratuite (ci mancherebbe!); si invitano le persone ad aiutarsi vicendevolmente, dato che si è tutti metallari. Alcune macchine resteranno bloccate in coda per tutta la notte, altre creeranno code ancora più lunghe ed immobili facendo inversione e recandosi verso questi fantomatici parcheggi. Siamo giunti al festival giovedì pomeriggio, dopo aver atteso più di un’ora la navetta alla stazione di Itzehoe, sotto la pioggia e (ovviamente) senza neanche una tettoia. Abbiamo già parlato del fango all’interno dell’area festival e possiamo dire che chi si presenta ad un evento del genere munito solo di sneakers (o di mega-anfibi alla Dimmu Borgir che faranno tanta scena ma che, tra borchie, punte, fibbie e materiali scadenti, di anfibio non hanno proprio nulla) è quantomeno ingenuo. Per contro, vendere degli stivali di gomma che dureranno (a stento) il tempo del festival a quaranta euro, significa lucrare su un disagio che si è contribuito a creare. Il sonoro: con più di vent’anni di concerti e festival di esperienza, una persona può districarsi tra fango, laghetti di melma, ubriachi che si tuffano nei suddetti laghetti e gente che espleta i suoi bisogni dove si trova (forse anche perché è rimasta intrappolata nel fango); con ‘malizia’ ci si può muovere ed arrivare abbastanza ‘davanti’ da poter sentire (se non vedere) un concerto. Ma non tutti hanno la capacità (o la voglia) di imbarcarsi nell’impresa. E così alcuni main-event del festival (Sabaton, Amorphis, Running Wild) risultano fruibili in modo accettabile da meno della metà dei presenti; è inaccttabile che ottantamila persone paghino un biglietto e l’impianto sonoro sia tarato su 20-30000 persone. Chi scrive ama ed ha amato Wacken più di ogni altro festival, tutti gli altri grandi open-air esistono grazie all’esperienza ed alla devozione di Thomas Jensen e Holger Hübner, ed ancora oggi l’atmosfera che si respira al Wacken Open Air è unica. I costi di un evento del genere sono stratosferici e quindi possono essere anche comprensibili certi prezzi (dei biglietti o del cibo), ma – forse – è arrivato il momento che Thomas e Holger decidano se vogliono continuare a crescere, ritornando ad essere la ‘guida’ per questo genere di eventi, oppure ‘tenere botta’ finché dura. Per come è oggi il W:O:A, il consiglio che il sottoscritto sente di darvi è il seguente: andateci perché, come alla Mecca, bisogna compiere il pellegrinaggio almeno una volta nella vita, e poi risparmiate un bel po’ di soldi dedicandovi ad altri eventi che, se anche hanno a cuore più il vostro portafogli che la vostra passione, almeno si preoccupano ancora di cercare di farvi credere che non sia così.
(Lorenzo “Satana” Ottolenghi)
L’edizione 2015 del Wacken Open Air verrà probabilmente ricordata come la peggiore in termini di condizioni atmosferiche e conseguenze che queste hanno lasciato sul campo. Come è noto, il festival metal considerato più importante al mondo è conosciuto per essere una impeccabile macchina organizzativa che raduna ogni anno 75.000 fan da tutto il mondo. Tra i punti forti di un festival che dopo un ventennio di espansione ora sembra aver raggiunto una dimensione stabile, oltre ai mastodontici impianti dei palchi, c’è sicuramente la parte relativa ai servizi e all’accoglienza. Docce calde, numerosi stand gastronomici, un’offerta incredibile in quanto a merchandising, CD e oggettistica varia e aree allestite nei più disparati modi (campi da calcio, campi di battaglia, una zona in stile medievale-vichingo e un’altra dal sapore post-apocalittico), che creano un contorno unico che per molti costituisce il vero valore aggiunto dell’evento. Si aggiunga anche la bellissima atmosfera che si respira nei grandi campeggi, con quella voglia di divertirsi e far casino nei più disparati modi che si avverte sempre. Abbiamo scritto ‘sempre’, ma nel 2015, come precisato a inizio articolo, la situazione non è stata esattamente idilliaca, sopratutto nei campeggi. Molti di questi aspetti elencati sono infatti stati rovinati da una settimana di piogge torrenziali che hanno reso il suolo di Wacken qualcosa di molto simile a una sorta di palude melmosa che in diversi punti ha intrappolato auto, tende, scarpe e quant’altro ci passasse sopra. I comunicati diffusi a ridosso dell’evento parlavano chiaramente di condizioni molto difficili, di strade impraticabili, di freddo, acqua e invitavano i fan ad attrezzarsi di conseguenza. Una volta arriviati sul posto con il bus organizzato da noi di Metalitalia.com in collaborazione con ATG Viaggi, abbiamo anche visto delle pompe aspirare enormi pozze d’acqua, mezzi pesanti spostare attrezzaure, chiudere e poi riaprire passaggi, ecc.. Questo evidentemente non è bastato, viste le interminabili code che si sono create agli ingressi o il numero di interventi per togliere dal fango auto impantanate o soccorrere gente a un passo dall’ipotermia. E su questi aspetti, chi si è lamentato per le condizioni dovrebbe fare una riflessione, dal momento che abbiamo visto un sacco di gente aggirarsi per l’evento in scarpe da tennis prontamente poi sostituite con stivali di gomma comprati sul posto, oppure con mantelline ridicole che si strappavano dopo poche ore, oppure ancora in maglietta e pantaloncini a dieci gradi scarsi, esattamente come se il festival fosse situato sulla Riviera romagnola. E’ stata quindi colpa del tempo, dell’organizzazione o di chi si è presentato sul posto come se fosse ad una gita scolastica? Forse gli addetti potevano fare qualcosa in più, come sempre in questi casi, ma di sicuro possiamo anche affermare che Wacken è a un centinaio di chilometri dal Mare del Nord e questo dovrebbe bastare per far capire ai fan che non è terra per tutti, ma solo per chi accetta condizioni che possono anche essere estreme e sa regolarsi di conseguenza. Nella speranza che un giorno il Wacken la smetta di essere una sorta di luna park al quale tutti vogliono andare anche solo per curiosità e torni ad essere frequentato da chi veramente ne sa vivere lo spirito e il clima, vi lasciamo al racconto dei concerti ai quali abbiamo potuto assistere e che in gran parte ci hanno regalato momenti indimenticabili, punteggiati però, come potrete leggere, da alcune pecche a livello sonoro piuttosto insolite per il Wacken Open Air.
(Alessandro Corno)
Wacken Open Air 2016 trailer con immagini registrate durante il Wacken open Air 2015:
GIOVEDI’ 30/07
U.D.O. con Bundeswehr Musikkorps – True Metal Stage, 16:00 – 17:30
Udo Dirkschneider, l’ex cantante storico degli Accept, è praticamente di casa al Wacken Open Air e noi stessi, che abbiamo assistito a numerose edizioni del festival, abbiamo praticamente perso il conto delle volte che lo abbiamo visto in questa sede. Quello di oggi è però un evento diverso dal solito, dal momento che il carismatico frontman ha portato con se i Bundeswehr Musikkorps, un’orchestra militare di sessanta elementi che, al pari di Udo abbigliata con mimetica, accompagnerà tutta la performance. Dopo la colonna sonora di Guerre Stellari e quella del film Das Boot, eseguite dalla sola orchestra, “Animal House” ha il compito di aprire la strada a una prestazione che come vedremo avrà luci ed ombre. Se infatti l’impatto scenico dell’orchestra ha il suo effetto e la band con il nuovo batterista Sven Dirkschneider (il figlio di Udo) suoni al meglio, non si può certo dire che i pezzi siano particolarmente consoni a un simile riadattamento orchestrale. Un po’ come accaduto lo scorso anno proprio qui a Wacken con i Saxon, l’effetto finale che lasciano brani come i granitici mid tempo “Independence Day”, “Man And Machine” o “Cut Me Out” è un ammorbidimento generale del sound che poco giova all’economia dello show e nulla o poco aggiunge alla qualità degli stessi pezzi. Avendo, come scritto, visto gli U.D.O. più e più volte, si ha l’impressione che questa ‘trasformazione orchestrale’ sia un po’ fuori luogo e renda solo in quei pochi frangenti, ad esempio in “Trainride In Russia”, in cui il pezzo è effettivamente incline all’aggiunta di parti sinfoniche. Va un po’ meglio con la coppia finale di grandi classici marchiati Accept che rispondono al nome di “Metal Heart” e “Princess of the Dawn”, sui quali i fan non fanno mancare il loro grande supporto. Nota positiva, infine, la prestazione vocale di un Udo che nonostante i sessantaquattro e rotti anni sulla carta d’identità arriva a fine show senza mai risparmiarsi e dimostra una tenacia che ben pochi colleghi, anche più giovani, possono vantare.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Star Wars Theme
Das Boot
Animal House
Future Land
Independence Day
Heart of Gold
Man and Machine
Faceless World
Book of Faith
Cut Me Out
Stillness of Time
Trainride in Russia (Poezd Po Rossii)
King of Mean
Metal Heart
Princess of the Dawn
DARK TRANQUILLITY – Headbangers Stage, 19:40 – 20:45
Dopo aver apprezzato presso il tendone dei palchi gemelli W:E:T e Headbangers il metal groovy degli inglesi Metaprism, affascinati dalla conturbante presenza della bella Theresa Smith, e dopo avere anche scapocciato un po’ al ritmo della tribal death band sudamericana Arana, possiamo goderci lo show dei ben più famosi Dark Tranquillity, pronti ad esibirsi per circa un’ora e un quarto sul palco di destra. La scaletta proposta da Stanne e compagni è quella collaudata che proposero anche all’Arena di Romagnano il 13 novembre dello scorso anno, ovviamente potata di un paio di canzoni per questioni di tempo. I cinque musicisti, orfani per motivi sconosciuti del fondatore Niklas Sundin, si muovono anche stavolta sul velluto grazie a brani provati live centinaia di volte, e sul piccolo palco a loro disposizione giocano veramente in casa: l’affluenza è la migliore possibile e il tendone è pieno fino alle uscite posteriori di acclamanti fan lungocriniti. Il suono è ottimo, la partecipazione pazzesca e la prestazione in linea con la qualità altissima da sempre mostrata dalla band: le varie “The Science Of Noise”, “The Silence in Between” e “Endtime Hearts” scorrono quindi con piacere, intervallate da irrinunciabili estratti dai classici “Haven” e “Projector”, come “The Wonders At Your Feet” e “ThereIn”. Oramai una garanzia sotto ogni aspetto, i Dark Tranquillity si mostrano però anche furbi: invece che finire incastrati tra i nomi più blasonati su palchi come il Black o il True Metal (che pure gli competerebbero), preferiscono una cornice più raccolta ma ad un’ora più consona. La scelta di optare per l’impatto frontale nel piccolo spazio del tendone è vincente e la band strappa così l’impressione di un ipotetico sold-out, almeno giudicando lo scarso spazio libero rimasto. Come già scritto: una vera garanzia.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
The Science of Noise
White Noise/Black Silence
The Silence in Between
The Lesser Faith
The Wonders at Your Feet
The Treason Wall
Through Smudged Lenses
State of Trust
ThereIn
Monochromatic Stains
Terminus (Where Death Is Most Alive)
Final Resistance
Endtime Hearts
Misery’s Crown
SAVATAGE + TRANS-SIBERIAN ORCHESTRA – Black Stage / True Metal Stage, 21:45 – 00:00
Inutile girarci attorno, lo show più atteso della giornata, ma più probabilmente dell’intera edizione, era proprio questo: il ritorno sul palco di Jon Oliva, Zackary Stevens e Chris Caffery con la loro band ufficiale, i Savatage. A rendere ancora più eccezionale l’evento si aveva poi il fatto che l’enorme e colorato carrozzone della Trans-Siberian Orchestra si esibisse contemporaneamente sul palco gemello, dando vita a un ‘doppio show’ per cui possiamo sbilanciarci dicendo di non averne mai visto di eguali. Sottolineiamo subito che non ci infogneremo per nostra scelta nel discorso se questo incredibile doppio show sia stata una vera reunion dei Savatage o, come in molti hanno suggerito, un enorme spot per la T.S.O.; e nemmeno riporteremo o entreremo nel merito delle numerose dichiarazioni al riguardo emesse dalla band il giorno successivo: il nostro compito di reporter sarà assolto dalla sola analisi della serata. Una serata che, manco a dirlo, è stata unica. Davvero unica. Non tanto da un punto di vista esecutivo, dove un Caffery esaltatissimo e un Pitrelli stellare si sono magari alternati a un Jeff Plate un po’ statico dietro i tamburi e a uno Stevens un po’ sfiatato, bensì maggiormente da un punto di vista emozionale e della pura e semplice esperienza visuale. E’ il palco di sinistra ad accendersi di luce per primo: on stage i Savatage, con un ruggente Oliva al microfono, accompagnato dalla formazione ‘classica’ di “Dead Winter Dead”. Come colpi di mitragliatore ci vengono sparati classici immortali come la grandissima “Gutter Ballet”, la potente “24 Hrs. Ago” e l’elegante “Edge Of Thorns”, primo singolo dei Savatage a sfondare nelle radio americane nell’ormai lontano 1993. Grazie a una tripletta veramente da maestri lo show non si può neanche dire che sia ‘decollato’: è partito già ad alta quota! I classici “Jesus Saves” e “Dead Winter Dead” scorrono via rapidi e fin troppo presto arriva la chiusura delle tende sul Black Stage, ma non prima che l’immancabile “Hall Of The Mountain King” abbia spellato per bene le mani di tutti i presenti. Il buio non persiste a lungo e le luci, più potenti e più ricche, tornano a stordire i nostri occhi sul palco di destra, con la nuova song “Madness Of Man” ad aprire le danze su uno show decisamente diverso. Dove il campo sul lato Savatage era tutto nostalgia e sincera rudezza metal, sul terreno dell’orchestra di Paul O’Neill troviamo invece una grande cura, una professionalità estrema e una enorme e mai sopita voglia di stupire. “Another Way You Can Die” ci presenta il bestseller “Night Castle”, ma è poi di nuovo un inedito, “Night Conceives”, ad attirare l’attenzione del pubblico, grazie anche a una grintosa e coinvolgente Kayla Reeves, l’ultima ‘protetta’ di O’Neill. “Beethoven” e “The Last Illusion” sono grandi estratti, ma è una cover dei Savatage, “The Hourglass”, a prendersi la maggioranza degli applausi. Il tempo finisce anche per il palco a destra ed è allora che succede la magia: entrambi gli edifici prendono infatti vita e inizia l’attesissimo doppio show. “Carmina Burana, Mozart And Memories” e l’inedito “King Rurick” sono i lasciti T.S.O. che ascoltiamo, mentre le belle “Turns To Me”, “Another Way” e una stupenda “Morphine Child” sono i pezzi Savatage che nessuno si aspettava ma che tutti applaudono. Prima che “Believe”, “Chance” e ovviamente il brano di collegamento tra Savatage e Trans-Siberian Orchestra, “Christmas Eve (Sarajevo 12/24)” chiudano definitivamente il sipario su un evento unico nel suo genere, non ci rimane che ringraziare Oliva, O’Neill e tutti i loro compagni per la possibilità che ci hanno dato di assistere a questo incredibile show.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
Savatage Show
Gutter Ballet
24 Hrs. Ago
Edge of Thorns
Jesus Saves
The Storm
Dead Winter Dead
Hall of the Mountain King
Trans-Siberian Show
Madness of Men
Another Way You Can Die
Night Conceives
Toccata – Carpimus Noctem
The Hourglass (Savatage cover)
Beethoven
Prometheus
A Last Illusion
Both Stage Show
The Mountain (from Trans-Siberian Orchestra)
Carmina Burana (from Trans-Siberian Orchestra)
Turns to Me (from Savatage)
Another Way (from Savatage)
Piano Solo (from Trans-Siberian Orchestra)
Mozart and Memories (from Trans-Siberian Orchestra)
Morphine Child (from Savatage)
King Rurick (from Trans-Siberian Orchestra)
Believe (from Savatage)
Chance (from Savatage)
Christmas Eve (Sarajevo 12/24) (from Savatage)
Requiem (The Fifth)
VENERDI 31/07
THE POODLES – W:E:T Stage, 14:10 – 14:55
I momenti sotto l’ora di pranzo sono sempre quelli più morti in un festival, ma a toglierci la noia e infonderci l’energia giusta per affrontare il resto della giornata ci pensano i quattro svedesi dei The Poodles, combo hard rock scandinavo famoso forse più per i look stravaganti che per i loro oramai sei parti discografici. Il nuovo singolo “Before I Die” apre logicamente le danze, ma gli applausi sono tutti per la successiva “Metal Will Stand Tall”, un classico per la band, e per “House Of Cards”, già citata da noi nella recensione dell’album “Devil In The Details” come uno dei brani migliori in esso contenuti. Vecchio e nuovo si alternano poi lungo una setlist di tredici brani, che copre più che degnamente l’ora a disposizione della band, ma che ancora più degnamente coprono i vari passi di una carriera che ha già raggiunto il decennio. Bravi, divertenti e ammiccanti, i The Poodles si guadagnano la pagnotta sul palco W:E:T del Wacken grazie ad una musica, il loro hard rock moderno stile Gotthard, nota e conosciuta; c’è da dire, però, che la dimensione giusta per questo tipo di sonorità è proprio un palco di piccole dimensioni, e i quattro simpatici svedesi non hanno mancato di mostrarcelo nemmeno questa volta. Bravi.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
Before I Die
Metal Will Stand Tall
House of Cards
Cuts Like a Knife
I Want it All
Shut Up!
Like No Tomorrow
Everything
Caroline
The Greatest
Thunderball
Seven Seas
Night of Passion
AT THE GATES – Black Stage, 15:30 – 16:30
Gli At The Gates sono sicuramente assieme ai Carcass tra le band estreme che hanno fatto più parlare di loro negli ultimi anni, grazie ad una reunion e un successivo album, “At War With Reality”, che ha segnato nel migliore dei modi il loro ritorno sulle scene. Portati da noi al Metalitalia.com Festival 2014 come headliner, i ragazzi svedesi diedero prova di potenza e impatto anche senza, purtroppo, il chitarrista Anders Björler, vittima di un problema di salute. Oggi siamo quindi in grande attesa di rivederli dal vivo e al completo. Sebbene lo slot pomeridiano non consenta al gruppo di usufruire del suggestivo effetto dell’imponente impianto luci del Black Stage e la scenografia sia limitata ad un grande backdrop con la copertina dell’ultimo lavoro in studio, la prestazione è di tutto livello e coinvolge la platea già dalle prime battute della nuova “Death and the Labyrinth”. La prima vera e propria mazzata arriva però con la successiva “Slaughter of the Soul”, il cui ‘go!!!’ iniziale viene scandito a gran voce dalle parecchie migliaia di presenti che si accalcano e pogano nelle prime file. Lo show prosegue con la band che sbaglia poco o nulla e un indiavolato Tompa che coinvolge la folla e urla rabbiosamente dietro al microfono senza risparmiare energie. La parte centrale della performance è tutto un alternarsi tra brani storici come “Terminal Spirit Disease”, “Under A Serpent Sun” o “World Of Lies” ad altri tratta dalla recente release che, oltre alla titletrack “At War With Reality”, rispondono al nome di “The Circular Ruins”, “Heroes And Tombs” e “City of Mirrors”, tutte dalla buona resa live. Ovviamente a farla da padrone è sempre quello “Slaughter of The Soul” che nel 1995 cambiò per sempre il panorama del death metal europeo e da esso non potevano mancare “Nausea” e, dopo la vecchissima “Kingdom Gone”, la devastante “Blinded By Fear” che con il suo micidiale tiro trascina la parte anteriore della platea in un moshpit sfrenato nonostante il pesante fango che ancora ricopre il suolo. Si chiude così una prestazione soddisfacente da parte di una delle death metal band storiche attualmente più in forma.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Death and the Labyrinth
Slaughter of the Soul
Cold
At War With Reality
Terminal Spirit Disease
The Circular Ruins
Under a Serpent Sun
Heroes and Tombs
World of Lies
City of Mirrors
Suicide Nation
Nausea
Kingdom Gone
The Book of Sand (The Abomination)
Blinded by Fear
STRATOVARIUS – Party Stage, 15:30 – 16:30
Il secondo giorno inizia con un tempo un po’ più clemente e, nonostante il freddo che arriverà in serata, la mattina è – tutto sommato – gradevole. Rinfrancati, ci rechiamo al Party Stage per il concerto degli Stratovarius. I power metaller finlandesi, nonostante qualche passo falso verso metà carriera, hanno mantenuto un numero notevole di fan, che ora affollano l’area davanti al palco. L’inizio con “Black Diamond” ci spiazza, ma ci uniamo subito al sing-along con un Kotipelto carico fin dalle prime battute; si prosegue “Eagleheart” e “Against The Wind” e la band ci appare in ottima forma: i suoni sono buoni, probabilmente la posizione leggermente decentrata del Party Stage ed il numero minore di persone presenti rispetto ai due palchi principali aiuta la folla a stare più vicina al palco e, quindi, a non far “disperdere” troppo il sound. Qualche momento interlocutorio e poi si riparte a razzo con “Paradise”, seguita da “Shine In The Dark” (all’epoca inedita, visto che è stata pubblicata un paio di settimane fa). Un ottimo concerto chiuso da “Speed Of Light” e “Hunting High And Low”. Era tempo che non vedevamo gli Stratovarius così in forma, con una setlist “d’attacco” che – tra vecchio e nuovo – sceglie sapientemente i pezzi più adatti al live, specie ad un open air. La sesta esibizione a Wacken dei finnici cancella completamente la prova un po’ altalenante del 2010 e non può che renderci ansiosi di rivederli a fine ottobre a Trezzo, forti di questa carica e del nuovo lavoro.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Black Diamond
Eagleheart
Against The Wind
Dragons
Legions
Paradise
Shine In The Dark
Speed Of Light
Unbreakable
Hunting High And Low
ANAAL NATHRAKH – W:E:T Stage, 17:50 – 18:35
Gli Anaal Nathrakh, con la forza del loro messaggio misantropico, sono – potenzialmente – una delle band meno adatte ad una kermesse come Wacken. Nel buio del tendone del W.E.T. stage Irrumator e V.I.T.R.I.O.L. riversano tutto il nichilismo ed il cinismo che sono la base portante della loro gelida proposta musicale, tra black metal, industrial e grind. Non siamo tutti amici, nonostante quello che ci vogliono far capire in questi eventi, l’ascoltare la stessa musica non ci unisce in alcun modo, siamo soli: tutti contro tutti con una determinazione ed una cupa visione dell’umanità che farebbero impallidire Hobbes e Schopenhauer. Irrumator parla parecchio tra un pezzo e l’altro, i suoi proclami di odio sono un inno alla distruzione reciproca e la violenza sonora è il giusto contraltare al pessimismo che trasuda da ogni nota del duo di Birmingham. Il culmine, forse, si raggiunge verso la metà dello show con “Bellum Omium Contra Omnes” e “Between Shit And Piss We Are Born”; l’atmosfera è quella giusta con la poca luce del palco al coperto, il pubblico non eccessivamente numeroso ed il tendone che racchiude il sound e gli permette di esplodere nelle orecchie degli astanti. Boati accolgono “In The Constellation Of The Black Widow” e “Idol”, mentre la voce scandisce ‘You will worship now. I am God. Every God is evi’. Un’esperienza sonora devastante ed annichilente, un muro che, dal vivo, risulta ancora più impressionante che su disco. La fine dello show è brusca, come tutti i quarantacinque minuti di setlist, e la sensazione, quando si esce dal tendone, è confusa, portandoci a sentirci estraniati e completamente avulsi ed impreparati all’atmosfera festaiola che ci attende all’esterno, mentre rimbomba ancora il messaggio degli Anaal Nathrakh: “There is no courage, only despair”.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Forging Towards The Sunset
Between Shit And Piss We Are Born
The Joystream
Of Fire And Fucking Pigs
Idol
Do Not Speak
DREAM THEATER – True Metal Stage, 19:30 – 20:45
Dopo il black metal violento, primordiale e gelido degli Anaal Nathrakh, ci portiamo verso il True Metal stage per il concerto dei Dream Theater. E’ una sorpresa vedere come un gruppo così venerato in Italia (e non solo) non abbia lo stesso seguito in Germania, il cuore metal del continente europeo. Forse perché ormai la band di metal ha poco, forse perché un festival come Wacken non si addice molto al sound ultra-tecnico e pulito dei Dream Theater, forse perché il trittico Queensryche, Opeth, Dream Theater è un po’ troppo per noi rozzi metallari non avvezzi a cotanta finezza ed innovazione, o forse solo perchè è l’ennesimo concerto dei Dream Theater, uguale a tutti gli altri che abbiamo visto. Certo, i progster americani offrono sempre uno spettacolo notevole e sicuramente ad ogni grande evento c’è qualcuno che li vede dal vivo per la prima volta (cosa che, ancora oggi, fa sicuramente effetto); la band parte con “Afterlife” e, subito dopo, con “Metropolis pt.1”, regalando presto, forse troppo presto, il piatto forte del tracotante banchetto sonoro. Per chi, come chi scrive, non è un gran fan del gruppo e, quindi, tende a riconoscere più le canzoni che i virtuosismi, la band dà il suo meglio con “As I Am” e “Panic Attack”, eseguite – per altro – in successione, mentre “Constant Motion” fa sfiorare l’assopimento ai più. Comunque il concerto è ineccepibile dal punto di vista sonoro e la band riesce, tra virtuosismi notevoli, ad ingraziarsi un pubblico entusiasta poco prima dell’inizio, annoiato fino a quasi metà concerto, ma partecipe al termine (forse anche sollevato, perché dopo tutta questa cultura si avvicina l’ora di Zakk Wylde e tutti potranno ricominciare a scapocciare e bere birra). Così, mentre molti si chiedevano ‘ma l’hanno fatta Pull Me Under?’, il discorso più comune tra la parte tedesca del pubblico a fine concerto, riassumendo, era ‘molto bravi, anche se non è esattamente il mio genere’. E chi siamo noi per andar contro i tedeschi?
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Afterlife
Metropolis Pt. 1
Burning My Soul
The Spirit Carries On
As I Am
Panic Attack
Constant Motion
Bridges In The Sky
Behind The Veil
BLACK LABEL SOCIETY – Black Stage, 21:00 – 22:15
Nonostante le nostre aspettative volessero il contrario, il periodo che andava dalle nove di sera alle dieci e un quarto sul Black Stage non è stato il migliore della nostra esperienza al Wacken di quest’anno. Aspettavamo parecchio i Black Label Society, ma il prolungarsi della serie di interviste da noi tenute nel corso del pomeriggio del Day 2 nell’area VIP non ci ha permesso di giungere subito nella zona dei palchi principali. Mentre ci avviciniamo il volume spropositato ci dice che Zakk è già sul palco e questo ci rincuora: l’impatto sonoro, quasi in grado di spostare i kid indietro con le sole vibrazioni, è caratteristica chiave dei BLS, ma più ci avviciniamo e più ci rendiamo conto che qualcosa non va. Che Zakk e compagni siano fracassoni si sapeva, ma dalla nostra posizione il suono è decisamente impastato, confuso. Vicino al palco va meglio, ma la massa di persone ci costringe comunque in una posizione defilata, dove una chitarra non giunge, il basso riverbera sul terreno nonostante il fango e le pelli della batteria sembrano ricoperte di stagnola. Cominciamo lo show praticamente da “Suicide Messiah”, ma vediamo che le cose non tendono ad andare meglio. Diversi layer di effetti sembrano posati sulla voce del biondo vichingo, non capiamo se per riempirla o per coprire i tentennamenti, ma anche la calda timbrica che apprezziamo su disco sembra non essere quella. Peccato, perché a livello di performance ed impatto visivo i Black Label Society sono sempre una garanzia… Il concerto, sebbene breve, scorre comunque abbastanza piacevolmente nonostante il nostro fastidio per il sound, ma non è niente che si possa imputare alla band stessa. Anche perché le caratteristiche della Società dell’Etichetta Nera che piacciono ai presenti sono tutte lì: la mega-pedana per la chitarra, il porta-microfono con teschi e crocifisso, l’interminabile e rumorosissimo assolo con abuso di chicken picking e leva del vibrato e l’immancabile Gibson ‘Bull’s Eye’ maltrattata, piegata e strizzata come si confà a un concerto di Zakk. Insomma, quello che tutti si aspettavano, peccato per il suono (non sappiamo in altre zone se la situazione fosse migliore) e per una scaletta un po’ corta, mutilata di tanti pezzi che avremmo voluto sentire. Concludiamo con il solito plauso d’obbligo alla stupenda “In This River”, convinti che, da lassù, Dimebag guarda e acconsente, bevendosi l’ennesimo Black Tooth Grin della giornata.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
The Beginning… At Last
Funeral Bell
Bleed for Me
Heart of Darkness
Suicide Messiah
My Dying Time
Damn the Flood
Guitar Solo
Godspeed Hell Bound
In This River
The Blessed Hellride
Concrete Jungle
Stillborn
IN FLAMES – True Metal Stage, 22:30 – 23:45
A differenza dei quasi cugini Dark Tranquillity, esibitisi il giorno prima sui palchi minori del Wackinger Village, gli In Flames fanno valere il peso del loro nome e l’importante numero del loro seguito accaparrandosi il True Metal Stage ad un’ora più che dignitosa, le 22:30. Non in prima serata ma in seconda dunque, e sono veramente tanti i fan raccolti davanti al palco, intenti come sempre a non finire risucchiati dalla landa melmosa che è diventato oramai il terreno antistante gli stage principali. Sempre più tamarri e ‘alternativi’, gli In Flames non sono più la band di melo-death di un tempo: gli Anni ’90 per loro sono tramontati definitivamente e non stupisce infatti (anche se fa ancora parecchio incazzare alcune persone) il non trovare in scaletta nemmeno un pezzo da “Colony” o “The Jester Race”. Sono invece i vari “Soundtrack To Your Escape” o il saccheggiatissimo “A Sense Of Purpose” a farla da padrone, con pochi altri slot lasciati al capolavoro “Clayman” o agli ultimi due album. Un Friden dall’aspetto tremendamente non metallaro nel suo look total-white prende il comando del palco sin dalla prima canzone e i Nostri sopperiscono all’evidente contaminazione della loro proposta musicale sfruttando con perizia gli ampi spazi a disposizione e l’enorme wattaggio in termini sia di luci che di suono. L’impatto sulle orecchie è notevole e l’utilizzo di effetti pirotecnici (compresi coriandoli nel finale) dona pepe e gusto a uno show che comunque non si fa mancare la sua dose di buona musica, sebbene meno estrema di quanto avessimo sperato. Una certa quantità di coraggio non gliela si può disconoscere a questa ultima versione degli In Flames: quando in tanti usano i festival estivi per sostenere ‘di essere ancora loro’, incentrando le scalette sui gusti del pubblico, i cinque del combo di Goteborg puntano invece sulla loro personalità attuale, per quanto alternativa, strana e poco accolta possa essere. Lo show sarà stato forse più un’esperienza visuale che sonora ma, a conti fatti, lo spettacolo è stato assicurato per tutti i presenti.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
Only for the Weak
Everything’s Gone
Bullet Ride
Where the Dead Ships Dwell
Paralyzed
Alias
Deliver Us
Cloud Connected
Drifter
The Chosen Pessimist
The Quiet Place
Delight and Angers
Rusted Nail
The Mirror’s Truth
Take This Life
My Sweet Shadow
RUNNING WILD – Black Stage, 00:00 – 01:30
L’ultimo show dei Running Wild risale al 2009, proprio qui al Wacken Open Air. Doveva essere un concerto d’addio, con il quale il leader Rolf Kasparek avrebbe per sempre ritirato la sua creatura. La storia insegna però che in campo musicale, salvo rari episodi, c’è poco da fidarsi degli addii e infatti pochi anni dopo il “Capitano” aveva già resuscitato la band e pubblicato il nuovo (e scarso) album “Shadowmaker”, seguito poi dal recente e senz’altro migliore “Resilient”. Ora sono di nuovo qui, i Running Wild, pronti per salire sul palco principale del Wacken Open Air 2015 per un nuovo e attesissimo show in una formazione live rinnovata che, a fianco di Kasparek e del suo fido chitarrista Peter Jordan, vede l’ingresso del batterista Michael Wolpers e del bassista Ole Hempelmann. L’allestimento scenografico, seppur sempre minimale rispetto al galeone di un tempo, presenta un taglio decisamente più piratesco rispetto al precedente show al Wacken e non appena la band entra in scena sulle note di un medley di varie intro, si nota come anche i costumi che indossano i vari membri sono molto più curati. Purtroppo però, già dalla prima “Under Jolly Roger”, si nota un deficit notevole a livello di suoni e volumi, che spegne tutto l’entusiasmo che le decine di migliaia di fan avevano accumulato. Le chitarre si sentono a malapena e noi stessi, piazzati praticamente a centro platea, discutiamo senza nessun problema con le persone che abbiamo accanto. Un vero peccato e un problema che purtroppo riguarderà anche lo show dei Sabaton. La band, tra una chicca come “Jenning’s Revenge”, la vecchissima “Genghis Khan” o la più recente e non altrettanto esaltante “Locomotive”, dal canto suo sfodera un’ottima prestazione, con il buon Rolf quasi impeccabile dietro al microfono e la nuova sezione ritmica che non lascia a desiderare. Dopo il super classico “Riding The Storm”, che fa scatenare le prime file e cantare quasi tutta la platea, è il turno della nuova “Into the West”, discreto e orecchiabile mid tempo di freschissima composizione che sarà presente sul prossimo album. Tra fiammate ed effetti pirotecnici, lo show prosegue con brani storici quali “Raw Ride” “White Masque” o “Diamonds Of The Black Chest” e altri meno noti estratti dalle ultime produzioni come “Riding On The Tide” e “Soldiers Of Fortune”. I suoni sono andati via via migliorando e il volume anche, sebbene sia ben lontano da quello che un impianto come quello che abbiamo davanti possa offrire. Così, quando prima dei bis finali arriva “Bad To The Bone”, si ha già l’impressione di un buon concerto che sarebbe stato un grande concerto se questi difetti, abbastanza incomprensibili in una rinomata sede come Wacken, non ci fossero stati. La folla comunque applaude e alle finali “Bloody Island” e “Little Big Horn” risponde con un caloroso saluto a una delle band più significative del panorama classic tedesco.
(Alessandro Corno)
SETLIST
Under Jolly Roger
Jennings’ Revenge
Genghis Khan
Locomotive
Riding the Storm
Into the West
Raw Ride
Drum Solo
White Masque
Riding on the Tide
Diamonds of the Black Chest
Soldiers of Fortune
Bad to the Bone
Bloody Island
Little Big Horn
WITHIN TEMPTATION – Party Stage, 00:00 – 01:30
Sanno quello che vogliono i Within Temptation e, soprattutto, sanno come ottenerlo. Frase fatta, certo, però in questo caso è quantomai azzeccata, considerando come Westerholt e la bella Sharon Den Adel abbiano tenuto sul palmo della mano le migliaia di fan presenti davanti al Party Stage, subito dopo lo scoccare della mezzanotte. Dodici rintocchi quindi, ma nessuna principessa che scappa via con la carrozza che si trasforma in zucca: quello che vediamo è piuttosto una principessa della notte che si presenta sul palco carica e in forma, pronta a divertirsi con i compagni di cammino ma soprattutto con gli adoranti kid che si estendono a perdita d’occhio sotto il suo sguardo. “Paradise (What About Us?)” ci parla di tempi recenti e dell’ultimo “Hydra”, ma subito dopo “Faster”, “ In The Middle Of The Night” e “Fire And Ice” fanno la felicità di quei fan che li seguono dal principio e che hanno trovato nel bellissimo “The Unforgiven” il loro album preferito. “The Silent Force” e soprattutto “The Heart Of Everything” sono poi ben coperti dai loro estratti migliori, contribuendo a disegnare il volto di uno show che ha tutto il dinamismo e la frenesia di una palla di roccia enorme che rotola verso di noi, travolgendoci con il suo trasporto e una contagiosa energia. I ritmi, rallentatisi grazie alle celestiali ballad per le quali la band è giustamente famosa, si riaccendono poi per via della ritmata e frizzante “And We Run”, la quale si avvantaggia appieno del perfetto sistema audio-video, riuscendo a portare il rapper Xzibit sul palco per qualche minuto anche se solo virtualmente. “The Heart Of Everything” precede di un solo slot la mai dimenticata “What Have You Done”, che si vince facilmente la palma di brano da noi preferito di tutto lo show. Troppo in fretta il classico “Mother Earth” chiude le danze (è il caso di dirlo) su questo energico, frizzante e irresistibile show: diciassette canzoni sono trascorse sotto gli occhi e le orecchie dei presenti, e la sensazione che abbiamo è quella che difficilmente questi cinque olandesi potranno essere fermati nel loro cammino verso un successo sempre più grande.
(Dario Cattaneo)
SETLIST
Paradise (What About Us?)
Faster
In the Middle of the Night
Fire and Ice
The Cross
Our Solemn Hour
Stand My Ground
Iron
Angels
Summertime Sadness
(Lana Del Rey cover)
And We Run
The Heart of Everything
What Have You Done
Ice Queen
Sinéad (Acoustic)
Covered By Roses
Mother Earth
SABATO 01/08
POWERWOLF – True Metal Stage, 13:15 – 14:15
Ormai i Powerwolf non sono certo più una sorpresa. Il loro power metal infarcito di riferimenti alla liturgia cristiana ed ai lupi mannari, inframmezzato da un latino “creativo”, sono noti ai più e particolarmente apprezzati in terra tedesca; motivo per cui la folla accorre numerosa. La band non si prende sul serio (per fortuna) e regala uno show divertente e coinvolgente; pezzi come “Amen & Attack”, “Resurrection By Erection” o “Werewolves Of Armenia” sono ormai dei veri e propri cavalli di battaglia che i fan cantano a squarciagola. Insomma, i cinque lupi di Saarbrücken si esibiscono in un classico (ed ottimo) concerto di power metal arricchito dal magnetico carisma di Attila Dorn che si conferma un frontman strepitoso ed instancabile; proprio Dorn fornisce la chiave di lettura che ci permette di comprendere il successo dei Powerwolf (sia su disco che dal vivo): è evidente che questi ragazzi si divertono quando suonano, che il loro show è preparato nei minimi dettagli ma che riesce a risultare spontaneo al 100% e che, in ultima analisi, sono dei professionisti preparati oltre che degli ottimi musicisti. Come dicevamo, il carisma del frontman Attila Dorn è notevole e, anche in questa occasione, il ragazzo si rivela il fulcro del concerto, correndo, incitando il pubblico ed assumendo pose da navigata rockstar (ovviamente in modo ironico). I suoni, elemento decisamente altalenante nella qualità in questa edizione del Wacken Open Air, sono all’altezza ed arrivano a metà del prato antistante il palco senza disperdersi, restando compatti e con un volume bello alto. In finale, un concerto assolutamente sopra la media, ma questa non è una sorpresa con i Powerwolf che, nella dimensione live, sono una certezza, sia che suonino in un club sia che si trovino davanti al pubblico del più grande open-air metal del mondo.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Sanctified With Dynamite
Coleus Sanctus
Army Of The Night
Amen & Attack
Armata Strigoi
Resurrection By Erection
Werewolves Of Armenia
Blessed & Possessed
We Drink Your Blood
In the Name Of God
Lupus Dei
AMORPHIS – Black Stage, 14:30 – 15:45
Prima di Tomi Joutsen e dei suoi dreadlocks, prima della Nuclear Blast e prima delle sperimentazioni e dell’ammorbidimento, c’erano gli Amorphis. Prima di “Eclipse”, “Silent Waters” e “Skyforger”, c’erano “The Karelian Isthmus”, “Privilege Of Evil” e – sopratutto – c’era “Tales From The Thousand Lakes”. Non vogliamo discutere su quale corso degli Amorphis sia meglio o se, in realtà, la strada “Under The Red Cloud” sia una naturale evoluzione, costruita disco su disco nell’arco di venticinque anni di carriera. Quello di cui vogliamo parlare è, invece, quello che (almeno per chi scrive) era uno degli eventi più attesi dell’edizione 2015 del W.O.A.: il tour per il ventesimo anniversario di quello che, per molti, resta se non il migliore, sicuramente il più amato disco degli (allora) deathster finlandesi: “Tales From The Thousand Lakes”, la celebrazione di una pietra miliare (giunta, a voler essere pignoli, con un annetto di ritardo). Purtroppo, lo diciamo subito, il concerto non è stato in pieno l’evento che avrebbe potuto essere; certo la voce non è quella dell’album e chi lo ha ascoltato allo sfinimento lo nota subito, ma era inevitabile. Inizialmente gli Amorphis sembrano un po’ ‘spompi’ ed il concerto fatica a decollare, anche se le persone accorse non sembrano accorgersene o dar troppa importanza alla questione; i suoni, in realtà, ci appaiono poco azzeccati e troppo bassi. Proviamo, allora, ad avvicinarci al palco (ci avviciniamo sensibilmente, sfruttando i “corridoi” lasciati liberi a causa delle pozze di fango che ci fanno sprofondare ben oltre la caviglia). Superando di parecchio la metà del prato antistante il palco, la musica cambia completamente (in tutti i sensi), giusto in tempo per “Black Winter Day”. Certo, proporre un concerto a cui assistono potenzialmente 40 o 50000 persone e settare il sound in modo tale che solo poco più della metà delle persone possano sentire decentemente è una scelta opinabile, ma non è questa la sede per discuterne. Per il resto, il concerto può essere visto sotto due ottiche: da un lato il piacere di sentire dal vivo uno dei dischi più significativi (e belli) del “vecchio” death metal nordico, dall’altra una band che – a tratti – sembrava felice di suonare “Tales From The Thousand Lakes”, dall’altra sembrava eseguire un compito. Nel complesso, però, un concerto sopra la media per passione e coinvolgimento del pubblico.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Into Hiding
The Castaway
First Doom
Black Winter Day
Drowned Maid
In The Beginning
Forgotten Sunrise
To Father’s Cabin
Magic And Mayhem
Vulgar Necrolatry (cover degli Abhorrence)
Better Unborn
Against Widows
My Kantele
Folk Of The North
SABATON – Black Stage, 20:30 – 22:00
I Sabaton sono ormai di casa a Wacken e, a parte il solito problema di volume troppo basso, sono una garanzia dal vivo. Se, fino ad un annetto fa, il solo Joakim teneva il palco in modo ineccepibile, oggi tutta la band partecipa allo show, show incentrato spesso sull’ironia del frontman del gruppo che interagisce col pubblico, ride e scherza e conferma un legame particolare con i fan tedeschi (“Noch Ein Bier” sarà un tormentone per l’intero concerto, arrivando ad una rivisitazione di “Gott Mit Uns”). Dopo il classico inizio con “Ghost Division”, i Sabaton ci propongono una setlist fortemente incentrata sull’ultimo disco “Heroes”, da cui estraggono ben sei pezzi (forse un po’ troppi per un festival), ma pescando un po’ da tutto il loro (ormai) abbondante repertorio; mancano molti cavalli di battaglia (“40:1”, “Attero Dominatus”, “Cliffs Of Gallipoli” e “Uprising”), ma – sopratutto – c’è forse un po’ troppo Joakim Brodén. Il concerto, ci viene detto dallo stesso cantante durante lo show, sarà ripreso per diventare un DVD/Blu-Ray e questo porta gli intermezzi ad essere un po’ troppo numerosi. Con un repertorio incentrato quasi unicamente sulla guerra, può essere giusto “sdrammatizzare” scherzando con gli astanti e, comunque, la simpatia dei Sabaton è tale che sarebbe un peccato sprecarla non portandola sul palco. In questa occasione, però, ci è parso che il tutto pendesse troppo sul piatto del “cabaret” rispetto a quello della musica. Lo stesso tormentone “Noch Ein Bier” (incitamento a bere “un’altra birra”) da sempre presente nei concerti dei Sabaton in terra germanica, è poco spontaneo, chiamato dalla band invece che iniziato dal pubblico, arrivando così ad avere – concentrati in un solo concerto – i vari “siparietti” che negli anni (in modo più o meno spontaneo) hanno accompagnato i concerti degli svedesi. Al di là di questo, comunque, c’è una band in forma, capace come poche di coinvolgere il pubblico e che dà l’impressione di divertirsi parecchio in quello che fa. “Gott Mit Uns (storpiato appunto in “Noch Ein Bier”) è sicuramente una delle highlight dell’intero show, con “Swedish Pagans”, “Carolus Rex” e l’immancabile “Primo Victoria”. Come detto, la setlist ci è sembrata troppo concentrata sul materiale più recente e l’aspetto “comico” forse un po’ troppo calcato, ma non si può dire che i Sabaton non abbiano fornito un’ottima prova (anche se, a nostro parere, inferiore a quella del 2013 sempre qua a Wacken).
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Ghost Division
To Hell And Back
Carolus Rex
No Bullets Fly
Resist And Bite
Far From The Fame
Panzerkampf
Gott Mit Uns (Noch Ein Bier)
The Art of War
Soldier Of 3 Armies
Swedish Pagans
Screaming Eagles
Night Witches
Primo Victoria
Metal Crüe
JUDAS PRIEST – True Metal Stage, 22:15 – 00:00
Con un po’ di scetticismo ci incamminiamo verso il True Metal Stage per il concerto dei Judas Priest. Scetticismo dovuto all’ultima apparizione a Wacken di Halford e soci (nel 2011), in cui il vecchio Rob era apparso più che svogliato e disinteressato, arrivando ad avere un atteggiamento al limite della presa in giro; certo, chi ha visto tante volte i Priest sa che – a volte – Halford non è in serata. Come si dice, succede anche nelle migliori famiglie. Si apre con “Dragonaut” dall’ultimo “Redeemer Of Souls” e, sebbene il disco sia stato migliore di quanto molti fan si aspettassero, l’accoglienza del pubblico è piuttosto fredda. Per fortuna i Judas Priest ci riportano subito nel 1980 con “Metal Gods” e restano per qualche pezzo nel loro glorioso passato. Quello che stupisce è la forma strepitosa di Rob Halford che – a 64 anni – riesce ancora a sfoggiare una voce strepitosa, acuta e potente; l’esperienza della band, poi, emerge anche nei suoni, tra i pochissimi all’altezza dell’evento in questa edizione di Wacken. Il gruppo alterna vecchio e nuovo, ripescando pezzi dal periodo anni ’70 (“Beyond The Realms Of Death”, “Hell Bent For Leather”, “Victims Of Changes”). Il palco è allestito in modo spettacolare ed impeccabile ed ovviamente non manca la moto di Halford che, in una delle tradizioni più sacre dei concerti metal, fa il suo maestoso ingresso sul palco. Il concerto si chiude con l’immancabile “Breaking The Law” e la già citata “Hell Bent For Leather”, ma i Priest hanno sfoggiato una forma talmente smagliante che il pubblico non può accontentarsi e non può lasciare il concerto senza il rituale degli encore. Ecco, allora, “Electric Eye” e “You’ve Got Another Thing Comin’” a mandare in visibilio le persone accorse a quello che, forse, risulterà essere uno dei migliori concerti dell’edizione 2015 del Wacken Open Air. I Priest lasciano il palco, ma tutti sanno che manca ancora qualcosa, così la folla esplode quando la Scott Travis inizia l’intramontabile “Painkiller”, cantata – ancora una volta – in modo impeccabile dal vecchio Rob. La naturale chiusura del concerto è “Living After Midnight”, il sigillo ad uno show magistrale che dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, la caratura di una band come i Judas Priest, band che merita, più di molte altre, di essere annoverata tra i padri dell’heavy metal o, per dirla con le loro parole, “Metal Gods”.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Dragonaut
Metal Gods
Devil’s Child
Victim Of Changes
Halls Of Valhalla
Turbo Lover
Redeemer Of Souls
Beyond the Realms of Death
Jawbreaker
Breaking The Law
Hell Bent For Leather
The Hellion
Electric Eye
You’ve Got Another Thing Comin’
Painkiller
Living After Midnight
CRADLE OF FILTH – Black Stage, 00:15 – 01:30
La seconda metà del 2015 sta vedendo i Cradle Of Filth in gran spolvero. L’ottimo “Hammer Of The Witches” ha riportato al band ad alti livelli compositivi, così – con il disco appena uscito – le aspettative per il loro show a Wacken erano prepotenti. La mezzanotte è passata da poco quando arriviamo sotto il Black Stage, in tempo per “Cthulhu Dawn”: l’orario è ottimo vista la musica proposta da Dani Filth e soci, la presenza del pubblico è nutrita anche se non è certo la folla dei concerti precedenti (cosa più che normale, vista l’ora) ed i Cradle partono a razzo; dopo la già citata “Cthulhu Dawn”, ecco “A Dream Of Wolves In The Snow”, canzone del seminale “The Principle Of Evil Made Flesh”, rispolverata dagli inglesi da un paio d’anni, e “Summer Dying Fast”. Subito dopo, però, si cominciano a palesare i primi problemi tecnici (problemi non certo imputabili alla band che, anzi, stava fornendo una prova di tutto rispetto): i volumi cominciano a sembrare settati a casaccio, con la voce di Dani che a volte sparisce e le chitarre che, di colpo, latitano per poi passare ad un volume follemente alto. Può sembrare una défaillance momentanea, ma la voce di Lindsay Schoolcraft sparisce completamente e così resterà per buona parte del concerto. E’ evidente che i monitor sul palco non danno evidenza di questo disastro, tanto che Dani si avvicina spesso a Lindsay per cantare con lei e se certe cose potrebbero essere anche perdonabili in festival minori, comprensibili dopo tre giorni di lavoro, viene da chiedersi quale fonico ubriaco possa non accorgersi che una delle voci di una band è sparita. Difficile imputare la cosa a qualche insormontabile problema tecnico, anche perché la stessa voce è tornata all’improvviso; quel che è certo è che sentire pezzi come “Nymphetamine (Fix)” senza voce femminile è piuttosto frustrante. Peccato, perché i Cradle, come detto, ci sono sembrati in gran forma, grazie ad un Dani che ha (ormai da tempo) ritrovato la voce e ad una setlist notevole.
(Lorenzo Ottolenghi)
SETLIST
Cthulhu Dawn
A Dream Of Wolves In The Snow
Summer Dying Fast
Honey And Sulphur
Funeral In Carpathia
Right Wing Of The Garden Triptych
Nymphetamine (Fix)
Born In A Burial Gown
Cruelty Brought Thee Orchids
Her Ghost In The Fog
From the Cradle to Enslave
SHINING – W.E.T. Stage, 01:20 – 02:05
Potremmo dividere il mondo in due: quelli per cui gli Shining sono una band svedese e quelli per cui sono una band norvegese. Al di là del nome, i due gruppi non potrebbero essere più diversi e chi scrive aveva avuto una (spiacevole) sorpresa all’Hellfest, trovandosi gli Shining norvegesi. Così, colmando il più in fretta possibile la distanza tra i palchi Black e Wet e nonostante la parziale sovrapposizione, siamo riusciti a vedere una parte dello show degli Shining svedesi. Il suicidal black metal proposto dalla band trova un buono sfogo nel tendone del Wet Stage a notte inoltrata. La dimensione del concerto, in effetti, è quasi da club e – forse – questo riesce a sottolineare bene il disagio e lo sconforto che la musica degli Shining cercano di trasmettere. Arriviamo a circa metà di “Människa O’Avskyvärda Människa” e riusciamo ad ascoltare altre due canzoni, fino a che il concerto viene interrotto abbastanza bruscamente alla fine di “For The God Below”. Un vero peccato che una band del genere non abbia avuto più tempo per suonare. Non ci sentiamo di fare ulteriori commenti, dato che non abbiamo assistito all’intero set.
(Lorenzo Ottolenghi)