02/08/2018 - WACKEN OPEN AIR 2018 – 1° giorno @ Wacken - Wacken (Germania)

Pubblicato il 30/08/2018 da

Introduzione e report a cura di Roberto Guerra Gabriele Mucignat

Finalmente è giunto il momento di parlare della ventinovesima edizione del più famoso tra tutti i festival rock/metal a 360 gradi, caratterizzato anche quest’anno da un bill ricco di vecchie glorie, così come di giovani promesse e realtà consolidate di recente; tutto abbinato alla ben nota atmosfera goliardica che da sempre permea i confini di quella che, all’alba del suo trentesimo anniversario, è divenuta una vera e propria istituzione per chiunque mostri interesse per un certo tipo di intrattenimento musicale, in grado di accogliere ogni anno decine di migliaia di estimatori urlanti, provenienti da tutto il mondo e vogliosi di passare tre o quattro giorni a base di fiumi di birra, buona compagnia e metallo incandescente. Utilizziamo questo particolare termine con l’intenzione di fare un collegamento con la caratteristica principale dell’edizione odierna del Wacken Open Air: un calore estremo e quasi anomalo per la location in questione, con tanto di nugoli di sabbia e polvere che si alzano ad ogni passo e poche zone d’ombra di cui usufruire nei momenti di pausa dalle numerose esibizioni previste per la giornata. Sebbene all’apparenza questa possa sembrare una condizione più invitante rispetto al peculiare connubio di umidità e fango, possiamo assicurarvi che non si è trattato propriamente di un evento facile cui partecipare, soprattutto tenendo conto dell’elevato numero di band da visionare, nonché di attività secondarie cui ci sarebbe comunque dispiaciuto rinunciare. Tuttavia, nonostante le eventuali difficoltà incontrate nel corso della nostra permanenza, è importante non dimenticare che stiamo parlando di Wacken e, per quante critiche si possano fare, si tratta sempre di un’esperienza magica ed emozionante, che non possiamo far altro che consigliare a chiunque non abbia ancora avuto l’occasione di prendervi parte, per un motivo o per un altro. Scritto questo, vi auguriamo buona lettura e cogliamo l’occasione per ringraziare l’organizzazione dell’evento che, ancora una volta, ha deciso di ospitarci.

 


SKYLINE

Spendiamo poche parole per parlare dell’immancabile inaugurazione dei palchi principali ad opera degli Skyline, band guidata dall’organizzatore dell’evento e dedita ogni anno a una proposta incentrata sulla riproposizione di alcune cover di altrettante tracce molto care agli affezionati delle sonorità rock e metal: per quest’anno la band spazia da “Burn” dei Deep Purple, “Runnin’ Wild” degli Airbourne e “We Rock” di Dio fino a “2 Minutes To Midnight” degli Iron Maiden, “Ain’t Talkin’ Bout Love” di Van Halen e addirittura la conclusiva “Asche Zu Asche” dei Rammstein, unica traccia di genere totalmente differente rispetto al resto di una scaletta decisamente più incentrata sulle sonorità vecchia scuola. Trattandosi di uno show di riscaldamento, nonché del segnale effettivo che l’attuale edizione del Wacken Open Air è ufficialmente iniziata, non si può fare a meno di cominciare ad esaltarsi e a sognare pensando a tutto il ben di Dio che ci aspetta nelle prossime ore.
(Roberto Guerra)

TREMONTI

L’affermato progetto solista di Mark Tremonti, celebre guitar hero americano divenuto famoso grazie alla prestigiosa attività musicale in band del calibro di Creed e, soprattutto, Alter Bridge, sbarca quest’anno all’importante festival nord europeo, pronto a scatenare i suoi vigorosi e peculiari riff sul Louder Stage. L’inizio è affidato a una traccia divenuta ormai quasi un classico come “Cauterize”, in grado sin da subito di accendere gli animi di tutti gli estimatori presenti, nonostante la calda ora pomeridiana in cui si sta tenendo l’esibizione. Il talentuoso ‘Tremonster’ dimostra di saper intrattenere il pubblico senza difficoltà, grazie anche alle sue strabilianti doti tecniche di chitarrista e cantante, offrendo in rapida successione una schiera di brani provenienti dal suo recente repertorio, quali “Another Heart”, “My Last Mistake”, “Catching Fire” e “Your Waste Of Time”, per citarne alcuni. Il comparto sonoro risulta adeguatamente pulito, definito ed energico, il che fornisce ulteriore materiale per permettere all’esibizione attuale di distinguersi positivamente tra i primi show previsti per il giovedì pomeriggio. La chiusura giunge con “Wish You Well”, dopo la quale è il momento di spostarsi nuovamente di fronte ai due palchi maggiori per quella che si prospetta una prima serata ricca di emozioni contrastanti.
(Gabriele Mucignat)

DOKKEN

Sul Faster Stage spetta al mitico Don Dokken il compito di dare effettivamente il via alla carrellata di grandi band che compongono il bill della prima giornata di uno dei festival rock/metal più importanti del mondo. Dopo l’introduzione a base di “Without Warning”, la band capitanata dal noto vocalist statunitense fa capolino sul palco sulle note della aggressiva “Kiss Of Death”, sin dalla quale appare evidente che le indiscrezioni che descrivono la voce di Don come eccessivamente stanca e sprovvista del piglio di una volta sono, purtroppo, da considerarsi veritiere: nonostante parte del suo timbro riesca ancora a risultare accattivante, gli anni passati lo hanno reso decisamente affaticato e non in grado di interpretare al meglio brani intramontabili come “The Hunter”, “Into The Fire”, “Breaking The Chains”, “Dream Warriors”. Riguardo alla band che lo accompagna, invece, c’è poco da dire, trattandosi di professionisti dotati di capacità senza dubbio sopraffine: il recente ingresso al basso Chris McCarvill non ha nulla da invidiare a chi lo ha preceduto, così come il buon Mick Brown alla batteria riesce ancora a dare la giusta carica dopo quasi quarant’anni; anche se le attenzioni positive sono tutte per il chitarrista Jon Levin che, pur dovendo necessariamente reggere il confronto con predecessori illustri come George Lynch e Reb Beach, riesce comunque a incantare il pubblico con i suoi assoli e il suo tocco preciso e grintoso. Sulle note della toccante “In My Dreams” si conclude un concerto fatto di luci e ombre, con numerosi momenti di esaltazione guastati però dall’amarezza per via della condizione vocale dell’iconico frontman, il quale dovrebbe forse tenere in considerazione l’idea di interrompere il suo cammino prima di rischiare di far tracollare la situazione, col conseguente risultato di compromettere la propria immagine, ancora così luminosa per tutti gli amanti delle sonorità classiche. Tuttavia l’impegno c’è stato, così come la voglia di fare del proprio meglio, e per questo vogliamo comunque promuovere lo show dei Dokken, anche perché è con l’esibizione successiva che cominciano i veri dolori.
(Roberto Guerra)

VINCE NEIL

A seguito del ritiro dalle scene dei Mötley Crüe, avvenuto ormai quasi tre anni fa, appare evidente che l’unico modo per poter nuovamente ascoltare in sede live dei pezzi storici come “Shout At The Devil”, “Kickstart My Heart” e “Girls Girls Girls” cantati dalla voce originale, consiste nel presenziare ad un appuntamento live con il gruppo solista di Vince Neil, noto ex frontman della suddetta band divenuta famosa nei decenni per via dell’attitudine esuberante, la voglia di esagerare e soprattutto l’intento di offrire ai fan uno show divertente e sopra le righe. Esattamente tutto quello che è mancato in questa esibizione, iniziata già nel peggiore dei modi con una “Dr. Feelgood” esausta e cantata in maniera totalmente stonata e fuori tempo, che lascia decisamente mal sperare per una scaletta interamente basata sui classici dei Crüe, tra i quali presenziano anche “Same Ol’ Situation (S.O.S.)”, “Home Sweet Home” e “Wildside”; particolare inoltre la scelta di inserire in scaletta la cover di “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin. Il tallone di Achille è proprio lo stesso Vince Neil, afono e perennemente senza fiato, con addirittura meno voce delle backing supportate dagli altri componenti del gruppo, dei quali non ci sentiamo di dire nulla di eccessivamente negativo dal momento che, a livello strumentale, tutto pare funzionare piuttosto bene. Inutile ribadire che piange il cuore a sentire brani di un certo calibro tormentati da una prestazione vocale così misera, abbinata anche a una presenza scenica goffa, anonima e, a tratti, comica. Alla luce di tutto ciò è ironico notare che, nonostante si sia solo all’inizio, potremmo aver già assistito alla peggiore esibizione dell’intero Wacken Open Air 2018.
(Gabriele Mucignat)

DIRKSCHNEIDER

Per quanto fosse stato reso chiaro sin da subito che si trattasse di una soluzione temporanea, è tuttavia innegabile che il periodo voluto dedicare dal buon Udo alla prima e apprezzata parte della propria carriera si stia prolungando per un lasso di tempo non indifferente, tant’è che sono già moltissime, ad oggi, le volte in cui è stato possibile assistere ad un concerto interamente focalizzato sugli anni ’80 e sugli album più storici degli Accept. In quest’occasione sembra che il più rappresentativo tra i vocalist teutonici voglia fare nuovamente le cose in grande, proponendo un concerto lungo e ricco di estratti non propriamente prevedibili, tra cui spiccano decisamente le iniziali “The Beast Inside” e “Aiming High”, fino alle inaspettate “Love Child” e “Russian Roulette”; tutto ciò chiaramente senza dimenticare gli immancabili cavalli di battaglia come “Restless And Wild”, “London Leatherboys”, “Breaker” e così via. Lo squadrone che lo accompagna si dimostra come di consueto degno di nota, grazie alla resa generale pulita e coinvolgente di una setlist che più di un ascoltatore proporrebbe per essere insegnata nelle scuole; fa inoltre molto piacere vedere nuovamente alla chitarra il buon Stefan Kaufmann, il quale rappresenta a suo modo un altro pezzo di storia degli Accept, la cui attuale formazione, bisogna ammetterlo, rimane tuttavia imbattibile per quanto riguarda il carisma, l’esecuzione e l’interpretazione di ogni singola traccia. L’encore è tutto sommato abbastanza prevedibile, con un quartetto di inni intramontabili quali “Metal Heart”, “Fast As A Shark”, “I’m A Rebel” e “Balls To The Wall”, dopo la quale ci saremmo aspettati anche una conclusione a sorpresa con “Burning”, purtroppo non pervenuta. Una durata da headliner quella del concerto di Udo, il quale ha avuto modo di proporci ben diciassette estratti prima di congedarsi, lasciando il posto ai Behemoth e agli ultimi due atti di questa prima assolata giornata di Wacken. Non abbiamo modo di dirvi con certezza per quanto tempo continuerà ancora questo periodo di stampo amarcord ad opera del vocalist ormai sessantaseienne, anche in vista del nuovo album in uscita tra poche settimane, però è certo che, a prescindere dalle critiche, una setlist così non la si può certo sentire tutti i giorni.
(Roberto Guerra)

BEHEMOTH

La giornata è ancora calda alle 19, ma non c’è alcun dubbio che i polacchi Behemoth siano in grado di renderla a dir poco infernale, grazie anche alla potenza del loro muro sonoro ed all’utilizzo di fiamme ed effetti pirotecnici vari sull’Harder stage. La variegata scaletta si compone di numerosi estratti dall’ultima decade, che trovano i primi rintocchi in “Ov Fire And The Void”, “Demigod” e “Ora Pro Nobis Lucifer”, rese alla perfezione da dei componenti in piena forma e visibilmente in grado di far tremare gli accaldati presenti, in particolar modo il carismatico frontman Nergal, che non ha esitato a far valere la sua formidabile presenza scenica durante tutto l’arco dell’esibizione. Ad impreziosire ulteriormente la performance, troviamo anche l’esecuzione live in anteprima mondiale del nuovo singolo “God = Dog”, divenuto disponibile online poche ore prima, il quale, assieme a “Wolves Of Siberia”, fornisce una succosa anticipazione di ciò che ci aspetta nel nuovo album “I Loved You At Your Darkest”, in uscita ad ottobre. I suoni potenti e ben bilanciati contribuiscono in modo eccellente alla riuscita di uno dei migliori show della giornata, con il susseguirsi di classici di spessore come “Chant Of Eschaton 2000” e “Decade Of Therion”, assieme ad altri capisaldi come “At The Left End Ov God”, “Alas, Lord Is Upon Me”, “Slaves Shall Serve” e “Conquer All”. A completare il quadretto ovviamente non mancano altri brani estratti da “The Satanist”, quali “Blow Your Trumpets Gabriel”, “Messe Noir” e la conclusiva “O Father O Satan O Sun”, sfumata proprio durante il tramonto di un Sole ardente, che tuttavia non ha impedito al gruppo di dimostrare il proprio valore sul palco.
(Gabriele Mucignat)

DANZIG

Decisamente una giornata sfortunata per i cantanti, quella di oggi: dopo la prova alquanto stanca di Don Dokken e lo scempio totale combinato da Vince Neil, sembrerebbe che anche lo show del nerboruto Glenn Danzig sia destinato ad essere minato da una prestazione vocale non all’altezza delle aspettative. Sin dalla iniziale “SkinCarver” si può notare apparentemente un volume della voce piuttosto basso, ma già dalle successive “Eyes Ripping Fire” e “Devil On Hwy 9” ci si rende conto che il problema non risiede nell’impianto di amplificazione, quanto nella voce stessa del corpulento vocalist, chiaramente non in salute e con delle evidenti difficoltà tanto a cantare, quanto a parlare tra un brano e l’altro. Gli unici momenti in cui è possibile scorgere una parvenza del suo famoso timbro sono da ricercare nelle numerose fasi più urlate, il che permette ai presenti di cercare almeno in parte di godersi estratti come “Am I Demon”, “Tired Of Being Alive” e, soprattutto, “Mother”, cantata con praticamente tutto il pubblico a dare il proprio supporto. I musicisti che affiancano il signor Danzig fanno del loro meglio per fornire uno spettacolo degno del nome, riuscendo solo in parte a distogliere l’attenzione dalla fatica del frontman, e non basta un encore a base di “She Rides” e “Snakes Of Christ” a risollevare le sorti di un concerto piuttosto amaro e sfortunato, dopo il quale l’intero pubblico si prepara ad accogliere i Metal Gods per eccellenza, sperando che la trafila di cantanti svociati abbia trovato la sua conclusione.
(Roberto Guerra)

JUDAS PRIEST

Dopo aver goduto come dei ricci durante lo show dei Judas Priest tenutosi al Rock Fest di Barcellona, potevamo forse rinunciare a fare il bis di una delle, a parer nostro, migliori esibizioni di quell’occasione? Naturalmente no e infatti, dopo l’intro a base di “War Pigs” dei Black Sabbath e durante i primi rintocchi della iniziale title-track dell’ultimo album “Firepower”, l’esaltazione si impossessa immediatamente di ogni metallaro schierato di fronte all’Harder Stage, anche grazie a dei suoni perfetti sin da subito e a un Rob Halford nuovamente in grande spolvero e intenzionato a dare sfoggio della sua ritrovata ugola d’acciaio. La setlist è anche questa volta caratterizzata da numerosi estratti provenienti dall’apprezzato, seppur da alcuni sottovalutato, periodo degli anni’70, tra cui “Sinner”, “The Ripper” e “Saints In Hell”; naturalmente senza trascurare il decennio successivo, che resta il più amato per più di una valida ragione, e quando sentiamo tracce come “Grinder”, “Bloodstone” e “Turbo Lover” non riesce difficile crederlo. Con quest’ultima si conclude anche la prima metà del concerto, che riprende nel più fragoroso dei modi sulle note di “Tyrant”, rallentando poi con “Night Comes Down” e per poi esplodere nuovamente sulla micidiale “Freewheel Burning”, eseguita in maniera impeccabile anche grazie ai due giovani addetti alle sei corde che, per quanto non possano competere con i nomi di chi li ha preceduti, sono comunque riusciti a dare un tocco di rinnovata potenza al sound dei Priest. Neanche a dirlo, dopo essersi deliziati sulle note di “You’ve Got Another Thing Comin’” e “Hellbent For Leather”, il momento di massima esaltazione del concerto giunge in concomitanza della attesa e violentissima “Painkiller”, dopo la quale, tuttavia, c’è posto anche per le lacrime poiché, anche questa volta, il nostro caro Glenn Tipton ha ben pensato di farci una sorpresa unendosi al resto della band on stage, per l’esecuzione del trittico finale a base di “Metal Gods”, “Breaking The Law” e “Living After Midnight”. Inutile dire che le ovazioni successive sono tutte per lui, fino alla conclusione di quella che non si può non etichettare come la miglior esibizione di questa prima giornata di festival, al termine della quale non possiamo far altro che dire ancora una volta ‘grazie’ alla band che ha reso l’heavy metal quello che tutti noi amiamo e che, per giunta, ancora oggi riesce ad emozionarci come pochi altri colleghi sono in grado di fare. Ora, prima di andare a dormire, è il momento di bersi una birra in compagnia di un po’ di sano metallo nero.
(Roberto Guerra)

GAAHL’S WYRD

Dopo lo svuotamento dei main stage la scena si sposta sui palchi al chiuso, poiché l’appuntamento più atteso dai cultori del black metal norvegese sta per avere luogo sul W:E:T Stage, in occasione dell’esibizione dei Gaahl’s Wyrd, progetto solista di una delle personalità indubbiamente più influenti del genere, con alle spalle una premiata militanza nei Gorgoroth e nel precedente progetto God Seed, abbandonato nel 2015 a causa di divergenze con il bassista Tom Cato Visnes (alias King Ov Hell). “Carving A Giant” è l’esordio di una scaletta molto ricca di altri classici dei Gorgoroth, come “Sorg”, “Sign Of An Open Eye” e la sorprendente “Prosperity And Beauty”, i quali sicuramente rappresentano i pezzi da novanta di questo concerto, come si può dedurre anche dalla risposta della discreta folla accumulatasi sotto il tendone. Non sono mancate nemmeno delle parentesi dedicate ai God Seed, come ad esempio “Alt Liv”, e addirittura estratti più datati dal vecchio progetto Trelldom. Tirando le somme, un’esibizione molto valida e, nonostante tutto, particolarmente accesa, con la dovuta dose di melodie tetre e doppia cassa martellante rese in maniera adeguata grazie a dei suoni chiari e robusti, con un Gaahl placido ma comunque teatrale nell’annuncio dei brani; il tutto sotto un contrasto di luci verdi e blu che hanno contribuito, assieme alle abbondanti dosi di fumo, a ricreare la giusta atmosfera, nonostante una scenografia praticamente assente.
(Gabriele Mucignat)

 

 

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